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mercoledì 30 ottobre 2024

PERCHE' AI CORTEI PER LA PACE NON SIAMO MAI ABBASTANZA ?

 Sabato 26 ottobre in 7 grandi città italiane si sono snodati altrettanti cortei per la pace. Secondo le stime su cui si registra maggiore convergenza si sono lasciate coinvolgere circa 80.000 persone: poco più di una ogni mille. Perché 998 e mezza sono rimaste a casa?

Le domande impegnative non ammettono risposte facili. Si possono sono cucire ipotesi parziali per tentare di avvicinarsi alla spiegazione più vera.

Parzialità per parzialità, cominciamo dal dato locale della nostra città: a Palermo, contando anche chi è arrivato dopo l’inizio e chi è andato via prima della fine, saremo stati tra 2000 e 2500 partecipanti. Dunque, in rapporto al numero degli abitanti,  al di sotto della media delle altre città. Come mai?

a)     Una prima considerazione riguarda l’overdose di cortei nel giro di tre giorni: il 25 contro il disegno di legge sull’ordine pubblico, il 26 appunto contro le guerre, il 27 contro la legge che sanziona la gravidanza per altri. A meno che uno non sia un manifestante di professione, sceglie per uno o due cortei al massimo; non certo per l’en plein.

b)     Una seconda considerazione riguarda l’opportunismo di cui siamo affetti a ogni età sin da giovani: per gli studenti delle scuole medie superiori, aderire al corteo di venerdì 25 significava risparmiarsi 5/6 ore di lezioni, mentre sabato 26 si sarebbe dovuto sfilare gratis et amore pacis. Per carità, niente moralismi: ma, per lo meno, evitiamo l’illusione della retorica giovanilistica. Gli adolescenti non sono né peggiori né migliori degli adulti e vedere in loro “la speranza del mondo di domani” significa condannarsi alla delusione.

c)      Giovani o adulti, siamo abbastanza svegli da sapere che un corteo in più non modifica le decisioni del Parlamento e del Governo (tanto meno quando queste istituzioni sono state consegnate dalla maggioranza degli elettori a politici non particolarmente inclini alle dinamiche della democrazia). Personalmente sono andato, come vado altre volte, senza molta convinzione: più per evitare il fallimento della manifestazione che in previsione di effetti concreti. Ma se si vuole evitare l’effetto boomerang (chi è d’accordo con l’andazzo attuale della Nato e della Commissione Europea in giù potrà gongolare puntando sulla stragrande maggioranza della popolazione rimasta in poltrona) bisogna centellinare strategicamente l’indizione di manifestazioni di questo genere: poche, pochissime all’anno – e solo quando si riesce a trovare un accordo preventivo fra la quasi totalità delle grandi organizzazioni popolari (non accontentandosi del pur preziosissimo apporto di un sindacato su tre). Mille cortei da mille persone non equivalgono a un corteo di un milione di persone, ma costituiscono  mille assist per chi tifa sugli spalti opposti.

d)     Questi conteggi aritmetici vanno fatti, ma a patto di non monopolizzare l’attenzione sull’aspetto quantitativo: prioritariamente – anche in funzione di eventuali espansioni numeriche future – c’è una questione qualitativa. Detto schematicamente: quale livello di consapevolezza culturale, etica e politica sul tema della guerra, della pace, della nonviolenza si può ragionevolmente supporre nella media dei partecipanti a questo genere di cortei ? “Vogliamo la pace” è uno slogan insidioso: può essere gridato da punti di vista non solo diversi (che sarebbe un bene), ma addirittura opposti. Se poi si aggiungesse la richiesta di proporre alcuni mezzi per raggiungere il fine comune, si registrerebbe la babele delle lingue. Ma senza questo minimo di chiarezza teorica e di conseguente convergenza operativa (a cominciare dal proprio ambito di vita: la relazione con il proprio partner o con i membri della propria organizzazione) non si può prevedere il rivolgimento radicale di cui c’è assoluta esigenza. Per ciò che risulta a quanti di noi si impegnano, tra una manifestazione e l’altra, nella informazione e nella formazione delle coscienze – anche in nome delle associazioni pacifiste e nonviolente nazionali e internazionali di cui facciamo parte – la domanda di consapevolezza, di conoscenza, di approfondimento critico da parte delle scuole, dei sindacati, dell’associazionismo laico e cattolico è quasi inesistente. Ma le case si costruiscono dalle fondamenta, non dalle tegole e dai caminetti: se dirigenti di partiti e di sindacati, animatori di associazioni e di movimenti, giornalisti e artisti, insegnanti e preti… non avvertono l’urgenza dell’auto-formazione e della formazione delle persone che gravitano intorno a loro, c’è poco da sperare in un incremento della partecipazione popolare.

 

Augusto Cavadi

Co-direttore, con Adriana Saieva, della “Casa dell’equità e della bellezza” di Palermo

 

Versione originale qui:

https://www.girodivite.it/Perche-ai-cortei-per-la-pace-non.html

30.10.2024

martedì 27 agosto 2024

DOPO LA FERIE, RIPRENDERE L'IMPEGNO QUOTIDIANO PER LA PACE NELLA GIUSTIZIA

Le vacanze sono vacanze, lo capisco. Ma è intelligente passarle solo per non pensare, anziché anche per fare il punto sulla nostra vita, approfittando di una sospensione momentanea dei ritmi ossessivi quotidiani?  Sulla nostra vita: intendo di ciascuno/a di noi, intendo anche di noi come umanità. Ci rendiamo conto che suoniamo, cantiamo e balliamo su un Titanic in rotta di collisione con la Terza – e ultima – guerra mondiale?  Ma davvero non ci siamo convinti che con Putin e Zelensky, con Biden e Von der Leyen (per non parlare degli attori non-protagonisti e delle comparse) siamo a un passo dalla catastrofe?

So la risposta sincera dei migliori fra noi (so anche quella dei peggiori, ma non m’interessa): “Che ci posso fare, io?”.

Già, che può fare ognuno/a di noi? Nulla (o quasi) e tutto (o quasi).

Isolatamente possiamo fare nulla, o quasi nulla.

Aggregandoci ad altre persone, sole come noi ma come noi non rassegnate, possiamo fare tutto, o quasi tutto.

In ogni città italiana – per ora non voglio alzare lo sguardo più in là – c’è un centro, una sede, una delegazione, una sezione, un circolo di qualche organizzazione nazionale o internazionale impegnata attivamente contro la guerra: un partito politico o un sindacato o un movimento o un’associazione…Nessuna di queste organizzazioni  è perfetta, d’accordo. E allora? Sono forse prive di difetti le organizzazioni fondate su ideologie militariste, guerrafondaie, colonialiste, imperialiste? Quando la casa brucia, si ricorre a ogni riserva d’acqua disponibile.

Basta fare un giro in internet per trovare decine di aggregazioni che da decenni lavorano non solo “contro” i conflitti bellici ma, soprattutto, “per” la pace, per la gestione nonviolenta dei conflitti, per diminuire le sperequazioni  fra popolo e popolo, fra strati sociali all’interno dello stesso popolo, fra individui all’interno dello stesso strato sociale (dipendentemente dal livello di onestà o di corruzione in cui ognuno di essi svolge il proprio lavoro). 

Se qualcuno non ha la pazienza per navigare in rete può consultare le pagine che nel volumetto di Andrea Cozzo, La nonviolenza oltre i pregiudizi. Cose da sapere prima di condividerla o rifiutarla, sono dedicate a una schematica presentazione dei principali gruppi attualmente operanti in Italia: il Movimento Nonviolento (fondato da Aldo Capitini), il MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), PeaceLink, la Comunità dell’Arca (fondata dal gandhiano Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto), Pax Christi, UPP (Un Ponte Per), Operazione Colomba (Corpo Nonviolento di pace), Rete italiana per la pace e il disarmo, Centro Studio Sereno Regis, Centro Gandhi. Se siamo onesti con noi stessi, non abbiamo scampo: c’è solo l’imbarazzo della scelta. Queste e simili organizzazioni hanno bisogno di soldi, ma soprattutto di persone che dedichino tempo, energie, idee: nessuno, se ha capito la gravità del passaggio storico che stiamo attraversando, può tirarsi fuori per falsa umiltà.

A mezzo secolo di distanza la situazione è la stessa rappresentata da Norberto Bobbio a chiusura del suo bel saggio Il problema della guerra e le vie della pace: ... 

                        Per completare la breve lettura, basta un click qui (sull'edizione originaria illustrata):

https://www.zerozeronews.it/ferie-sprecate-e-coscienza-antinucleare-e-non-violenta-da-formare/

martedì 25 giugno 2024

LE ELEZIONI COMUNALI A PERUGIA: UN POSSIBILE MODELLO PER RINNOVARE LA VECCHIA POLITICA

Che cosa è successo a Perugia

 

Prima che sulle elezioni di Perugia si riversi la retorica dei commenti tutti interni alla politica politicante, prima che vengano banalizzate battendo sul tasto della città che verrà governata per la prima volta da una donna (sarebbe successa la stessa cosa con Margherita Scoccia, ma non sarebbe stata affatto la stessa cosa), conviene riavvolgere il nastro e mettere in fila un po’ di elementi.

La spirale del centrodestra

Il Barton Park è un luogo recintato da una cancellata alta e nera. È un pezzo di Perugia che dà di sé l’immagine di un luogo pubblico ma è gestito da una società privata che ci ha investito sopra per trarne legittimamente profitto e lo pubblicizza definendolo «una location di eccellenza per eventi di successo». Il Barton Park non è libero come un qualunque altro spazio che sia davvero parte della città di tutte e di tutti: vi si può entrare solo se la proprietà che ne detiene le chiavi apre il cancello che delimita il confine di quel luogo con la Perugia pubblica. Avere deciso di tenere lì l’evento di chiusura del primo turno della campagna elettorale, che poteva essere anche l’ultimo, è stato un segnale piuttosto contraddittorio, o forse inequivocabile, da parte del centrodestra perugino: una coalizione che da dieci anni gestiva la cosa pubblica e si candidava a continuare a farlo ma ha celebrato uno dei suoi momenti pubblici più importanti in un luogo privato. Si è trattato di uno dei tanti errori commessi da una maggioranza che pensava di avere la vittoria in mano ma si è trovata a fronteggiare una situazione inaspettata ed è per questo entrata in una spirale di difficoltà che ne ha squadernato tutti i limiti.

Avanti, ma indietro

Il centrodestra ha iniziato la campagna elettorale con l’intento di fornire di sé l’idea di una forza proiettata in avanti. «Indietro non si torna» è stato all’esordio lo slogan dei primi manifesti giganti che hanno tappezzato la città. Seguito e confermato da «Il futuro non si ferma», che doveva essere il claim centrale della comunicazione politica costruita intorno a Margherita Scoccia. La candidatura di Vittoria Ferdinandi è stata una di quelle folate di vento inaspettate che fanno volare via i fogli dalla scrivania. In difficoltà di fronte a una candidatura marziana, che riattivava energie insospettate, faceva il pieno di pubblico e parlava una lingua nuova e intraducibile per quel ristretto circolo di persone composto da politici e pezzi di giornalismo che scambiano se stessi per l’intero universo, i partiti e la candidata di centrodestra hanno cominciato a volgere gli occhi all’indietro, verso un paesaggio per loro rassicurante: “Perugia capitale della droga” e il “buco di bilancio” sono diventati a un certo punto i tasti su cui battere per tentare di appiccicare sull’avversaria l’etichetta di una continuità con un passato che il centrodestra aveva sconfitto dieci anni prima. Tentare di legare Ferdinandi a quel passato è stata la manifestazione della volontà di esorcizzare la portata radicalmente innovativa dell’avversaria. Ma come il successivo tentativo di dipingere la candidata come una pericolosa estremista, si è trattato di una caricaturizzazione così lontana dalla realtà che la maggioranza dell’elettorato l’ha respinta come un organismo fa rigettando cellule che non riconosce. A ciò si è aggiunta una sorta di incompatibilità ontologica tra quello slogan, «Il futuro non si ferma», e il continuo ritorno al passato del discorso pubblico della destra, che ha generato un altro corto circuito, esattamente come quello innescato da una coalizione che si candida a gestire il pubblico ma lo fa da un luogo privato. Il tutto è successo mentre accanto al claim originario ne è stato coniato un altro, in corsa: «Perugia è di tutti», proprio nel tentativo di relegare Ferdinandi e l’intelligenza e l’emozione collettiva che la sostengono nell’angolo di una partigianeria estremista evidentemente indegna di far parte dei tutti. È stato un altro segnale di difficoltà, poiché la sovrapposizione di claim – per di più così incongrui – è stata del tutto disorientante. Il combinato disposto tra il ritorno al passato e uno slogan come «Perugia è di tutti» ha restituito simbolicamente la rappresentazione di una maggioranza che ragionava nel proprio intimo come se fosse stata ancora l’opposizione di dieci anni fa. La campagna elettorale di Scoccia è stata un continuo riassetto sulla base delle novità creative introdotte dall’avversaria: dall’idea dei manifesti extra lunghi a quella dei reel sui social media – inizialmente studiati come pillole di fiction, prodotti in laboratorio con tanto di copione; in seguito invece, sulla base di quanto andava facendo Ferdinandi, estrapolati da momenti in presa diretta della campagna elettorale. Fino all’evento finale prima del ballottaggio, in cui il centrodestra è tornato in piazza IV Novembre, cuore della città, copiando il centrosinistra che quella cosa l’aveva fatta due settimane prima, alla fine del primo turno, quando l’ex maggioranza si era andata a rinchiudere nella privatezza del Barton Park. Sia chiaro, non è in ballo qui una questione di riconoscimento di diritti d’autore. È che il modo in cui la coalizione che governava Perugia si è condannata a rincorrere gli avversari che partivano sfavoriti denota una più ampia mancanza di spessore. Per di più, copiare da una candidata che al tempo stesso si tenta di relegare nell’angolo dell’estremismo è di una doppiezza disorientante, esattamente come lo è stato l’accavallamento degli slogan.

Materiale/immateriale

L’ultima parte di campagna elettorale Scoccia e il suo entourage l’hanno fatta virare su un concetto di concretezza che nei loro auspici avrebbe dovuto fare giustizia della fumosità ideale con la quale intendevano disegnare la parte avversa. È stato forse il momento in cui la naturale attitudine del centrodestra è emersa al di là delle giravolte di una campagna elettorale ondivaga perché in pesante affanno. Come abbiamo abbiamo già tentato di interpretare analizzando i programmi delle due principali coalizioni, quello che è parso il nucleo fondante del centrodestra perugino è stata una fiducia quasi messianica nella promessa di opere (il nodo, la stazione Medioetruria e il metrobus sono state le più qualificanti) che si sono pensate risolutive dei problemi delle persone. L’idea è stata insomma che il consenso di elettori ed elettrici fosse agganciabile prefigurando loro la realizzazione di cose. A quella che doveva essere la concretezza di opere e fatti solidi e tangibili, Ferdinandi ha contrapposto l’immaterialità irrinunciabile della visione. E sulla dicotomia materiale/immateriale si è giocato un pezzo consistente di campagna elettorale.

Il conservatorismo e le vite

Scoccia ha interpretato un ruolo tradizionale: quello della candidata che promette cose concrete, opere tangibili, e le promette nella lingua che parlano in genere i candidati e le candidate tradizionali. L’ha fatto nella convinzione che questa, oggi, sia la funzione della politica: agevolare il quotidiano tran tran rendendolo più agevole. Si tratta di una posizione conservatrice in sé: non c’é nessun anelito al cambiamento in quella piattaforma semplicemente perché chi l’ha realizzata ritiene nel proprio intimo che non ci sia niente da cambiare. Ferdinandi, essendo una marziana della politica, portatrice di un punto di vista esterno al pianetino autoreferenziale dei posizionamenti geografici (destra, sinistra, centro) divenuti incomprensibili quando non indigesti a gran parte dell’elettorato, ha colto che la desertificazione dell’asfittica rappresentanza partitica si può tentare di colmarla cercando di riconnettere la politica alla vita delle persone sempre più sfilacciata, precarizzata, in affanno. E la vita delle persone è fatta per gran parte di immaterialità: la soddisfazione, le aspirazioni, l’immaginazione, i sentimenti, la tranquillità, il riconoscersi in qualcosa di più autentico del mero possesso di cose o della fruizione di opere pubbliche che spesso peraltro rispondono agli interessi di pochi piuttosto che a quello generale. Si tratta di astrattezze solide, senza la cornice delle quali le cose concrete diventano inerti e fini a se stesse. È dall’esigenza di colmare queste mancanze che anche all’interno del comune di Perugia sono germogliate esperienze di rigenerazione urbana, librerie indipendenti, cinema di comunità, ristoranti inclusivi, associazionismi di vario tipo e mutualismi di quartiere. Esperienze che sono andate a riempire i vuoti lasciati da una politica che non rappresenta più come riusciva a fare fino a cinquant’anni, non è in grado di progettare alcunché, ma scimmiotta i comportamenti di cinquant’anni fa. Il disallineamento logico tra queste due dimensioni genera un panorama surreale, in cui matura il disamore verso le cose comuni, confuse con un pubblico che da anni dà mostra del peggio di sé. Le esperienze sommariamente elencate sono concretissime, ma derivano da un’aspirazione ideale senza le quali non sarebbero mai state immaginate. Una delle chiavi con cui si può leggere la candidatura di Ferdinandi è questa: è come se la ricchezza trasformativa di quelle esperienze generate dall’immaterialità delle esigenze di solidarietà, cultura non ingessata, solidarietà di cui la città pullula sia riuscita a contaminare un pezzo di mondo che ha deciso di entrare nelle istituzioni. Non c’è stato un piano a tavolino, e neanche un rapporto di causa-effetto, nessun automatismo meccanicista, meno che mai un qualche tipo di complotto o di ordita occupazione del potere, come si potrebbe pensare dal pianetino autoreferenziale della politica e di un pezzo del circuito massmediatico. Quello che assomiglia di più a ciò che è successo è il movimento del polline trasportato dalle api: casuale ma non caduto dal cielo. Qualcosa che esiste e viaggia anche se non si vede, e prima o poi va a depositarsi da qualche parte e feconda.

Una candidatura marziana

Ferdinandi, con il sostegno dell’intelligenza e dell’emozione diffuse che l’hanno supportata, si è fatta traduttrice lucida, chiara e fedele di esigenze difficili a dirsi perché sepolte sotto la tirannia del reale che congiura per far apparire immutabile ciò che è invece una costruzione umana, e che come tutte le costruzioni umane può essere migliorata, a patto che si abbia una solida cornice ideale, e quindi immateriale, entro cui collocare le cose concrete da fare. Intelligenza ed emozione, sentimento e ragione, uniti all’essere sintonizzati con un qui e ora che i vecchi arnesi degli anni ottanta-novanta del secolo scorso non consentono di comprendere, sono stati due ingredienti senza i quali non si capisce la straordinarietà della candidatura di Ferdinandi e della sua campagna, che infatti resta marziana, incomprensibile ai molti che hanno ragionato e continueranno probabilmente a farlo con categorie vetuste, utili oggi come i gettoni per le cabine telefoniche. È da questa sostanziale incapacità di leggere il reale, oltre che da una sostanziosa punta di strumentalismo, che sono nate e poi degenerate le accuse di estremismo, centrosocialismo, movimentismo nei confronti della candidata che ha vinto le elezioni. Solo che non c’è niente di più estremo, rigido, arido e inutile che rimanere abbarbicati a paradigmi confortevoli ma sganciati dalla realtà. L’incapacità a comprendere del centrodestra e di un nutrito panorama di osservatori ha cozzato contro un atteggiamento ancor più sorprendente di Ferdinandi. Laddove infatti un’altra parte politica si sarebbe intimidita di fronte a una campagna degli avversari così caparbiamente aderente alla tirannia del reale, la candidata che ha vinto le Comunali di Perugia ha invece rilanciato rivendicando la necessità della visione e dell’immaterialità dentro cui collocare la concretezza delle cose da fare. E, soprattutto, ha collegato politica e vita: ha fatto intravedere che le trasformazioni politiche possono diventare trasformazioni in meglio per la vita di chi sta peggio, e non solo. Solo una marziana avrebbe potuto inserire nel comizio di chiusura del primo turno della campagna elettorale la metafora del liquido amniotico che protegge e nutre il feto che la donna ha in grembo consentendogli però di comunicare con l’esterno e di assorbire nutrimento: un confine non ottusamente chiuso e rigido ma poroso ed elastico come è la vita stessa, appunto, che il liquido protegge e cura. E solo con la comprensione più autentica del qui e ora che stiamo vivendo, dello svilimento della vita pubblica a causa di rappresentanti inadeguati, si poteva mettere a leva la partecipazione dei cittadini intesa non come mero ascolto ma come chiamata alla coprogettazione della cittadinanza, cioè come autentico metodo di governo che trasformi il pubblico spesso sinonimo di “di nessuno”, nel tentativo di farlo diventare diventare comune, di tutte e tutti.

Ferdinandi ha aggirato la cittadella del potere autoreferenziale cercando la legittimazione nelle persone e parlando alle loro vite reali. C’è riuscita perché si è tenuta a debita distanza dal recinto delle liturgie di posizionamento della politica politicante e dei circoletti massmediatici, utilizzando un lingua nuova in cui fragilità, tessitura, diritto all’autonomia, visione e immaginazione hanno preso il posto di fondi, investimenti, milioni, destra, sinistra, estremismo così in voga altrove.

Una generazione nuova

Il collegamento vivido con il qui e ora e tutto ciò che ne è scaturito è stato reso possibile anche dalla presenza di un altro ingrediente. Il tentativo di ritorno al passato della propaganda del centrodestra e la coazione ad analizzare le cose come se ci si trovasse in una qualsiasi delle campagne che hanno preceduto quella appena trascorsa rischiano di offuscarlo, invece va colto in tutta la novità che rappresenta. Vittoria Ferdinandi ha 37 anni, il gruppo delle persone che ha trainato la sua campagna è composto da sue e suoi coetanei. Si tratta di una generazione che vive e ha vissuto tutte le asprezze del qui e ora ed è lontana galassie dalle zone di comfort di chi, avendo avuto la fortuna di vivere la propria vita negli anni del boom o di ciò che ne restava, non si è dovuto adattare a più lavori contemporaneamente, a emigrare, a contratti saltuari, a paghe da fame, a occupazioni per cui non sarebbe servito studiare ciò che si è studiato, a stage non retribuiti che però fanno curriculum. C’è anche questo gap generazionale ad aver reso marziana la candidatura di Ferdinandi. Un gap che ha reso grotteschi i tentativi di chi con le lenti di decenni fa tentava di affibbiare etichette di passatismo ideologico a una candidata e a uno staff che hanno invece mostrato plasticamente come la cornice ideale sia necessaria a collocare le cose e a coglierle nella loro purezza. Se Ferdinandi fosse cresciuta a pane e ideologia nel senso più retrivo del termine utilizzato dai suoi detrattori, sarebbe caduta nella trappola che per settimane le hanno teso gli avversari: trasformare la campagna elettorale in senso ottusamente ideologico in un triviale derby fascisti-comunisti. Se avesse avuto la paura del proprio passato che hanno o hanno avuto persone più anziane di lei, inebetite di quello sport nazionale che è stata per anni la corsa al centro, avrebbe avuto remore ad abbracciare l’anziana signora che l’ha aspettata con la bandiera rossa sul marciapiede in attesa che passasse l’autobus scoperto della candidata in tour per la chiusura di campagna elettorale per il ballottaggio. Con Ferdinandi e la generazione che è salita con lei alla ribalta, la bandiera rossa riacquisisce la purezza di uno dei simboli di chi ha scritto la Costituzione e ha dato un futuro decente a un paese che ha rischiato di averne uno nero. Si tratta di un concetto semplicissimo, che è stato reso difficile proprio da decenni di un’ideologia che questa generazione si è tolta di dosso con una sana scrollata di spalle: collegando le idee alle vite. E cercando di tradurle in politica per le vite. Per di più con una creatività che ha costretto gli avversari a una rincorsa sfiancante. Un’ultima nota, su questo: Ferdinandi non è del Pd, ma se alla guida nazionale del Pd non ci fosse stata Elly Schlein la sua candidatura sarebbe stata probabilmente risucchiata in chissà quale gioco autoreferenziale e la generazione nuova triturata ancora.

I rischi, adesso

Un pezzo consistente di elettorato, seppur quasi sommerso dai messaggi torbidi e tendenzialmente intimidenti della tirannia del reale, ha capito tutto questo, anzi è parso non volere altro che capire tutto questo, e si è emozionato e ha conseguentemente fatto aderire la propria intelligenza alla proposta di Ferdinandi. L’ha fatto anzi la maggioranza delle persone che sono andate a votare a Perugia. Il che significa che per molti e molte l’immaterialità è un valore senza il quale la concretezza si muove senza bussole per l’interesse generale, e che la politica non è fatta di cose, ma di tentativi di cambiare in meglio le vite, altrimenti diventa un campo arido. È un fenomeno di cui prendere nota, il cui significato travalica i confini municipali. Un rischio però c’è: è che Vittoria Ferdinandi resti sola. Che si trasformi in idolo isolato. Che la sua vittoria sospinga anche le persone che l’hanno votata a rientrare in casa, magari dopo avere tirato un sospiro di sollievo. Se succedesse questo sarebbe una sconfitta per due motivi. Primo: significherebbe che anche la parte che ha sottoscritto la candidatura marziana è diventata vittima dell’egemonia del pensiero semplicistico che ritiene che la sostituzione dei leader sia di per sé risolutiva dei problemi inediti che abbiamo davanti. Si percorrerebbe così esattamente all’inverso il tentativo di nuova via che la candidatura di Ferdinandi ha tentato di tracciare, legare la politica alle vite, mostrando che i cambiamenti politici possono migliorare la qualità del vivere. Secondo: senza l’intelligenza e l’emozione collettive che la candidatura Ferdinandi ha rimesso in circolo, non c’è cambiamento possibile; se venissero a mancare la corsa elettorale sarebbe stata vana.

Un pezzo assai consistente di elettorato, esausto da decenni di autoreferenzialità e analisi vuote, non è invece riuscito ad essere avvicinato e ha scelto di non votare, di essere equidistante tra due mondi, quelli incarnati dalle due candidate, mai così agli antipodi, elemento che ha reso la campagna elettorale davvero la competizione tra due alternative. Anche questo è un fenomeno di cui prendere nota perché ha a che fare con la qualità della nostra democrazia, che non è costituita solo dal momento del voto, come da più parti si indica. Ed è un elemento che sfiderà il governo della città chiamato ora a suturare anche le ferite da campagna elettorale.

La destra

Un altro pezzo consistente di elettorato ha votato per una candidatura che, in contrapposizione alla visione estesa di democrazia radicale rappresentata da Ferdinandi, ne predilige una minima, che per semplicità qui si può definire ristretta al momento del voto in cui si decide chi deve comandare per i successivi cinque anni. È legittimo. Solo che oggi quella parte in Umbria sembra essere drammaticamente sprovvista di persone in linea coi tempi e in grado di amministrare. Il suo maggior partito, Fratelli d’Italia, ha perso in due anni con suoi candidati – Masselli a Terni, Scoccia a Perugia – le elezioni comunali nei due capoluoghi di provincia di una regione nella quale costituisce la prima forza politica. Fratelli d’Italia è insomma una sorta di anello debole ma forte: troppo più forte dei suoi stessi alleati di coalizione, che così faticano a instaurare una qualche dialettica, ma intimamente sprovvisto della capacità di governo e di visione che occorrono per svolgere il ruolo di guida. Ne è la dimostrazione plastica il fatto che l’ex coordinatore regionale di quel partito, persona che dopo lustri di Consiglio regionale oggi siede in Parlamento, ha detto che quello che adesso si appresterà a fare FdI è «ciò che abbiamo sempre fatto: combattere i comunisti». Ancora il passato che non passa, un po’ poco come piattaforma per gli anni venti del Duemila. In questo scenario, la coalizione di centrodestra si presenterà alle elezioni regionali del prossimo autunno con una presidente uscente che rappresenta un partito, la Lega, passato in Umbria dal 37 per cento di cinque anni fa, quando Donatella Tesei venne eletta, al 6,8 per cento delle Europee di due settimane fa. A debolezza si aggiunge debolezza, quindi.

Anche sotto questa ultima luce quello che è successo a Perugia è importante: segna una discontinuità di linguaggio e generazionale che potrebbe essere linfa per un futuro del tutto differente dalle liturgie autocentrate del passato. Quello che succederà d’ora in poi farà parte dello svolgimento di un altro capitolo. Lo seguiremo con attenzione. 


Questo il link all'edizione originale:

https://www.cronacheumbre.it/2024/06/25/che-cosa-e-successo-a-perugia/#comment-241

domenica 16 giugno 2024

LA DEMOCRAZIA E L'ITALIA DI OGGI : UN E-BOOK (GRATUITO) DI ELIO RINDONE

 Elio Rindone ha raccolto in un volume una serie di suoi articoli ospitati, negli ultimi ani,  su varie testate. Il volume, intitolato "La democrazia e l'Italia di oggi" è scaricabile GRATIS in formato elettronico cliccando su questo link: https://app.bookcreator.com/l/-Nis45cap9Lv2WiFznmj?c=R6GF6F2 e seguendo le semplici indicazioni che appariranno sullo schermo (se necessario, vi si chiederà di cliccare su "schermo intero" per entrare nel libro).

In una fase delicatissima per la vita democratica non solo italiana, ma europea e planetaria, è importante ricominciare da alcuni 'fondamentali' sia per capire la malattia sia per intravedere la terapia. L'astensionismo crescente nelle tornate elettorali potrebbe non riuscire allarmante se non fosse - nella stragrande maggioranza dei casi - effetto di qualunquismo irresponsabile e se, invece, fosse per così dire sostituito da un impegno quotidiano di formazione etico-politica (rivolta agli adulti e soprattutto ai giovani).

Buona lettura e...buon lavoro !

Augusto Cavadi



venerdì 10 maggio 2024

"PACE, TERRA, DIGNITA'" : LA LISTA DI RANIERO LA VALLE E MICHELE SANTORO SARA' PRESENTE IN TUTTA ITALIA

 Anche se la notizia è sinora passata quasi sotto silenzio, il TAR ha ammesso la lista elettorale per le Europee dell'8 - 9 giugno 2024 anche nel Nord-Ovest: dunque sarà possibile votarla in tutta Italia.

Chi ha già le idee chiare sulla lista da votare può chiudere questo post: basta che sappia con completezza la rosa delle sue possibilità.

Chi, invece, è in fase di riflessione e desidera maggiori informazioni sul programma di questa lista, ne può leggere più sotto il programma elettorale.

Comunque è al 50% circa degli elettori e delle elettrici che NON hanno intenzione di recarsi alle urne che rivolgo, sommessamente e amichevolmente, l'invito a riflettere: siete sicuri che i concittadini e le concittadine che, andando a votare, decideranno anche al vostro posto, lo faranno saggiamente? O che non faccia nessuna differenza tra le liste e i candidati al Parlamento europeo? Avete riflettuto che voi potete benissimo non occuparvi della politica, ma la politica si occuperà comunque di voi?  I poteri 'forti' che condizionano le assemblee legislative e i governi sono oscuri e numerosi: ma se mandiamo a rappresentarci sempre i peggiori in lizza (i meno competenti e i più corruttibili), ne ostacoliamo o ne facilitiamo l'influenza nefasta?

La democrazia presuppone che i cittadini siano liberi di pensare e di esprimersi, ma a sua volta la libertà di pensare e di esprimersi presuppone informazione, riflessione critica, confronto sereno con le persone di cui ci si fida.

***

PER UN PROGRAMMA ELETTORALE DI “PACE TERRA E DIGNITÀ”

 

Due popoli vittime, l’Europa in fiamme, il mondo in pericolo, l’impoverimento crescente, la Terra che trema, noi tutti senza pace. 

Con le elezioni europee, la salvezza può cominciare dall’Europa se riscopre se stessa e, a partire dalla riconciliazione tra la Russia, gli Stati Uniti e l’Occidente si rivolge al mondo per costruire la pace. 

 

 

Pace

 

La Pace non sta da sola. Pace Terra e Dignità sono i tre beni comuni primari di una politica che restituisca innanzitutto ai giovani la speranza e la fiducia nel futuro, e possa promettere l’ancora inattuato “diritto al perseguimento della felicità”.

Tutti dicono di volere la pace nel mondo, ma questa non si può nemmeno pensare se prima non finiscono i massacri in Ucraina e in Medioriente, se non si pone fine alla “terza guerra mondiale a pezzi” che arriva fino al Pacifico. La Pace non solo è assenza di violenza delle armi e di pratiche di guerra, vuol dire non rapporti antagonistici né sfide militari o sanzioni genocide tra gli Stati, mettere la diplomazia al primo posto, implica prossimità e soccorso a tutti i popoli nei momenti di difficoltà.

Oggi risuona per l’Europa la domanda gridata da papa Francesco: “Dove vai Europa? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni?”. “L’anima europea è nata dall’incontro di civiltà e popoli, più vasta degli attuali confini dell’Unione”. Ma oggi essa è in pericolo perché ha tradito le ragioni per cui è nata. 

Per adempiere al suo compito occorre che ripudi le armi come mezzo di offesa agli altri popoli e di risoluzione delle controversie internazionali, che ottenga il cessate il fuoco in Ucraina, che intervenga con ininterrotta energia finché i popoli di Gaza e Palestina non siano restituiti a godere il valore della vita e una umana convivenza. 

Noi consideriamo la guerra la manifestazione più estrema del potere patriarcale fondato sulla logica di potenza, sulla sopraffazione, sulla violenza. Le culture e le pratiche dei movimenti delle donne che vi si oppongono possono essere determinanti per costruire un mondo nuovo, pacifico e giusto, fondato sulla cura, sollecito delle differenze e avverso alle diseguaglianze.

Noi non consideriamo la politica, nemmeno le elezioni, come lo scontro tra Amico e Nemico. Per questo partecipiamo ad esse non per vincere seggi ma per sottrarre l’Europa alla guerra e invitare tutte le forze politiche a riconoscersi in ciò che è essenziale per tutti e ad esplorare le strade verso un altro mondo possibile.

Perciò chiediamo al Parlamento e alle Istituzioni europee che facciano queste scelte:

 

1) Riguardo alla pace in Europa, non confondere la solidarietà data all’aggredito col rifornirlo di armi ed aizzarlo allo scontro promettendogli impossibili vittorie, alimentando un conflitto infinito suscettibile di precipitare in una terza guerra mondiale, fino al ricorso alle armi nucleari e alla distruzione del genere umano e della natura. Occorre cessare l’invio di armi all’Ucraina e coadiuvarla in un negoziato che garantisca la reciproca sicurezza alle parti e risolva con procedure democratiche e di autodeterminazione il contrasto sulle terre contese. 

 

2) Riguardo agli orrori di Gaza l’Europa confermi la condanna della strage del 7 ottobre e il diritto degli israeliani a vivere in pace e in sicurezza. Egualmente l’Europa denunci il massacro in corso di donne, bambini e civili, l’espulsione di milioni di persone dalle loro case, i territori occupati in dispregio delle delibere dell’ONU, la pulizia etnica, il regime di apartheid e la soppressione dei diritti civili dei palestinesi; si unisca alle richieste della Corte di Giustizia dell’Aja e agisca per il cessate il fuoco immediato, la liberazione degli ostaggi israeliani e dei detenuti politici palestinesi, a cominciare da Marwan Barghuti. Vanno anche liberati tutti gli incarcerati, nelle prigioni dello Stato d’Israele, senza un capo d’accusa. L’Europa deve impegnarsi a farsi mediatrice e a promuovere la ricerca di una soluzione della questione palestinese, nonché la riedificazione di Gaza, il ritorno alle loro case distrutte dei suoi abitanti e un piano straordinario di aiuti umanitari e sanitari.

 

3) La soluzione dei “due popoli in due Stati” - prevista fin dall’origine, perseguita fino all’uccisione di Rabin, e ora respinta da Israele –  appare oggi più difficilmente praticabile per la colonizzazione e l’occupazione progressiva dei territori in cui i palestinesi devono poter tornare a vivere in pace. L’Europa dovrebbe, dunque, anche incoraggiare a esplorare la possibile convivenza tra i due popoli in un’unica terra, assicurando pieni diritti politici ai palestinesi e un ordinamento istituzionale comprensivo ed accogliente per ambedue i popoli. 

L’Europa per favorire questo processo, potrebbe aprire ai due popoli le porte dell’Unione.  E mentre il Sudafrica ha promosso alla Corte Internazionale dell’Aja una causa per genocidio, l’Europa dovrebbe proporre a tutti gli Stati l’identificazione della guerra stessa come genocidio e la sua inclusione nella normativa sul genocidio, fatto salvo il diritto di difesa.

 

4) L’Europa dovrebbe battersi per i diritti dei curdi e per la liberazione di Abdullah Ocalan e dei prigionieri politici in Turchia. È curda l’idea del confederalismo democratico, è stata curda la resistenza contro l’Isis, è curdo il progetto di pace per il Medio Oriente fondato, è lo slogan curdo lo slogan ‘Donna, Vita, Libertà’ che è stato adottato dai movimenti in Iran e in tutto il mondo.

 

5) L’Europa è una Unione di Stati ma non deve diventare un Super-Stato che intenda la sovranità come un potere supremo, sovrastante su ogni altro potere e culminante nel diritto di guerra. Di conseguenza è da escludere la costituzione di un Esercito Europeo. Al contrario l’Europa, federazione di Stati, dovrà aprire una fase nuova di cooperazione fra i popoli, operare per riprendere la strada dei trattati sul disarmo e la denuclearizzazione militare e civile, ridurre la spesa militare, promuovere il controllo pubblico della produzione e dello scambio delle armi, e stabilire la riconversione con finalità civili delle proprie industrie belliche. Pace vuol dire trattare per diminuire in Europa e in Italia la presenza di armi nucleari. Le risorse sottratte alle spese di guerra devono essere impiegate per ridurre il debito e le diseguaglianze, affrontare le grandi sfide delle pandemie, del clima e delle migrazioni e per fare in modo che ogni donna o uomo o bambino abbia cibo, acqua, medicine sufficienti e il diritto a un futuro migliore.

 

6) Il compito dell’Europa  passa attraverso il Mediterraneo, anche per lo sviluppo da dare ai rapporti col Medio Oriente e il mondo arabo-musulmano . Attraverso questo mare la vocazione dell’Europa si estende verso l’Africa e l’Asia, ed è una contraddizione da rimuovere l’aver fatto della Sardegna un poligono di tiro e della Sicilia una portaerei  che minaccia la guerra.

 

7) Noi vogliamo un’Europa che sia un insieme di comunità pacifiche e aperte al mondo, indipendente, amica ma non succube degli Stati Uniti e di alcun’altra potenza, rispettosa delle diversità, protagonista in un mondo multipolare, non sottoposta al dominio di un sovrano assoluto che si arroghi la missione del guardiano universale. 

Essa deve sottrarsi alla logica dei blocchi e del vassallaggio nei confronti del più forte, che sacrifica i propri agli interessi altrui. L’Europa deve collaborare con la Russia, con la Cina e i Paesi che compongono l’arcipelago dei Brics. 

 

8) Il Vertice di Roma del novembre 1991 ha confermato, nonostante lo scioglimento del Patto di Varsavia, l’esistenza della Nato ma in natura esclusivamente difensiva: “nessuna delle sue armi sarà mai usata se non per autodifesa, né essa si considera avversario di alcuno”.

Con l’estensione della Nato fino a minacciare i confini della Russia, ignorando la richiesta di sicurezza di quel Paese, questo impegno è stato tradito. Trasformare l’inaccettabile invasione russa dell’Ucraina in un conflitto mondiale, abbandonare la strada della diplomazia, puntare alla sconfitta di Putin, ha determinato un prezzo insopportabile di vittime ucraine e russe, la distruzione di un intero Paese e il sacrificio delle speranze degli europei di ripresa economica dopo la pandemia. Occorre far tacere le armi, ritrovare la strada per il dialogo e il disarmo consensuale. Riteniamo che con la Pace si potrà di nuovo immaginare un’Europa dove gradualmente scompaiano i blocchi militari contrapposti e, quindi, anche la Nato. Obiettivo che sembrava possibile prima della guerra in Ucraina.

Chiediamo all’Unione Europea di far sospendere le minacciose esercitazioni militari “Steadfast Defender” programmate dalla NATO per i prossimi mesi e di respingere nella maniera più assoluta l’idea di proiettare l’Alleanza Atlantica verso l’indo-pacifico e il confronto armato con la Cina.

Riteniamo peraltro che occorrano garanzie reciproche di sicurezza per tutti gli Stati e consideriamo una minaccia alla Pace la pretesa di imporre con la forza i “nostri valori”, la “nostra idea” di libertà e di democrazia e la supremazia tecnologica e militare dell’Occidente.

L’Europa dovrà promuovere la cultura della pace nelle scuole e nelle università, sostenere il diritto alle obiezioni di coscienza e al rifiuto di combattere in tutto il mondo, creare un corpo civile di pace europeo,

 

9) L’Europa deve rifiutare il criterio delle relazioni internazionali come “competizione strategica” tra le grandi Potenze com’è concepita dagli Stati Uniti. Questa dottrina prevede comportamenti economici e militari che rendono probabile una terza guerra mondiale. È quanto si teme in relazione alla crisi del Mar Rosso, che si potrebbe trasformare in una pericolosa escalation che coinvolga il Libano la Siria e l’Iran, e in relazione alla controversia su Taiwan che può diventare devastante per Cina, India, Giappone e Australia. Siamo oggi in un mondo multi-polare e l’Europa, non avendo interesse a creare un muro tra Occidente e Oriente, deve operare per la coesistenza pacifica fra tutti gli Stati e ascoltare le diverse voci del nuovo mondo. 

 

10) Il Parlamento Europeo deve avere l’iniziativa legislativa e deve partecipare al processo decisionale nell’ambito della politica estera e della sicurezza comune. Nel quadro di un progressivo risanamento delle relazioni internazionali, occorre ridare efficacia di intervento al Consiglio di Sicurezza dell’ONU nel suo ruolo di difesa della pace, mediante la revisione del diritto di veto, lo sviluppo delle procedure democratiche e l’ingresso tra i Membri Permanenti di altri grandi Paesi come il Brasile, l’India e il Sud Africa. 

 

11) In prospettiva più generale l’Unione Europea deve promuovere una Costituzione Mondiale con la creazione di efficaci Istituzioni di garanzia per la pace e l’effettività dei diritti e dei valori riconosciuti come comuni all’intera umanità.

 

Terra

 

Il debito mondiale è tre volte maggiore del Prodotto Interno Lordo del mondo; la speculazione domina le transazioni economiche e condiziona il prezzo delle materie energetiche e del cibo; l’inflazione viene combattuta col rialzo dei tassi di interesse, ovvero del costo del denaro, peggiorando le condizioni della popolazione. La speculazione finanziaria minaccia oggi le democrazie sottraendo risorse ai bisogni della società e al lavoro produttivo. La guerra ne riafferma il dominio.

A causare l’aumento dei prezzi non sono tanto la domanda crescente di beni e l'aumento dei salari, quanto i profitti troppo elevati di pochi colossali oligopoli e di grandi aziende che dominano la politica e la costringono a un ruolo gregario. A livello globale non esistono istituzioni e leggi internazionali in grado di esercitare il controllo e comminare sanzioni: il mercato globale è deregolamentato.

La vita di centinaia di milioni di persone dipende dalle scommesse sul futuro di titoli di carta, i futures, che determinano il prezzo delle merci. Anche in Europa per oltre il 90% la finanza è impiegata per attività puramente speculative a breve e brevissimo termine e assorbe risorse dall'economia reale; solo qualche punto percentuale del capitale finanziario viene impiegato per supportare effettivamente le attività produttive.

 

1) Compito dell’Unione Europea è impedire la fuga di capitali all'estero e l’incontrollata globalizzazione della finanza, introdurre la Tobin Tax sui movimenti speculativi e tassare le aziende del fossile (mentre oggi l’87% delle emissioni non è soggetto a un costo), estendere ed aumentare la Carbon tax, detassare le tecnologie verdi e abolire qualsiasi detrazione fiscale per chi inquina. Le tasse delle multinazionali devono essere pagate dove le società acquisiscono i loro ricavi ed i paradisi fiscali in Europa vanno aboliti.

 

2) Occorre introdurre una separazione netta tra banche di deposito, che devono curare i risparmi dei cittadini, e banche daffari, che operano a rischio sui mercati finanziari; per evitare che i depositi dei risparmiatori siano esposti a rischi speculativi sui mercati. Attualmente solo banche commerciali hanno la facoltà di avere dei conti correnti presso le Banche Centrali che si apprestano ad emettere una nuova moneta digitale. Ma le banche centrali devono aprirsi al pubblico, operare in maniera trasparente, e gestire una moneta digitale pubblica direttamente a favore di cittadini, imprese e enti pubblici: una moneta sicura perché la Banca Centrale, al contrario delle banche commerciali, non può mai fallire.

 

3) La politica economica di un Paese deve essere decisa dai Parlamentari democraticamente eletti e non dalla BCE o da tecnocrati di Bruxelles. Organi intergovernativi governano 540 milioni di persone e la prima economia mondiale, comportandosi come il Gabinetto d'affari della grande finanza. L’Euro è una moneta unica per 20 Paesi molto diversi tra loro, una moneta solo deflattiva che frena l'economia. La BCE agisce di norma con l’obiettivo di combattere l’inflazione, privilegiando la stabilità dei prezzi. Negli Stati Uniti la Federal Reserve interviene da regolatore dell'economia anche per difendere l'occupazione e promuovere lo sviluppo: circa il 40% del PIL è dedicato alla compensazione, trasferendo risorse dallo Stato Federale ai singoli Stati . Si richiedono scelte politiche che non possono essere delegate al mercato. Le istituzioni dell’Unione che hanno effettivo potere decisionale, (Consiglio UE, Commissione UE, Eurogruppo) non sono elette ma nominate dai governi. Il Parlamento conta poco e, soprattutto, la BCE, può alzare i tassi di interesse senza che nessuno possa criticare efficacemente le sue decisioni. Il Parlamento Europeo deve poter discutere in maniera incisiva le decisioni che riguardano la politica economica e monetaria.

 

4) Gli investimenti delle banche commerciali sono legati al fossile per 7 euro su 10 e se invertissero la proporzione a favore delle energie rinnovabili fallirebbero. Non possiamo affidare ai banchieri e il futuro del pianeta. Dobbiamo puntare a contenere il surriscaldamento in un grado e mezzo entro il 2030. Per raggiungere questo risultato dobbiamo ridurre di un grado la temperatura delle case, mangiare meno carne, prendere il meno possibile l’aereo e non sprecare acqua nel consumo domestico; ma per il 70% la riduzione delle emissioni di CO2 dipende da scelte politiche e collettive. LEuropa deve considerare i boschi, la montagna, il mare beni comuni da tutelare. Senza regole e controlli, e senza una comunità attiva che se ne prenda cura, finiranno per diventare privati.

Chi svolge attività nella pesca, nellagricoltura, nellallevamento, deve poter essere considerato un operatore del servizio pubblico, sempre che la sua opera si svolga nella tutela del paesaggio e della fauna, nel rispetto della natura e nella produzione di cibo di qualità. Le istituzioni europee devono vietare l'importazione di prodotti alimentari, provenienti da Paesi terzi, trattati con sostanze non autorizzate nell’Unione. I controlli alle frontiere devono essere mirati alla difesa dei produttori europei dalla concorrenza sleale dei Paesi terzi che non rispettano le norme europee in tema di salute pubblica e sicurezza alimentare. Il principio della reciprocità di trattamento va strettamente osservato per evitare relazioni squilibrate a vantaggio dei paesi concorrenti che alzano barriere tecniche amministrative per impedire la penetrazione dei prodotti della UE sui loro mercati.

 

5) Facciamo nostro lappello di importanti economisti europei per la cancellazione del debito pubblico in pancia alla BCE, che ammonta a un quarto del totale del deficit degli Stati menbri. I cittadini europei devono a loro stessi il 25% dei loro debiti. La Bce potrebbe offrire agli Stati europei i mezzi per la loro ricostruzione in chiave ecologicamente sostenibile e riparare la frattura sociale, economica e culturale che hanno creato la crisi sanitaria e le guerre. Stiamo parlando di 2.500 miliardi per l’Europa nel suo complesso. La BCE può permettersi una simile azione, come riconosciuto da un gran numero di economisti, anche tra coloro che si oppongono ad una tale risoluzione: una banca centrale può funzionare con fondi propri negativi senza difficoltà. I privati non verrebbero danneggiati e le finanze pubbliche verrebbero sollevate da enormi pesi pregressi che gravano sull’economia, lo sviluppo e la società.

 

6) La transizione ecologica deve rappresentare un cambiamento radicale nel modo di produrre, di consumare e di vivere.

 Nei Paesi dell'Unione europea gli edifici assorbono il 45 % dei consumi energetici. Se si ristrutturano energeticamente si migliora il loro comfort termico, riducendo al contempo sia le loro emissioni di anidride carbonica sia gli importi delle bollette energetiche; e i risparmi delle famiglie sulle bollette consentiranno di ammortizzare, in un certo numero di anni, gli investimenti necessari. Poiché non tutte le famiglie sono in grado di sostenere i costi iniziali, è compito e interesse dello Stato farsene carico anche per ragioni di giustizia sociale.

L’obiettivo da perseguire nella gestione dei rifiuti è la riduzione progressiva delle quantità che vengono portate allo smaltimento. In questo modo si ottengono due vantaggi direttamente proporzionali: la riduzione dell'inquinamento generato dagli impianti industriali e la riduzione dei costi di smaltimento. La raccolta differenziata deve essere molto accurata, in modo da ricavarne materiali omogenei che possano essere venduti e utilizzati come materie prime secondarie. Una gestione ecologica corretta dei rifiuti consente di ridurre i costi di gestione e di accrescere gli utili. Se le aziende che li gestiscono non sono società per azioni, ma società pubbliche, gli utili non saranno distribuiti agli azionisti sotto forma di dividendi, ma potranno tradursi in riduzioni della tassa sulla raccolta dei rifiuti.

L’acqua è un bene comune e ne va garantita la proprietà pubblica. La stessa modalità può essere adottata per l’acqua , una risorsa indispensabile per la vita e per lo svolgimento delle attività produttive, di cui la siccità comincia a rendere drammatica la carenza. L’obiettivo principale è ridurre le perdite degli acquedotti che possono ammontare fino al 60 % dell'acqua catturata dalle falde idriche e  gestire le reti con un consumo di energia elettrica molto minore.

 

7) La Pace e luscita dal meccanismo infernale del debito sono indispensabili per affrontare alle radici i problemi che causano le migrazioni. La gestione dei confini avviene oggi in una logica militare che trasforma chi richiede asilo politico ed è costretto a migrare per ragioni climatiche ed economiche, in un nemico da combattere. Come se ci si trovasse di fronte ad una invasione armata. Ma non si possono mandare le Frecce Tricolori a bombardare i barchini o disseminare la penisola di centri di detenzione per rinchiudervi tutti quelli che sbarcano sulle nostre coste. Una persona inerme e in difficoltà non può essere considerata alla stregua di un invasore.

Non solo l'Europa ma l'intero mondo occidentale deve farsi carico delle migrazioni. È il momento di pagare gli interessi sulle risorse rapinate, sull'inquinamento e lo sfruttamento del fossile che produce alluvioni e disastri, di cancellare o ridurre i debiti dei Paesi in via di sviluppo, di elaborare non piani di aiuto ma investimenti nei luoghi dove l'ondata migratoria è più forte.

La politica dell'accoglienza deve avvenire nel rispetto della legalità e dei diritti umani, con una rete ordinata di assistenza, di formazione, di collaborazione lavorativa e di studio. I centri di detenzione vanno chiusi.

 

 

Dignità

 

 

Nell’epoca del liberismo globale deregolato l’influenza cinese nel mondo e la potenza finanziaria di Pechino hanno spinto l’amministrazione statunitense a reagire invocando un protezionismo unilaterale e aggressivo che è tra le cause fondamentali degli attuali venti di guerra. Fino a oggi, l'Unione europea si è accodata mentre appare più che mai urgente avviare, presso lONU, un tavolo di trattative per creare le "condizioni economiche per la pace”, come richiesto dall’appello di autorevoli economisti di tutto il mondo.

 

1) Proponiamo di rivedere completamente gli accordi di Maastricht sui quali sono nate lUnione e le cosiddette politiche di austerità. Un nuovo trattato dovrebbe prevedere piena occupazione, riduzione delle diseguaglianze, intervento pubblico nelleconomia, regolamentazione dei capitali e della finanza e finalizzare.

L'Italia degli ultimi trenta anni ha virato purtroppo verso i bassi salari, la riduzione dei diritti dei lavoratori, l'economia della rendita e dei patrimoni finanziari e immobiliari, aumentando enormemente le diseguaglianze. A pagare sono state soprattutto le donne: le più povere, le più precarie, le più sottopagate, sulle cui spalle continua a pesare la morsa del lavoro gratuito di riproduzione, di cura e accudimento. Lo stato sociale si è andato sempre più erodendo.

Robot, automatismi e intelligenza artificiale stanno cambiando i rapporti di forza tra l'uomo e la macchina. Le tecnologie non sono di per sé un rischio per i lavoratori ma lo è l'accentramento in poche mani e in pochi Paesi delle sorti dell'innovazione, dell'informazione e della cultura.

Saranno in molti a perdere il lavoro per l’intelligenza artificiale e la transizione ecologica. Lo Stato deve garantire a tutti l'occupazione e un'attività di studio e di riqualificazione permanente. Per gestire le transizioni dalla disoccupazione al lavoro; dal lavoro subordinato a quello autonomo; dal lavoro alla formazione vanno abolite tutte le forme precarie di lavoro, a meno che non siano tecnicamente giustificate come i lavori stagionali.

 

2) Eurgente introdurre un sostegno economico universale a chi resta senza lavoro.

Il lavoro deve essere dignitoso, rispettare l’ambiente, riconoscere i diritti sindacali; tener conto delle priorità personali e familiari. Il lavoro deve essere un diritto non la conseguenza di un ricatto. La grande massa di disoccupati costringe le persone ad accettare condizioni ingiuste e talvolta disumane. Soprattutto donne, giovani e  lavoratori stranieri sono spinti ad accettare qualunque condizione e  qualunque salario, obbligati con proposte di lavoro criminali, orari disumani e in condizioni di insicurezza. Chi percepisce il reddito deve partecipare a corsi di formazione tenendo conto delle sue capacità e delle sue aspirazioni.

3) Lorario di lavoro va portato in Europa a 32 ore settimanali. Siamo convinti che oggi serva lavorare meno per recuperare tempo e spazi di vita: il concetto stesso di orario di lavoro, o meglio di “tempo in cui si è a disposizione” va modificato, prevedendo il diritto alla disconnessione e a non confondere strumenti di lavoro e strumenti privati. Lavorare meno ore (in ufficio) ma essere in ogni luogo o periodo del giorno raggiungibile, ci rende vittime di un “tempo di lavoro senza fine”.

4) Il solco tra i mega profitti (di pochissimi) e le retribuzioni è diventato una voragine. La riduzione dellorario non può, dunque, slegarsi dallaumento dei livelli salariali, anche perché si potrebbe arrivare al paradosso per cui determinate categorie di lavoratori, avendo più tempo per loro stessi, non avrebbero risorse sufficienti per impegnarlo proficuamente ad esempio, per viaggiare, per frequentare un corso di formazione o, più banalmente, per iscriversi a una palestra. Vanno introdotti meccanismi automatici di adeguamento di stipendi e pensioni all’inflazione.

 

5) Nel nostro paese il taglio alle politiche di formazione avvenuto dal 2008 in poi ha prodotto un calo del 10% degli immatricolati universitari, tanto da porci allultimo posto in Europa per percentuale di laureate e laureati nella fascia d'età 25-34 anni, con un valore del 27%, mentre la media UE è poco sotto il 40%. Malgrado questa situazione disastrosa e preoccupante, pochissimi riescono a trovare un lavoro che sia adatto al grado d'istruzione acquisito e si è costretti a emigrare o a entrare in competizione per lavori precari di basso livello. Viviamo nel mito di un sistema meritocratico che, dice Joseph Stiglitz, fa sì che “Il 90% di quelli che nascono poveri, muoiono poveri, per quanto intelligenti e laboriosi possano essere, e il 90% di quelli che nascono ricchi muoiono ricchi, per quanto idioti o fannulloni possano essere. Da ciò si deduce che il merito non ha alcun valore”.

 

6) Bisogna sostenere artigiani e imprese familiari e ridurre le disparità tra le diverse aree e offrire pari opportunità ai giovani e alle giovani costrette a emigrare dalle zone più deboli a quelle più forti e arrestare il processo per cui l’istruzione non produce più la crescita economica, sociale e civile del territorio. Contemporaneamente una rete efficiente di infrastrutture europee deve impedire la periferizzazione di una parte importante del nostro continente.

 

7) Sono state smantellate le grandi industrie a partecipazione statale con un impatto sulla formazione a tutti i livelli, dalla scuola, all'università, alla ricerca. I Paesi che cresceranno di più domani, Cina, India, Sud Corea per esempio, sono quelli che oggi si sono occupati di meglio rafforzare e diversificare il proprio sistema industriale, della ricerca e dell'innovazione. Un grande programma pubblico europeo per la transizione verde, la ristrutturazione e la riqualificazione degli edifici pubblici (scuole, ospedali, uffici) può invertire questa tendenza.

 

8) Le politiche di austerità hanno reso impossibile l’investimento in risorse umane per la pubblica amministrazione. Ma un piano per loccupazione pubblica, con l’assunzione di giovani ad alta qualifica, è indispensabile per ammodernare lo Stato, le amministrazioni del settore sociale, la scuola e la ricerca. Va accelerata la digitalizzazione delle amministrazioni pubbliche con software open source, trasparente, non manipolabile da stranieri e agenzie estere, sviluppabile “in casa” e non dipendente dalle grandi corporations mondiali.

 

9) L’Europa riconosce la sua identità nelle proprie culture e si adopererà per dare loro la libertà e le energie di cui hanno bisogno per crescere e rinnovarsi. L’Europa si nutre del rapporto con le altre culture.

A tutti i cittadini europei vanno garantiti gli stessi diritti civili e umani e la più completa libertà d’espressione. Per difendere l’identità europea va favorita la nascita di social europei, di piattaforme europee per la produzione culturale e il commercio on line.

 

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 Dopo la pandemia, l’Unione Europea avrebbe dovuto mettere al centro delle sue politiche la prevenzione e la tutela della salute. Bisogna ridurre la spesa per le armi e incrementare quelle per la salute. Ma un recente dossier della Caritas riassume così la situazione in cui ci troviamo nel nostro Paese:

"... in diciotto anni, l’Italia ha ridotto dello 0,4% il finanziamento del sistema sanitario nazionale italiano. I fondi che rappresentavano il 7% del Prodotto interno lordo (Pil) nel 2001 sono scesi a un importo pari al 6,6% nel 2019. Al contrario, la spesa militare è cresciuta costantemente. Nel 2018 è giunta a 25 miliardi di euro, pari all’1,4% del Pil, segnando un aumento del 25% rispetto alle ultime tre legislature. L’Esercito ha avanzato la proposta di una “legge terrestre” per nuovi blindati, elicotteri, missili. 5 miliardi di euro in 6 anni; la stessa cifra garantirebbe 4.200 letti ospedalieri in più all’anno. Lo scorso 3 aprile l’AD di Fincantieri ha dichiarato di essere in trattativa con la Marina Militare per due nuovi sommergibili U-212, per un costo complessivo di 1,3 miliardi di euro: l’equivalente di 13.100 letti di terapia intensiva.

 

 

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Solo però uscendo dal sistema di guerra sarà possibile prendersi cura delle persone e aprire  un’era nuova per il mondo. L'homo sapiens combatte armato dall'inizio della sua esistenza. Questo però non significa che la guerra sia connaturata all’uomo  e che non debba essere prevenuta e impedita come il crimine di genocidio.

Il Cardinale Martini scriveva: “Certamente l’odio che si è accumulato è grande e grava sui cuori: vi sono persone e gruppi che se ne nutrono come di un veleno che mentre tiene in vita insieme uccide. Per superare l’idolo dell’odio e delle violenza è molto importante imparare a guardare al dolore dell’altro. La memoria delle sofferenze accumulate alimenta l’odio quando essa è riferita esclusivamente alla propria giusta causa. Se ciascun popolo guarderà solo al proprio dolore, allora prevarrà sempre la vendetta. Ma se la memoria del dolore sarà memoria della sofferenza anche dell’altro, dell’estraneo e persino del nemico, allora essa potrà rappresentare la premessa di ogni futura politica di pace”.