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martedì 23 luglio 2024

IL PASTORE PANASCIA, LE CHIESE E LA MAFIA: UNA PUNTATA DI "PROTESTANTESIMO" SU RAI 3

Domenica 21 luglio 2024, su Rai 3, la puntata settimanale della trasmissione "Protestantesimo" è stata dedicata al pastore valdese Pietro Valdo Panascia (con particolare attenzione all'atteggiamento delle chiese cristiane nei confronti della mafia).

Chi è interessato a queste tematiche, di rilevanza civile oltre che religiosa, può regalarsi 29 minuti di visione:

La puntata "Protestantesimo" del 21.7.24 su chiese e mafia 

mercoledì 22 maggio 2024

DUE LEZIONI ATTUALI DEL MARTIRIO DI DON PINO PUGLISI

DUE LEZIONI ATTUALI DEL MARTIRIO DI DON PINO PUGLISI

La vicenda storica di don Pino Puglisi è stata raccontata ormai molte volte, anche al cinema (ovviamente con risultati non sempre ottimali: il pur bravo Luca Zingaretti, ad esempio, nel film Alla luce del sole di Roberto Faenza, ha una propensione al cipiglio che non ricordo di aver mai notato sul volto del parroco palermitano). 

Può riuscire interessante mettere a fuoco, invece, alcuni significati di questa vicenda.

Il primo, di carattere sociologico, presenta una portata generale: la co-responsabilità dei “buoni” nell’assassinio di una vittima. Se la stragrande maggioranza dei medici firma certificati falsi per scongiurare la detenzione di un boss, quando un medico si rifiuta va punito. Se la stragrande maggioranza degli imprenditori paga il pizzo, quando un imprenditore si rifiuta va punito. E così via per tante altre categorie professionali. Il clero cattolico non fa eccezione: se la stragrande maggioranza dei preti non trova nulla da obiettare al dominio territoriale dei mafiosi (e dei loro referenti politici), quando un prete rifiuta la collusione (o almeno il silenzio complice) va punito. Se non si riflette su queste dinamiche non si può capire davvero l’allarme di Martin Luther King sull’indifferenza degli indifferenti, a suo parere più pericolosa della violenza dei violenti. Né si può capire perché ogni retorica esaltatrice di un martirio (religioso o civile) è del tutto fuori luogo: le vicende di  Josef Mayr-Nusser  e di Franz Jägerstätter sono un eloquente atto di accusa verso i loro contemporanei  che accettarono supinamente l’arruolamento nell’esercito nazista. 

***

Per completare la lettura dell'articolo, basta un click qui:

https://www.zerozeronews.it/la-molteplice-attualita-del-martirio-di-don-pino-puglisi/

sabato 15 luglio 2023

LE DUE CUPOLE: PERCHE' LA COMMISSIONE VATICANA SULLE MAFIE PLANETARIE HA INTERROTTO I LAVORI?


 “ADISTA/ SEGNI NUOVI”

N.26 DEL 22.7.2023

 

LA MAFIA, LA CHIESA, IL VATICANO

 

Che cosa distingue le organizzazioni criminali ‘comuni’ dalle associazioni di stampo mafioso?

Alle prime interessa il denaro; alle seconde interessa il denaro e soprattutto il potere: per questo i criminali ‘generici’ sono contro lo Stato, i mafiosi vogliono entrare nei gangli dello Stato. Questa differenza negli scopi cui si mira spiega una differenza anche dei mezzi adottati: il criminale-e-basta usa esclusivamente la violenza, il mafioso ricorre alla violenza solo come extrema ratio, quando non ottiene in altro modo il consenso, la complicità, l’obbedienza. Per ottenere tale consenso sono importanti vari linguaggi, tra cui il teologico-religioso: se il boss è un devoto di Cristo, della Madonna, dei santi; se celebra solennemente in chiesa le tappe fondamentali dell’esistenza propria e dei familiari; se si mostra munifico di aiuti economici alle parrocchie, alle congregazioni cattoliche, agli istituti confessionali di beneficenza...chi potrebbe mettere in dubbio l’insostituibile preziosità del suo ruolo sociale? Perché non gli si dovrebbe almeno altrettanta fiducia che nel sindaco, nel comandante della stazione dei carabinieri, nel parroco? 

Questi dati spiegano perché solitamente le associazioni mafiose si caratterizzano per credenze, simboli, cerimonie, norme morali di origine religiosa (sia che vengano trasposte senza alterazioni sia che vengano modificate e adattate strumentalmente): ciò lo si riscontra non solo in aree tradizionalmente cattoliche, come il Meridione italiano, ma anche nel caso di “nuove” mafie come la mafia russa o la mafia nigeriana. 

E’ arrivata come gradevole sorpresa, dunque, nel maggio del 2021 la notizia che il Vaticano aveva istituito un gruppo di lavoro sul tema dei rapporti fra Chiesa cattolica e organizzazioni mafiose, con particolare riferimento alla problematica concernente la “scomunica” canonica degli aderenti a tali organizzazioni criminali. Non meno sorprendente – ma questa volta non altrettanto gradevole – arriva in questi giorni, dal periodico francese La Croix,  la notizia che quel gruppo di lavoro ha interrotto gli incontri. Non si sa se definitivamente o provvisoriamente. Perché questa decisione (per altro, almeno sino ad oggi, non resa pubblica)? E’ arrivato a conclusioni soddisfacenti (quali?) o, scavando nel terreno, si sono toccati fili sotterranei pericolosamente imbarazzanti? 

I collegamenti fra le cosche e gli ambienti clericali, nei Paesi a maggioranza cattolica, sono infatti ben noti e vicende come gli affari dello IOR o l’assassinio del banchiere Calvi a Londra hanno attestato che questi collegamenti sono arrivati a Roma, al centro del cattolicesimo (cfr. il convegno Le due cupole organizzato a Roma da “Adista” nel 2011). 

Ma c’è qualcosa di più preoccupante, anche se la stampa e gli altri media si fermano alle notizie clamorose di cronaca nera. Ed è qualcosa che non riguarda solo la Chiesa cattolica, ma anche altre Chiese cristiane, perché coinvolge il patrimonio dottrinario comune per millenni a diverse confessioni religiose.  Infatti alcuni di noi, studiando la questione, siamo arrivati alla convinzione che fra il Dio dei mafiosi e il Dio dei cristianesimi tradizionali (per altro ritenuti da molti gli unici cristianesimi accettabili) vi siano delle inquietanti analogie: in entrambe le prospettive, infatti, si pensa Dio come Essere che gestisce, arbitrariamente, la propria “onnipotenza”; che “punisce” con sofferenze di ogni genere i peccatori e i loro discendenti; che viene acquietato solo dalla morte in croce del suo stesso Figliolo e così via. Un Dio, insomma, più padrino che padre. 

Tali analogie (su cui la riflessione “post-teistica” e “post-religionale” di questi ultimi anni può gettare fasci di luce istruttivi) si riversano, a cascata, nelle altrettanto inquietanti somiglianze fra l’organizzazione verticistica e gerarchica delle cosche e le strutture istituzionali di molte Chiese cristiane, ricalcate sul modello degli Imperi mondani (romano, russo o britannico che sia). 

Se questi rapidi cenni sono veritieri, si intuisce perché Chiese come la cattolica romana possano avere serie perplessità e riserve nell’approfondire la tematica sia a livello di analisi che a livello di terapia. Infatti, per contribuire allo smantellamento delle associazioni mafiose, le Chiese dovrebbero rivedere la propria teologia e la propria catechesi; inoltre rifondarsi alla luce del modello evangelico in cui la fraternità, la condivisione, la solidarietà e la nonviolenza costituivano una novità radicale rispetto ai valori del patriarcato, della stratificazione sociale, dell’autoritarismo prevaricatore e delle intimidazioni repressive. 

Nell’attesa di saperne di più, dalla Germania arriva una notizia confortante: a Berlino si è svolta una conferenza di cinque giorni, preparata dalla commissione episcopale “Justitia et Pax”,  dedicata a ripensare l’attenzione (sinora molto scarsa) della Chiesa tedesca ai casi di criminalità organizzata. L’idea è di affrontare in maniera “cattolica” (nell’accezione etimologica di “universale”) un fenomeno che, lungi dal restare periferico e locale, è da decenni ormai “globalizzato”. Simile strategia non può non essere apprezzata e condivisa da quanti siamo convinti che le Chiese (e anche le Comunità religiose non-cristiane sempre più presenti in Europa) dovrebbero occuparsi del sistema di dominio mafioso non solo a titolo di supporto dell’azione giudiziaria degli Stati, ma anche – e direi prima ancora – per destrutturare un modo di pensare e di vivere che impedisce la semina dell’annunzio evangelico come di altri messaggi religiosi improntati alla ricerca cel Bene comune, della convivenza pacifica fra i popoli e della salvaguardia del cosmo.

 

Augusto Cavadi

(L’autore ha pubblicato, tra altri saggi sul tema, il volume Il Dio dei mafiosi, San Paolo 2009).

 

mercoledì 1 febbraio 2023

IL VESCOVO DOMENICO MOGAVERO E LA «PIETA'» PER MATTEO MESSINA DENARO



 

PIETA' PER MATTEO MESSINA DENARO? POCA, TROPPA, NESSUNA ?

Intervistato all'improvviso, all'uscita da una chiesa della sua ex-diocesi di Mazara del Vallo, il vescovo emerito Domenico Mogavero, visibilmente commosso al ricordo – fra i tanti delitti di Matteo Messina Denaro – della feroce eliminazione del piccolo Di Matteo, ha dichiarato: “Non è uomo per cui possiamo provare troppa pietà. Ha ammazzato troppo”.

Come avviene in queste circostanze, la frase del prelato ha dato la stura a una girandola di commenti contrastanti, accomunati – forse unanimemente – da una caratteristica: l'assenza di qualsiasi tentativo di capire, di decifrare, prima di sputare la propria sentenza.

Conosco don Mogavero da più di mezzo secolo, ma non così bene da potermi spacciare per suo interprete autorizzato. Perciò, lasciando a lui i chiarimenti su ciò che intendesse affermare, mi limito a commentare la sua asserzione.

La parola-chiave mi pare “pietà” che, avendo smarrito il significato etimologico latino (devozione verso i genitori, gli antenati e gli dei), nell'italiano corrente oscilla fra varie accezioni semantiche.

In un primo senso, il termine allude a un sentimento emotivo di commiserazione suscitato dalla vista di qualcuno che soffre manifestamente. Questo moto psichico si traduce, talora, in piccoli gesti di solidarietà 'corta' come l'elemosina al barbone accucciato su un cartone all'angolo di una strada. Le immagini di un boss ormai non più giovane, in uno stato di salute fortemente compromesso, se non addirittura in fase terminale, potrebbero suscitare questo genere di “pietà”? 

L'ex-vescovo di Mazara del Vallo non sembra escludere questa evenienza e, perciò, mette in guardia l'opinione pubblica dal rischio di un simile “buonismo” a poco prezzo. E' vero che , dopo decenni di sangue, si avverte una stanchezza intima cui si potrebbe reagire – forse anche inconsciamente – con il desiderio di chiudere la parentesi storica della mafia stragista. Però sarebbe un desiderio non solo cieco (nessuno può garantire che i mafiosi ancora liberi rinunzino alla violenza metodica, se necessario eclatante), ma anche immorale perché comporterebbe una sorta di riconciliazione, di riappacificazione, con nemici che non sono minimamente pentiti dei crimini consumati. Nessuno ha diritto di perdonare gli assassini se non le vittime, che però non sono più in grado di farlo – o, per lo meno, di comunicarcelo. 

Ciò che il presule non aggiunge – a mio parere si tratta di omissioni comprensibili nella concitazione di chi risponde a un'intervista inaspettata – è che, esclusa la “pietà” superficiale da telenovela, esiste almeno una seconda accezione del vocabolo: che è la comprensione, razionale e sentimentale, dell'infelicità altrui con il conseguente desiderio che tale infelicità non si aggravi, ma anzi possa in qualche misura essere lenita. Per sperimentare questo stato d'animo occorre una notevole maturità interiore e una saggezza non proprio di tutti. Esso è infatti il corrispettivo – uguale e contrario – dell'odio, dell'ardente sete di vendetta. 

Ebbene, in questo significato, può una persona – tanto più se si riconosce negli insegnamenti evangelici – provare “pietà” per Matteo Messina Denaro?

Se coltivare il risentimento nei suoi confronti ci facesse star meglio, se la vista delle sue ferite alleviasse le nostre cicatrici, se la sua morte arricchisse la qualità della nostra vita, la risposta sarebbe ovviamente negativa. Ma, se ragioniamo con un minimo di distacco emotivo sulla base dei dati offerti dalla storia – dalla grande storia e dalle nostre piccole storie -, sappiamo che non è così. A noi “conviene” che Matteo Messina Denaro, invece di sprofondare nell'inferno della disperazione in cui si trova o in cui si è trovato per sua stessa ammissione, recuperi un minimo di dignità ai propri stessi occhi e decida di intraprendere l'unica strada che può salvarlo (non dall'ergastolo a vita né dall'inferno dei teisti, quanto dalla convivenza irreversibile con il proprio io peggiore): la resipiscenza e la collaborazione con gli organi giudiziari. 

Già in una lettera confidenziale del 1 febbraio 2005 scriveva: “Veda, io ho conosciuto la disperazione pura e sono stato solo, ho conosciuto l'inferno e sono stato solo, sono caduto tantissime volte e da solo mi sono rialzato; ho conosciuto l'ingratitudine pura da parte di tutti e di chiunque e sono stato solo, ho conosciuto il gusto della polvere e nella solitudine me ne sono nutrito; può un uomo che ha subito tutto ciò in silenzio avere ancora fede? Credo di no” (M. Messina Denaro, Lettere a Svetonio, a cura di S. Mugno, Stampa Alternativa, Roma 2008, p. 58). Quanto alla morte, aggiungeva il 22 maggio dello stesso anno, “non la temo, non tanto per un fattore di coraggio, ma più che altro perché non amo la vita, teme la morte chi sta bene su questa terra e quindi ha qualcosa da perdere, io non ci sono stato bene su questa terra e quindi non ho nulla da perdere, neanche gli affetti perché li ho già persi nella materia già da tanti anni” (p. 68). 

PER COMPLETARE LA LETTURA BASTA UN CLICK QUI:

https://www.zerozeronews.it/pieta-per-messina-denaro-e-lui-che-deve-avere-pieta-di-se-stesso/

mercoledì 3 agosto 2022

CHIESA CATTOLICA E MAFIA SICILIANA DALL'UNITA' D'ITALIA (1861) AL VATICANO II (1962 - 1965)


 “Adista Segni Nuovi”

6.8.2022

CHIESA E MAFIA LUNGO LA STORIA. LA DEMOCRAZIA SALVA LA VITA

Don Francesco Michele Stabile è stato lo storico della Chiesa cattolica che per primo, negli anni Settanta del secolo scorso, ha rotto il silenzio sulle relazioni pericolose fra il mondo ecclesiale e il mondo delle mafie. Innumerevoli i suoi libri, articoli, interventi in convegni e assemblee su questa spinosa tematica. E di segno opposto le reazioni, ora ammirate ora adirate, che ha suscitato il suo infaticabile lavoro di ricercatore, ma anche di operatore pastorale e sociale. Poiché la maggior parte della produzione saggistica, anche a firma sua, si è occupata dei decenni dal 1963 (anno della strage di Ciaculli) a oggi, Stabile ha ritenuto opportuno concentrarsi sul lungo periodo precedente: dall'unità d'Italia (1861) agli inizi del Concilio Vaticano II (1962 – 1965). E' nato così il monumentale, imperdibile, volume La Chiesa sotto accusa. Chiesa e mafia dall'unificazione italiana alla strage di Ciaculli, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2022, pp. 546, euro 42,00: un testo certamente impegnativo, nonostante lo stile scorrevole e piano dell'autore, ma che non potrà mancare nelle biblioteche – ecclesiastiche e 'laiche' – degli Istituti di ricerca interessati alla complessiva storia moderna e contemporanea del nostro Paese.

Diciamo subito che la lettura di queste pagine risulterà deludente a chi si aspetti o una critica amara, rabbiosa, da parte di un prete cattolico nei confronti della propria Chiesa di appartenenza, o – all'opposto - un'avvocatesca apologia che giustifichi errori e omissioni ecclesiali: come ogni opera storiografica autentica, anche questa infatti è mossa né da ira polemica né da zelo missionario, bensì dalla pacata, inesorabile, volontà di capire come sono andate effettivamente le cose.

Nell'impossibilità di riassumere più di cinquecento pagine, fitte di note che per giunta rimandano ad altri titoli e a varie fonti archivistiche, possiamo limitarci ad ascoltare le conclusioni che don Stabile stesso trae nella sua Postfazione: “Incontriamo, nella storia dei primi cento anni di confronto della Chiesa siciliana con la realtà mafiosa, peccatori, martiri e profeti. Mi pare comunque, nonostante rilevanti limiti e ritardi, sia da correggere una immagine di Chiesa totalmente agnostica sulla mafia, tutta indifferente, tutta tollerante, tutta compromessa, come sembra risultare da certe ricostruzioni giornalistiche. Il mondo ecclesiale ha vissuto purtroppo nel bene nel male sul fronte della mafia fino al Concilio Vaticano II le stesse incertezze, la stessa indifferenza, gli stessi limiti di comprensione, di silenzi, e, in alcuni casi, di compromessi, che erano propri di tutta la società siciliana. La lunga marcia della Chiesa tra silenzi e parole per approdare a orizzonti nuovi e a un nuovo protagonismo nella liberazione dalla mafia è continuata nell'ultimo trentennio del Novecento e continua nel primo ventennio del Duemila, coinvolgendo non solo la Chiesa siciliana ma tutta la Chiesa italiana e lo stesso papato. Ritengo che nella storia della liberazione dell'isola dalla mafia una parte non secondaria l'abbia svolta anche la Chiesa con il sacrificio dei preti uccisi dalla mafia, e continua a svolgere in collaborazione con le forze più sane della società. Il cammino però è ancora lungo perché non tutti i componenti del mondo ecclesiale hanno maturato questa consapevolezza, anzi si nota una certa resistenza a costruire il regno di Dio nella storia, limitandosi solo alla conversione individuale, certamente necessaria. C'è bisogno di convertire anche le strutture di male presenti in questo mondo e la mafia è un male strutturale che richiede un impegno specifico della Chiesa”. 

In cosa potrebbe consistere questo “impegno specifico”? Stabile lo esplicita: “L'alternativa profetica che la Chiesa può offrire a una società atomizzata, piena di contraddizioni sociali e politiche, devastata dalla mafia, dal clientelismo e dalla corruzione, è la costruzione di un cattolicesimo di comunità di fede coerenti, nelle quali vivere relazioni umane ricche dello spirito alternativo di Gesù Cristo, e collaborare, con modalità ispirate dal Vangelo, alla realizzazione di una società giusta e partecipata dove il potere diventi servizio. Solo nella demistificazione del potere si può svuotare l'ideologia della mafia che del potere come dominio fa l'essenza del suo esistere. E questo è compito della Chiesa in ogni situazione in cui l'esercizio del potere diventa dominio dell'uomo sull'uomo”. 

Ma – è questo un punto su cui anche quanti di noi sono grati ammiratori dell'opera storiografica di don Stabile aspettano da decenni parole chiare – come può un 'istituzione verticistica, gerarchica, modellatasi secondo l'Impero romano prima e le monarchie assolute dopo, diventare – al di là delle belle frasi a effetto - modello di esercizio del potere come servizio? Quando Stabile afferma che la Chiesa cattolica è “chiamata confessare anche il proprio mea culpa davanti a Dio e alla società per il ritardi nella sua conversione”, sembra riferirsi agli inevitabili 'peccati' dei singoli senza mettere in discussione l'impianto complessivo della Chiesa. Qui bisognerebbe afferrare il toro per le corna: o Gesù e Paolo hanno pensato e voluto una Chiesa sostanzialmente piramidale (e allora bisogna rassegnarsi a costituire, nei secoli, più un modello piramidale per altre organizzazioni che un contro-esempio alternativo) oppure ha ragione tutto il mondo riformato, da Lutero a oggi, che riconosce come fedele al dato biblico solo un assetto 'democratico' o, come direbbe Aldo Capitini, “omnicratico” (e allora la Chiesa cattolica deve accelerare un processo di 'rifondazione' che solo le impedirebbe di costituire un modello organizzativo anche per le cosche mafiose). 

L'obiezione a queste perplessità – mie e non solo mie – è abbastanza prevedibile: non è compito dello storico in quanto tale, ma se mai del teologo, avanzare critiche di principio, di metodo, alle strutture portanti della Chiesa. Da Hans Küng a Eugen Drewermann, da Leonard Boff a Ortensio da Spinetoli, molti hanno provato a occuparsi di questo versante della problematica: ma sappiamo come sono stati trattati dal Magistero. La “radicalità” evangelica invocata da Stabile potrà essere vissuta dalla Chiesa sino al punto da accettare che dei suoi stessi figli (non stiamo parlando di 'avversari' e 'mangiapreti' !) si interroghino sui fondamenti dell'ecclesiologia dominante da Innocenzo III e Bonifacio VIII sino addirittura allo stesso Francesco, che rischia lo scisma ogni volta che osa proporre ritocchi e limature molto meno rilevanti?

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

domenica 28 novembre 2021

PERCHE' ANCORA STATUE DI SANTI CATTOLICI SI INCHINANO DAVANTI CASE DI BOSS MAFIOSI?

LE INCONFESSABILI CONNIVENZE FRA CHIESA CATTOLICA E MAFIE

 

In tutte le culture inchinarsi è un segno di reverenza, spesso anche di subordinazione. Nell’Italia meridionale – dove il senso della ‘comunità’, basata sui rapporti personali, prevale sul senso della ‘società’, basata sulle regole oggettive – esso possiede ancestralmente un forte valenza simbolica. E’ facile intuire, dunque, quanto credito sociale guadagna un boss mafioso se la statua della Madonna o di un santo protettore, nel corso di una processione, si ‘inchina’ in segno di omaggio davanti la sua abitazione: nel linguaggio espressivo dei segni, equivale a farsi proclamare Dio. O qualcosa di molto vicino al divino.  

Su questo fenomeno non mancano le documentazioni giornalistiche né i commenti occasionai di vari studiosi, ma solo in questi giorni esso è diventato oggetto di uno studio organico nel volume di Davide Fadda, L’inchino. Santi, processioni e mafiosi nel Meridione italiano (Di Girolamo, Trapani 2021, pp. 168, euro 20,00). 

Il giovane autore è partito da due casi di studio (le processioni della Madonna delle Grazie a Oppido Mamertina e della Madonna del Rosario a San Paolo Bel Sito) e, con l’aiuto di alcuni esperti sui rapporti fra le chiese e le mafie (tra cui don Francesco Michele Stabile, Salvatore Lupo e Giancarlo Caselli), ha inserito questi due episodi di cronaca nel quadro complessivo della religiosità cattolica mediterranea e delle strategie attuate costantemente dalle cosche criminali per strumentalizzarla ai fini della propria legittimazione. Tale strumentalizzazione risulterebbe disagevole se dovesse fare i conti con una chiesa più fedele al messaggio originario di Cristo, più libera perché concentrata su principi di giustizia e di fraternità solidale; non – come invece avviene – con una chiesa “fortemente gerarchizzata”, diventata “una delle potenze indiscusse nel panorama politico europeo per quasi duemila anni” (p. 37).

Il quadro che viene restituito è variegato sia nel tempo che nello spazio: la storia scorre, per fortuna, anche sotto i ponti del Meridione italiano, così che in alcune cittadine le amministrazioni locali – in linea con la tradizione -  chiudono un occhio (o tutti e due gli occhi); in altre, invece, anche per il coraggio personale di alcuni esponenti delle istituzioni civili e religiose, il disegno egemonico dei mafiosi viene smascherato, denunziato e smantellato. Già, il coraggio che – sostiene Fadda – “significa non solo staccarsi da una proposta sociale e culturale «sbagliata» ma non cedere, per quanto possibile, alla nostra paura principale, che è morire” (p. 146). 

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giovedì 14 ottobre 2021

LIVATINO, PUGLISI, DIANA: TESTIMONI DELLA GIUSTIZIA NEL MERIDIONE ITALIANO


"Il Tetto"
344 - 345

 Massimo Naro - Sergio Tanzarella (a cura di), Martiri per la giustizia, martiri per il Sud. Livatino, Puglisi, Diana, testimoni della speranza, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2021, pp. 229, euro 23,00.

 

La storia delle chiese cristiane è contrassegnata, sin dalle origini, dal culto dei martiri. Dovremmo dire – dal momento che ‘martire’ è il vocabolo greco per designare il ‘testimone’ – dei martiri per eccellenza: di quei testimoni ‘ordinari’ che, di fronte alle minacce estreme, hanno preferito morire anziché rinnegare la fede, diventando così ‘straordinari’.

Sino a qualche decennio fa questo schema è rimasto, sostanzialmente, immutato: la chiesa cattolica (come le chiese ortodosse) propone alla venerazione dei fedeli solo chi cade assassinato da infedeli a causa della sua fede religiosa. Ma la storia del Novecento e del nostro secolo registra casi che mettono in crisi  tale schema. Per esempio, Massimiliano Kolbe è stato trucidato da cristiani (cattolici e protestanti) obbedienti a Hitler: si può dire che sia stato un “martire della fede”? Paolo VI coniò per lui la formula “martire dell’amore”. E, in effetti, sarebbe logico separare la “fede” dall’ “amore” se non riducendo la prima – da atteggiamento complessivo dell’esistenza – ad accettazione intellettualistica di una serie di dottrine ritenute “rivelate”? 

In tempi più vicini a noi, anche il Meridione italiano ha registrato degli eventi inediti: cattolici ferventi (come Angelo Rosario Livatino, Paolo Borsellino, don Pino Puglisi, don Peppino Diana), attivamente impegnati nel contrasto al dominio mafioso, che vengono assassinati da altri (sedicenti) fedeli cattolici.  Come porsi di fronte a questi che Urs von Balthasar avrebbe definito “casi seri” ?

Un primo orientamento – condiviso, per ragioni opposte, in ambienti vaticani e in aree ‘laiche’ del movimento antimafia – è stato di tener ferma la distinzione ‘tradizionale’ fra sfera religiosa e sfera civile. Se un magistrato o anche un prete vengono uccisi non in quanto cattolici, ma in quanto oppositori del regime mafioso, la chiesa non ha né il dovere né il diritto di pronunziarsi: si tratta di vittime della giustizia degli uomini, della legalità statuale. La chiesa non può compromettere il suo prestigio prendendo posizione su questioni tutto sommato ‘basse’, riguardanti la dialettica ‘temporale’ fra istituzioni civili e criminalità. Essa vola più in alto rispetto alla perenne contesa fra guardie e ladri (ben sapendo che spesso i ruoli si invertono e solo troppo tardi ci si accorge dell’inganno). D’altronde – è questo il tasto su cui hanno insistito gli ambienti dell’antimafia esterni al mondo ecclesiale – perché la chiesa, abitualmente estranea alle strategie di contrasto alla criminalità organizzata, dovrebbe ‘mettere il cappello’ su alcune vittime? Esse erano cattoliche ma non sono state assassinate in quanto cattoliche, bensì perché impegnate professionalmente o socialmente. La loro eredità spirituale è, essenzialmente, civile: e va affidata esclusivamente alla memoria dei concittadini (di qualsiasi convinzione ideale e ideologica). 

Questo primo orientamento – che sembrava tanto solido da risultare immodificabile – è stato gradualmente ripensato ad opera di teologi cattolici particolarmente sensibili alle tematiche storico-sociali. La radice di questo ripensamento – come viene illustrato nel volume a più mani, curato da M. Naro e S. Tanzarella, Martiri per la giustizia, martiri per il Sud. Livatino, Puglisi, Diana, testimoni della speranza (Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2021, pp. 229, euro 23,00) – è una lettura esegeticamente più attenta dei vangeli, dalla quale si evince che Gesù ha proposto ai discepoli non tanto l’adesione a un insieme di ‘verità’ dogmatiche sull’altro mondo, bensì l’impegno per realizzare il ‘regno di Dio’ (cioè una convivenza pacifica, solidale, compassionevole) in questo mondo. Queste nuove acquisizione ‘scientifiche’ sul modo di leggere la Bibbia hanno comportato dei rivolgimenti enormi (anche se comunicati all’opinione pubblica in maniera felpata, rassicurante) anche nella ‘pastorale’ (come viene definita, con termine inopportunamente bucolico, la pedagogia ecclesiale): come è evidente dal Concilio ecumenico Vaticano II (1962 – 1965) in poi, l’ ‘evangelizzazione’ va intrecciata, inseparabilmente, con la ‘promozione umana’. Se è così, il fedele non si santifica soltanto quando annunzia con le labbra il vangelo, lo predica, lo spiega ai ragazzini nel corso delle catechesi…ma, almeno altrettanto, quando difende i diritti dei deboli, le ragioni della giustizia, gli spazi della libertà. E il martire va venerato come  tale, dunque,  anche se muore assassinato da altri (sedicenti) cattolici come i mafiosi. Ogni ‘beatificazione’ di una persona che – secondo la felice formula di Giovanni Paolo II muore “martire della giustizia e, indirettamente, della fede” (9 maggio 1993, Agrigento) – è, o potrebbe essere se venisse correttamente interpretato, un duplice monito.

 Innanzitutto ai mafiosi, ai loro complici, ai cittadini ignavi che perseguono un’impossibile ‘neutralità’ fra Stato democratico e organizzazioni criminali: ogni volta che aggredite un 'giusto'  - di qualsiasi orientamento culturale e politico (magistrato o prete, imprenditore o giornalista, sindacalista o avvocato) – voi tradite - lo sappiate o meno - il messaggio di Cristo (di cui vi dichiarate seguaci). 

Ma un secondo monito va all’intera popolazione (sedicente) cattolica: non illudetevi che catechesi e liturgie, devozioni e processioni, elemosine e lasciti testamentari esauriscano il vostro compito di credenti. Poiché fede e giustizia non sono separabili, una fede senza giustizia è ipocrita. Occuparsi del territorio in cui si vive o in cui si è parroci, rispettare e far rispettare le leggi vagliate come costituzionali, combattere ogni minima concessione alla corruzione, prendere le parti degli impoveriti della propria società e più ampiamente del pianeta, difendere l’equilibrio ambientale e la sensibilità dei fratelli più piccoli che sono gli altri animali…questi e tanti altri ambiti di vigilanza e di operatività non appartengono all’optional. Chi cade combattendo su questi fronti, merita la gratitudine di tutti i cittadini (di qualsiasi convinzione personale); ma merita anche la gratitudine di chi si dichiara credente cristiano perché martire “indirettamente” del vangelo. 

Il libro è impreziosito da due capitoli dedicati, rispettivamente, al presbitero rumeno Vladimir Ghika ( 1873- 1954 ), passato dalla chiesa ortodossa alla chiesa cattolica, e al pastore luterano tedesco Dietrich Bonhoeffer (1906 – 1945): due casi analoghi ai martiri del Meridione italiano, benché distanti nello spazio e nel tempo, dal momento che le motivazioni ufficiali del loro calvario e della loro morte non sono state la ‘fede’ cristiana ma l’attività diplomatica sgradita al regime social-comunista (nel caso di Ghika) e la partecipazione all’attentato (fallito) ai danni di Hitler (nel caso di Bonhoeffer). 

 

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

giovedì 29 aprile 2021

Chiesa e mafia in Sicilia (ieri e oggi) : incontro virtuale domenica 2 maggio 2021 ore 18,30


Quinto Tavolo Tematico del Forum Antimafia Castellammare con:


Padre Francesco Michele Stabile (Vicario della Parr. di San Giovanni Bosco a Bagheria)
Gregorio Porcaro (vice-parroco di Don Pino Puglisi)
Augusto Cavadi (docente, saggista e consulente filosofico)


Modera Piero Rappa 

Per partecipare, basta cliccare qua:

https://fb.me/e/56QOBixj5