Un
fenomeno complesso non può spiegarsi con una sola causa. Al cospetto di ogni
femminicidio bisognerebbe aprire bocca solo se convinti di poterne individuare
alcune delle molteplici radici, senza nessuna pretesa di esaurire l’analisi. E
tanto meno le indicazioni terapeutiche.
Non
c’è dubbio che siamo immersi in uno scenario mondiale pervaso di
violenza: senza considerare l’esercizio abituale e irriflesso nei confronti
dell’ecosistema (fauna e flora comprese), la logica della prevaricazione e
della reazione altrettanto violenta (anzi, se possibile, più violenta) domina
quotidianamente i rapporti all’interno della coppia, della città, dei ceti
sociali, delle relazionali internazionali fra gli Stati. Gli antropologi e gli
storici delle civiltà ci avvertono che non è stato sempre così nel passato e
non lo è nel presente: se l’umanità non si è estinta è perché ci sono state, e
ci sono, le resistenze attivamente nonviolente, le tregue, le negoziazioni, le
paci. Ma non c’è dubbio che, anche se le eccezioni alla regola statistica dell’occhio
per occhio (anzi, dei due occhi per ogni occhio) venissero debitamente
registrate nei libri di storia e nelle cronache dei “giornalisti di pace”, la
bilancia segnerebbe la prevalenza della prepotenza.
La
logica planetaria della violenza si squaderna, e per così dire si articola, in
settori specifici (dominio delle maggioranze verso le minoranze; dei gruppi
criminali verso i concittadini disarmati; dei proprietari dei mezzi di
produzione di beni materiali, servizi e informazioni verso i dipendenti, i
clienti e l’opinione pubblica; e così via): l’ambito dei rapporti fra uomini
e donne è uno di questi spazi di violenza sistemica. E’ ovvio che non si
tratta di rilevare statisticamente per conteggi ragionieristici i casi in cui
un maschio esercita violenza su una femmina (anche se persino da questo punto
di vista contabile si palesa una evidente disimmetria), bensì di un assetto
globale – culturale, istituzionale, sociale, economico – nel quale, a parità di
altri fattori, le opportunità di sopravvivenza, di lavoro, di movimento, di
iniziativa… degli uomini sono nettamente prevalenti sulle corrispondenti
opportunità delle donne. Questo impianto complessivo è stato spesso denominato
“patriarcato”, ma, anche grazie alle conquiste del femminismo militante, la
figura del padre-padrone è oggi in crisi e mi pare sia preferibile adottare
altre categorie come “maschilismo” o “androcentrismo”. Al di là dei vocaboli
(necessariamente approssimativi), la situazione oggettiva sembrerebbe evidente:
in tutto il pianeta nascere maschi costituisce, per alcuni versi o per molti,
un privilegio. Come ha affermato qualcuno, c’è solo un soggetto più
svantaggiato del più povero contadino della Terra: sua moglie. Come negare che
una mentalità maschilista, radicata in una prassi che in essa si esprime e da
essa viene legittimata ulteriormente, costituisca un contesto di sfondo in cui agli uomini venga spontaneo assumere senza
neppure averne consapevolezza una postura direttiva, proprietaria, nei
confronti delle donne? Hanno ragione
quanti negano un rapporto causale fra “patriarcato” e femminicidi: non c’è
alcun dato statistico che supporti questa correlazione. Ma vanno subito
aggiunte almeno due considerazioni.
La prima: l’assetto maschilista della
stragrande maggioranza delle società contemporanee produce, e cela, un mare di
violenza sistemica (linguistica, psicologica, economica…) a danno delle femmine
che è devastante anche quando non arriva a sopprimerne la vita biologica.
Insomma: se non ci sono elementi per attribuire al patriarcato i femminicidi,
ce ne sono abbastanza per addebitargli tutte le altre forme di violenza di
genere.
La
seconda: il “patriarcato”, già pernicioso là dove anacronisticamente persiste,
si rivela addirittura assassino là dove è minacciato, intaccato, ferito
dall’evoluzione delle donne. In epoche e
in strati sociali dove era ‘normale’ che sorelle, mogli, figlie…accettassero la
subordinazione al dominio dei fratelli,
mariti, padri…non c’era alcun motivo di sopprimerle. E’ nei tempi e nei luoghi
in cui un numero crescente di donne si rifiuta di restare in condizioni di
svantaggio sistemico, e culturalmente complice perpetuando nell’educazione dei
figli e delle figlie la prospettiva androcentrica, che il padre-padrone può
avvertire lo sgretolarsi del terreno sotto i piedi (e del trono sotto il
sedere) ed essere spinto a gesti estremi.
Se
la violenza è, a livello planetario,
lo strumento privilegiato per nascondere i conflitti e per sedarli
qualora emergano alla luce del sole; e se tale postura dominante caratterizza,
più specificamente, le relazioni di genere, non possiamo fermarci qui
nel tentativo di interpretare i casi di femminicidio. Miliardi di maschi
nascono, crescono e muoiono in questa atmosfera (genericamente e
specificamente) violenta senza diventare assassini di donne in quanto donne. Per
capirne un po’ di più dovremmo considerare il percorso di formazione dei
singoli assassini e rassegnarci, anche da questo punto di vista, a
constatazioni di segno opposto.
Ci
sono ovviamente i violenti con una storia alle spalle di violenze subite;
carnefici perché, prima ancora, vittime di una “pedagogia nera” (Rutschky, Perticari,
Miller): vanno qui collocati gli eventi femminicidiari attribuiti a figli
educati a bastonate in certe famiglie di origine asiatica o spettatori di
crimini perpetrati metodicamente da genitori mafiosi.
Ma
ci sono anche gli assassini viziati da genitori – particolarmente da madri –
latitanti o, se presenti, permissivi: individui, specie di estrazione borghese,
che raramente hanno sperimentato nell’infanzia e nell’adolescenza un divieto,
uno stop, un no e che vivono i rifiuti (anche i più legittimi) alle loro
richieste come un’insopportabile ferita del proprio narcisismo. In casi del
genere è illuminante osservare il comportamento di madri che, informati del
delitto consumato dal figlio ai danni di un’altra donna, si affrettano ad
aiutarlo a lavare il sangue dal pavimento o a procurarsi un biglietto per
volare all’estero.
Poiché
non tutti i maschi educati o violentemente o permissivamente diventano autori
di femminicidi, l’angolazione pedagogica, per quanto necessaria, si rivela
insufficiente: man mano che dal generale zoomiamo sul particolare,
abbiamo bisogno di conoscere – caso per caso – il profilo psicologico di ogni
soggetto. Anche a questo livello dobbiamo rassegnarci a non trovare chiavi passepartout:
non esiste la tipologia del femminicida standard. In alcuni casi si
individueranno casi di psicosi, in altri di nevrosi, in altri ancora di
condizioni borderline, ma in non pochi altri ancora di nessuna rilevanza
patologica. Lo scientismo – inteso come convinzione pregiudiziale che le
scienze possano spiegare tutto – deve imparare dall’autentico spirito
scientifico a riconoscere i limiti dell’indagine scientifica: attraverso, e
oltre, gli innumerevoli condizionamenti (della propria epoca, della propria
etnia, della propria famiglia, della propria costituzione psichica…) restiamo
comunque padroni di un barlume almeno di arbitrio. Questo nocciolo, per quanto
ridottissimo, di intima libertà è la ragione dei nostri meriti e della nostra
colpevolezza: ignorarlo, sia pur per desiderio ‘buonista’ di giustificare tutto
e tutti, comporta (che lo si sappia o meno) la riduzione dell’enigma
antropologico a mero meccanismo. Ogni femminicidio – come ogni altro crimine –
ci spalanca la visione spiazzante di ciò che ciascuno/a di noi è davvero: un
groviglio di potenzialità disparate che, come un fuoco d’artificio, può
esplodere in direzioni divergenti. Kant ci direbbe che siamo cose fra cose (la
nostra dimensione ‘fenomenica’, palese) ma anche agenti creativi nel bene e nel
male (la nostra dimensione ‘noumenica’, nascosta). Ed Hegel aggiungerebbe che la condanna di un reo è un
modo per riconoscerne la dignità umana: non si processa un cane perché ha morso
un altro cane né meno ancora un albero perché si è abbattuto su un passante.
Proprio il riconoscimento dell’umanità del reo dovrebbe suggerire di
intrecciare le esigenze della giustizia con i sentimenti di compassione sulla
base di ciò che, ontologicamente, ci apparenta a lui. Ma questo è un altro
discorso.
Se questo quadro diagnostico è fondato, ne deriva un complesso di percorsi terapeutici dislocati a diversi livelli per ridurre (dal momento che non è realistico azzerarli) i femminicidi. Alla base, un impegnativo lavoro teorico-pratico di conversione culturale ai principi della nonviolenza (a partire dall’invito gandhiano “Sii tu il cambiamento che vorresti nel mondo”). Poi un impegno focalizzato sull’obiettivo di una giustizia di genere che garantisca la pari dignità e le pari opportunità alle persone di ogni sesso biologico, identità psicologica di genere, orientamento affettivo-sessuale e genere (inteso come ruolo sociale). Ancora più nello specifico, una radicale riforma pedagogica che persegua il difficile, ma indispensabile, equilibrio fra accettazione della personalità di ogni minore ed educazione al rispetto delle regole condivise. Infine – ma siamo così alla cura di ogni storia individuale – il monitoraggio continuo di tutti i maschi d’ogni età che, più o meno condizionati nello sviluppo della propria personalità, diano segni d’incapacità di gestire le proprie emozioni e di rapportarsi in maniera responsabile con il femminile con cui incrociano le esistenze.
Augusto
Cavadi
* L'edizione originale illustrata è qui:
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