martedì 29 aprile 2025

La mafia è mafia anche quando non spara

 In chi visita la Sicilia suscita non poco stupore l’affluenza popolare alle celebrazioni religiose anche in quartieri e in paesi tristemente noti per la persistenza di fenomeni mafiosi. L’enorme problematica (bisognerebbe partire dagli studi di Girard sul nesso genetico fra sacro e violenza) è stata recentemente ripresa nel volume, a firma  di don Francesco Conigliaro, Sed contra. Ruffini dice che la mafia esiste…nel quale il teologo palermitano contesta l’opinione (dominante anche fra gli storici di orientamento cattolico) secondo la quale il cardinale  - deceduto nel 1967 -   avrebbe negato l’esistenza della mafia. A sostegno della sua tesi controcorrente, l’autore cita vari passaggi in cui l’arcivescovo di Palermo stigmatizza la mafia come piaga della società siciliana. Analizzando tali brani si evince che, effettivamente, Ruffini condannava i delitti dei mafiosi, ma non anche i rapporti da loro intrattenuti  sistematicamente con politici e imprenditori.  Sembra sfuggire oggi a don Conigliaro ciò che sfuggiva allora al suo arcivescovo: che senza la dimensione politico-affaristica (che la differenzia da ogni altra forma di delinquenza ‘comune’) la mafia non è mafia.

Augusto Cavadi

“Gattopardo” (edizione siciliana)

Febbraio 2025

sabato 26 aprile 2025

OLTRE L'ANTIMAFIA? A CHE PUNTO SIAMO NEL CONTRASTO AL DOMINIO MAFIOSO


UN PASSO OLTRE L’ANTI-MAFIA

Quando mi si chiede  - come di recente Leandro Limoccia, docente di di Sociologia della devianza e della criminalità all’Università di Napoli - di conversare con giovani studenti universitari per fare il punto sulla situazione del contrasto al sistema mafioso (siciliano), ritengo necessario chiarire – preliminarmente – cosa intendo per mafia. Infatti capita di assistere, su questa tematica, a scontri anche duri fra protagonisti e studiosi della storia contemporanea che nascono da visioni parziali del fenomeno. Come nella parabola orientale dei ciechi che palpano un elefante e litigano perché uno, toccando la proboscide, sostiene che sia come un serpente; un altro, toccando una zampa, che sia come un albero; un altro ancora, toccando la coda, che sia come una funicella…Hanno tutti ragione ma, nel momento in cui assolutizzano il frammento, scivolano nel torto.

Fuor di metafora: la mafia è un’associazione di criminali, con un suo apparato militare, che mira all’acquisizione di potere e denaro. Ma i circa cinquemila “uomini d’onore” in servizio permanente effettivo non eserciterebbero il condizionamento che esercitano se non potessero contare su una molto più ampia cerchia di cittadini (secondo il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, circa un milione di siciliani) che spalleggiano, difendono, supportano i mafiosi o per complicità, affinità culturali, interessi privati o per timore di rappresaglie violente in caso di disobbedienza.

Se questa  rappresentazione della mafia (che mutuo, con qualche modifica, da Umberto Santino che non a torto parla di “paradigma della complessità”) è, sostanzialmente, corretta, si può sintetizzare la situazione dell’anti-mafia con l’immagine del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Vediamo, un po’ più in dettaglio, perché.

 

·      In quanto organizzazione criminale la mafia è stata incrinata da uno sforzo enorme delle autorità giudiziarie che hanno pagato il loro impegno con la vita di numerosi magistrati, poliziotti, testimoni di giustizia, professionisti interpellati come consulenti (senza contare figure gigantesche come il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa che non rientra in nessuna delle categorie evocate). Negare i successi dello Stato democratico da questo punto di vista sarebbe falso storicamente e ingiusto verso chi ha contribuito – per fortuna anche sopravvivendo - con intelligenza e generosità a realizzarli.

Ovviamente nessun trionfalismo deve indurre ad abbassare la guardia per almeno due ordini di considerazioni. Intanto perché non sappiamo quanto perdurino le relazioni clandestine fra settori dei Servizi segreti e gruppi criminali e, dunque, se siano scongiurati i rischi di stragi dimostrative o di attentati a esponenti apicali della lotta alla mafia. Comunque, a prescindere dai pericoli  nascosti, ce ne sono di palesi: l’azione repressiva delle autorità giudiziarie è messa a dura prova dalle modifiche legislative sulle intercettazioni telefoniche, i limiti temporali per le dichiarazioni dei ‘pentiti’, le prescrizioni…

In ogni scenario possibile, poi, vanno continuamente implementati la preparazione professionale e i mezzi delle Forze dell’Ordine per mantenere l’una e gli altri al passo con i progressi tecnologici.

 

·      Il (parziale) ottimismo per i colpi inferti alla mafia come soggetto militare sminuisce se la si considera in quanto soggetto politico che vuole condizionare interi territori esercitando potere sia mediante le istituzioni statali che direttamente. Qui bisogna decostruire il luogo comune della mafia come “anti-Stato”: sin dalle sue origini ottocentesche, essa cerca di infiltrarsi nello Stato tanto quanto pezzi di Stato cercano l’alleanza coi mafiosi. Più esatto dire che la mafia entra in collisione con quegli esponenti dello Stato democratico che si frappongono al suo perenne tentativo di farsi Stato.  Da questa angolazione non si può negare che il contrasto al dominio mafioso mostra delle crepe vistose: personaggi condannati in tre gradi di giudizio per reati connessi al sistema mafioso (ad esempio Dell’Utri e Cuffaro), una volta scontate le pene, sono tornati a svolgere un ruolo pubblico, sino a dichiarare l’appoggio a candidati al Parlamento siciliano e alla guida di città rilevanti come Palermo.

La crescente disaffezione nei riguardi della cosa pubblica e la conseguente diminuzione dei cittadini che usano “l’arma della matita” nelle urne elettorali (di cui parlava Paolo Borsellino) non possono che agevolare il monopolio degli spazi istituzionali da parte di politici o mafiosi o sostenuti da ambienti mafiosi.

 

·      Un bilancio altrettanto insoddisfacente si deve ammettere se la mafia viene considerata come soggetto economico. Le sue finanze sono floride perché ai vecchi metodi del ‘pizzo’ (di valore simbolico irrinunziabile) si sommano nuove occasioni di profitto (contrabbando di armi, gestione dei flussi migratori, sfruttamento della prostituzione, spaccio di stupefacenti anche a bassissimo costo, appalti per grandi opere pubbliche per lo più inutili). Magistrati e associazioni di cittadini come “Addiopizzo” denunziano un fenomeno paradossale:  sempre più spesso il commerciante cerca il contatto con il boss prima ancora  che il boss cerchi il contatto con lui. Addirittura si moltiplicano i casi di imprenditori che trovano conveniente non limitarsi a cooperare con i boss, ma diventare essi stessi boss. Le cronache sono puntellate da casi clamorosi di imprenditori come Helg e Montante processati per comportamenti tecnicamente mafiosi. Perfino un settore in cui si registrano importanti successi a spese dei beni sequestrati ai mafiosi sono stati inquinati da magistrati come la Saguto e dai suoi protetti. Come se ciò non bastasse, i commercianti che denunziano gli estortori vengono sottoposti dalle stesse istituzioni statali a boicottaggi incredibili, come racconta nel suo recentissimo libro autobiografico, E tu sai chi sono io? Storia di una ribellione al pizzo, il testimone di giustizia Nino Miceli (cfr. https://www.zerozeronews.it/un-miracolo-denunciare-la-mafia-e-sopravvivere-ai-boss-e-alla-falsa-antimafia/ ).

In questo ambito tematico restano tanti nodi da sciogliere: incrementare la finanza davvero etica; democratizzare il prestito (anche il piccolo prestito); legalizzare le droghe leggere (come auspicava Giovanni Falcone); intervenire incisivamente nella lotta all’evasione fiscale per una più equa della distribuzione dei beni e dei servizi.

·      Controverso, infine, il bilancio sulla mafia come soggetto pedagogico che crea consenso alternando la seduzione corruttiva (anche culturale) con l’intimidazione violenta. Infatti mi pare di constatare che alcuni modelli (l’ eroico “capo dei capi”) e alcune espressioni di offesa (“Sei uno sbirro”) siano in calo presso le nuove generazioni: dirsi “mafioso” non è più un’autodefinizione esaltante come mezzo secolo fa.

Tuttavia ci sono elementi, anche da questa angolazione, che non permettono nessun compiacimento rassicurante. Infatti la campagna promozionale della Ditta-mafia non conosce interruzione: prima che minacciare, essa preferisce offrire peloso soccorso come liquidità ad aziende in crisi o assistenza agli indigenti in tempi di pandemia o raccomandazioni a professionisti ambiziosi (da medici che aspirano al primariato a avvocati che ambiscono a poltrone in consigli d’amministrazione di enti pubblici). Al di là di questi fenomeni, abbastanza in linea con la tradizione, si assiste oggi ad una colonizzazione del “senso comune” da parte della mentalità mafiosa: singoli, associazioni, partiti pensano e agiscono come se lo Stato di diritto non potesse più  determinare limiti invalicabili all’arbitrio soggettivo. Anzi, addirittura, sono i governi di Stati grandi e piccoli che calpestano platealmente qualsiasi norma di diritto internazionale: diventa sempre più difficile distinguere i modi di vari leader politici dallo stile dei capimafia.

Se le visioni-del-mondo più diffuse sul pianeta si vanno  ‘mafiosizzando’ è necessario un salto di qualità dalle vecchie (e lodevoli) iniziative di educazione anti-mafia ad una rivoluzione culturale in direzione di orizzonti inediti. Forse non basta più opporsi ai codici culturali mafiosi sempre meno differenti dai codici culturali condivisi dalla maggioranza degli abitanti della Terra (a cui il capitalismo occidentale  insegna il primato assoluto del potere e del denaro su ogni altra dimensione della vita), ma sforzarsi di andare oltre le contrapposizioni secondarie verso una “spiritualità laica” – potenzialmente universale – che attesti la convenienza di alcune “buone pratiche” ai fini della felicità possibile sulla Terra: l’esercizio del senso critico, il piacere della conoscenza, la gioia della contemplazione della bellezza naturale e artistica, la compassione verso tutti gli esseri viventi, la postura nonviolenta e così via. La cultura anti-mafia ha svolto un ruolo prezioso, ma come ogni “anti” rischia la dipendenza da ciò a cui si oppone: probabilmente è arrivato il momento di lavorare, teoricamente e praticamente, per una cultura talmente innovativa da strappare le radici stesse della filosofia mafiosa.

                                             Augusto Cavadi

                                    (www.augustocavadi.com)

* Per la versione originaria con corredo iconografico cliccare qui:

https://www.zerozeronews.it/un-passo-oltre-lanti-mafia/


 

martedì 22 aprile 2025

PONTIFICATO DI BERGOGLIO: UN DIFFICILE BILANCIO

 PAPA FRANCESCO: UN DIFFICILE BILANCIO

Ci vorranno anni per redigere un bilancio attendibile del pontificato di Bergoglio (2013 – 2025), al di là delle etichette coniate in vita per esaltarlo (“papa rivoluzionario”) o per denigrarlo (“papa eretico”). 

Di certo è che la sua persona, il suo magistero, il suo stile di governo sono stati contrassegnati da una notevole e persistente ambivalenza (per i più malevoli,  ambiguità). Da una parte, infatti, è stato un papa di grandi aperture innovative (come nei confronti delle problematiche socio-economiche ed ecologiche); ma, per altri versi, non ha nascosto né una devozione religiosa tradizionalista né alcuni pesanti giudizi su questioni eticamente sensibili (dalla fluidità della nozione di “genere” alla liceità dell’aborto procurato).

Cosa resterà della sua azione nella storia della Chiesa cattolica?

L’elezione del nuovo pontefice potrà offrire qualche elemento di risposta, ma direi che – almeno  nell’immediato - non si registrerà nessun mutamento di rilievo. Egli infatti ha interpretato in maniera originale il ruolo, ma lasciando intatto il copione: fuor di metafora, è stato un papa che non è riuscito a (o non è stato capace di) trasformare il papato come istituzione.

Ad incidere nel lungo periodo potrà essere, piuttosto,  qualora venga raccolta e portata avanti dai successori, la sua prospettiva teologica. Sì, può suonare a prima vista paradossale: il papa meno ‘teologo’ della storia recente (nessun titolo accademico a differenza di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI) ha, tacitamente, testimoniato una visione teologica molto più fedele al messaggio originario dei suoi dotti predecessori; l’unica visione, tra l’altro, che potrebbe salvare la Chiesa cattolica dal precipitare nell’irrilevanza pubblica a cui sembra inesorabilmente destinata.

Egli infatti ha intuito, più per esperienze di vita che a seguito di faticosi studi in biblioteca, che la fede cristiana è un modo di essere-nel-mondo e di relazionarsi con gli esseri viventi più che l’accettazione intellettuale di una serie di “verità” catechetiche. Come è stato felicemente osservato da qualcuno, la sua prima vera enciclica non è stata  la Lumen fidei (che papa Ratzinger gli aveva lasciato quasi completata sulla scrivania), bensì il suo viaggio a Lampedusa per lanciare un segnale a favore dei migranti. In questi dodici anni il filo rosso dei suoi interventi è abbastanza riconoscibile: le questioni dottrinarie possono essere più o meno interessanti, ma ciò su cui si misura la nostra sequela del Cristo dei vangeli è la solidarietà con i disperati, gli sfruttati, gli impoveriti. Papa Francesco ha testimoniato che l’ortodossia è fondamentale, ma che consiste nella centralità dell’ortoprassi. Eretico è chi nega che l’essenza, il principio, l’anima  sia l’amore a trecentosessanta gradi, non chi ha dubbi su un dogma proclamato nel XVI secolo o nel XX o chi dissente sulla traduzione dal greco in latino di un versetto biblico. 

Se la Chiesa avrà un futuro sarà non in quanto agenzia culturale in grado di produrre sistemi teologici mirabolanti,  bensì in quanto palestra di persone, comunità, movimenti specializzati nell’amore gratuito, nel dono creativo, nell’agape trasformatrice. Dall’imminente conclave si capirà se i cardinali hanno compreso la posta in gioco o se preferiranno far finta di niente, continuando a gingillarsi sul Titanic ignari degli iceberg disseminati sulla rotta.

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

Qui il link all'originale:

Una versione più sintetica (con un titolo di cui non sono responsabile) qui:

venerdì 18 aprile 2025

LETTERA SUL PROSSIMO REFERENDUM (LUNEDI' 8 - DOMENICA 9 GIUGNO " 2025)

 

Cara, caro,

di solito ci limitiamo a vivere in una falsa democrazia dove non possiamo incidere in nulla.

L’istituto del referendum è il mezzo principale con cui anche tu, io, i nostri amici possiamo decidere senza delegare né partiti né sindacati.

Nei giorni di domenica 8 e di lunedì 9 giugno 2025 si avrà la possibilità di dire la propria opinione su 5 quesiti:

1.     Stop ai licenziamenti illegittimi

2.     Più tutele per chi lavora nelle piccole imprese

3.     Minore precarietà nei rapporti di lavoro

4.     Contrasto più deciso agli incidenti sul lavoro

5.     Cittadinanza meno ardua per gli immigrati residenti in Italia

Se vai al sito Referendum 2025, per cosa e come si vota l'8 e il 9 giugno | Wired Italia puoi avere tutte le informazioni necessarie su ciascun quesito.

Come padre adottivo di una ragazza africana tengo in particolare al quinto quesito, ma voterò “sì” a tutti e cinque.

Se questa battaglia di lotta nonviolenta ti convince, ti prego di ‘personalizzare’ questa lettera e di inviarla ad almeno 10 contatti, privilegiando quelle persone che hanno congiunti fuori sede: essi, infatti, potranno esercitare il diritto di voto anche lontano dal Comune di residenza purché entro il 4 maggio compilino questo semplice modulo nel sito del Ministero dell’Interno: REFERENDUM 2025 - Domanda voto fuori sede

Grazie dell’attenzione,

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

domenica 13 aprile 2025

FEMMINICIDI: PER FENOMENI COMPLESSI SOLO ANALISI COMPLESSE E TERAPIE MULTILIVELLO

 

Un fenomeno complesso non può spiegarsi con una sola causa. Al cospetto di ogni femminicidio bisognerebbe aprire bocca solo se convinti di poterne individuare alcune delle molteplici radici, senza nessuna pretesa di esaurire l’analisi. E tanto meno le indicazioni  terapeutiche.

Non c’è dubbio che siamo immersi in uno scenario mondiale pervaso di violenza: senza considerare l’esercizio abituale e irriflesso nei confronti dell’ecosistema (fauna e flora comprese), la logica della prevaricazione e della reazione altrettanto violenta (anzi, se possibile, più violenta) domina quotidianamente i rapporti all’interno della coppia, della città, dei ceti sociali, delle relazionali internazionali fra gli Stati. Gli antropologi e gli storici delle civiltà ci avvertono che non è stato sempre così nel passato e non lo è nel presente: se l’umanità non si è estinta è perché ci sono state, e ci sono, le resistenze attivamente nonviolente, le tregue, le negoziazioni, le paci. Ma non c’è dubbio che, anche se le eccezioni alla regola statistica dell’occhio per occhio (anzi, dei due occhi per ogni occhio) venissero debitamente registrate nei libri di storia e nelle cronache dei “giornalisti di pace”, la bilancia segnerebbe la prevalenza della prepotenza.

La logica planetaria della violenza si squaderna, e per così dire si articola, in settori specifici (dominio delle maggioranze verso le minoranze; dei gruppi criminali verso i concittadini disarmati; dei proprietari dei mezzi di produzione di beni materiali, servizi e informazioni verso i dipendenti, i clienti e l’opinione pubblica; e così via): l’ambito dei rapporti fra uomini e donne è uno di questi spazi di violenza sistemica. E’ ovvio che non si tratta di rilevare statisticamente per conteggi ragionieristici i casi in cui un maschio esercita violenza su una femmina (anche se persino da questo punto di vista contabile si palesa una evidente disimmetria), bensì di un assetto globale – culturale, istituzionale, sociale, economico – nel quale, a parità di altri fattori, le opportunità di sopravvivenza, di lavoro, di movimento, di iniziativa… degli uomini sono nettamente prevalenti sulle corrispondenti opportunità delle donne. Questo impianto complessivo è stato spesso denominato “patriarcato”, ma, anche grazie alle conquiste del femminismo militante, la figura del padre-padrone è oggi in crisi e mi pare sia preferibile adottare altre categorie come “maschilismo” o “androcentrismo”. Al di là dei vocaboli (necessariamente approssimativi), la situazione oggettiva sembrerebbe evidente: in tutto il pianeta nascere maschi costituisce, per alcuni versi o per molti, un privilegio. Come ha affermato qualcuno, c’è solo un soggetto più svantaggiato del più povero contadino della Terra: sua moglie. Come negare che una mentalità maschilista, radicata in una prassi che in essa si esprime e da essa viene legittimata ulteriormente, costituisca un contesto di sfondo  in cui agli uomini venga spontaneo assumere senza neppure averne consapevolezza una postura direttiva, proprietaria, nei confronti delle donne?  Hanno ragione quanti negano un rapporto causale fra “patriarcato” e femminicidi: non c’è alcun dato statistico che supporti questa correlazione. Ma vanno subito aggiunte almeno due considerazioni.

 La prima: l’assetto maschilista della stragrande maggioranza delle società contemporanee produce, e cela, un mare di violenza sistemica (linguistica, psicologica, economica…) a danno delle femmine che è devastante anche quando non arriva a sopprimerne la vita biologica. Insomma: se non ci sono elementi per attribuire al patriarcato i femminicidi, ce ne sono abbastanza per addebitargli tutte le altre forme di violenza di genere.

La seconda: il “patriarcato”, già pernicioso là dove anacronisticamente persiste, si rivela addirittura assassino là dove è minacciato, intaccato, ferito dall’evoluzione delle donne.  In epoche e in strati sociali dove era ‘normale’ che sorelle, mogli, figlie…accettassero la subordinazione  al dominio dei fratelli, mariti, padri…non c’era alcun motivo di sopprimerle. E’ nei tempi e nei luoghi in cui un numero crescente di donne si rifiuta di restare in condizioni di svantaggio sistemico, e culturalmente complice perpetuando nell’educazione dei figli e delle figlie la prospettiva androcentrica, che il padre-padrone può avvertire lo sgretolarsi del terreno sotto i piedi (e del trono sotto il sedere) ed essere spinto a gesti estremi.

Se la violenza è, a livello planetario,  lo strumento privilegiato per nascondere i conflitti e per sedarli qualora emergano alla luce del sole; e se tale postura dominante caratterizza, più specificamente, le relazioni di genere, non possiamo fermarci qui nel tentativo di interpretare i casi di femminicidio. Miliardi di maschi nascono, crescono e muoiono in questa atmosfera (genericamente e specificamente) violenta senza diventare assassini di donne in quanto donne. Per capirne un po’ di più dovremmo considerare il percorso di formazione dei singoli assassini e rassegnarci, anche da questo punto di vista, a constatazioni di segno opposto.

Ci sono ovviamente i violenti con una storia alle spalle di violenze subite; carnefici perché, prima ancora, vittime di una “pedagogia nera” (Rutschky, Perticari, Miller): vanno qui collocati gli eventi femminicidiari attribuiti a figli educati a bastonate in certe famiglie di origine asiatica o spettatori di crimini perpetrati metodicamente da genitori mafiosi.

Ma ci sono anche gli assassini viziati da genitori – particolarmente da madri – latitanti o, se presenti, permissivi: individui, specie di estrazione borghese, che raramente hanno sperimentato nell’infanzia e nell’adolescenza un divieto, uno stop, un no e che vivono i rifiuti (anche i più legittimi) alle loro richieste come un’insopportabile ferita del proprio narcisismo. In casi del genere è illuminante osservare il comportamento di madri che, informati del delitto consumato dal figlio ai danni di un’altra donna, si affrettano ad aiutarlo a lavare il sangue dal pavimento o a procurarsi un biglietto per volare all’estero.

Poiché non tutti i maschi educati o violentemente o permissivamente diventano autori di femminicidi, l’angolazione pedagogica, per quanto necessaria, si rivela insufficiente: man mano che dal generale zoomiamo sul particolare, abbiamo bisogno di conoscere – caso per caso – il profilo psicologico di ogni soggetto. Anche a questo livello dobbiamo rassegnarci a non trovare chiavi passepartout: non esiste la tipologia del femminicida standard. In alcuni casi si individueranno casi di psicosi, in altri di nevrosi, in altri ancora di condizioni borderline, ma in non pochi altri ancora di nessuna rilevanza patologica. Lo scientismo – inteso come convinzione pregiudiziale che le scienze possano spiegare tutto – deve imparare dall’autentico spirito scientifico a riconoscere i limiti dell’indagine scientifica: attraverso, e oltre, gli innumerevoli condizionamenti (della propria epoca, della propria etnia, della propria famiglia, della propria costituzione psichica…) restiamo comunque padroni di un barlume almeno di arbitrio. Questo nocciolo, per quanto ridottissimo, di intima libertà è la ragione dei nostri meriti e della nostra colpevolezza: ignorarlo, sia pur per desiderio ‘buonista’ di giustificare tutto e tutti, comporta (che lo si sappia o meno) la riduzione dell’enigma antropologico a mero meccanismo. Ogni femminicidio – come ogni altro crimine – ci spalanca la visione spiazzante di ciò che ciascuno/a di noi è davvero: un groviglio di potenzialità disparate che, come un fuoco d’artificio, può esplodere in direzioni divergenti. Kant ci direbbe che siamo cose fra cose (la nostra dimensione ‘fenomenica’, palese) ma anche agenti creativi nel bene e nel male (la nostra dimensione ‘noumenica’, nascosta). Ed Hegel  aggiungerebbe che la condanna di un reo è un modo per riconoscerne la dignità umana: non si processa un cane perché ha morso un altro cane né meno ancora un albero perché si è abbattuto su un passante. Proprio il riconoscimento dell’umanità del reo dovrebbe suggerire di intrecciare le esigenze della giustizia con i sentimenti di compassione sulla base di ciò che, ontologicamente, ci apparenta a lui. Ma questo è un altro discorso.

Se questo quadro diagnostico è fondato, ne deriva un complesso di percorsi terapeutici dislocati a diversi livelli per ridurre (dal momento che non è realistico azzerarli) i femminicidi. Alla base, un impegnativo lavoro teorico-pratico di conversione culturale ai principi della nonviolenza (a partire dall’invito gandhiano “Sii tu il cambiamento che vorresti nel mondo”). Poi un impegno focalizzato sull’obiettivo di una giustizia di genere che garantisca la pari dignità e le pari opportunità alle persone di ogni sesso biologico, identità psicologica di genere, orientamento affettivo-sessuale e genere (inteso come ruolo sociale). Ancora più nello specifico, una radicale riforma pedagogica che persegua il difficile, ma indispensabile, equilibrio fra accettazione della personalità di ogni minore ed educazione al rispetto delle regole condivise. Infine – ma siamo così alla cura di ogni storia individuale – il monitoraggio continuo di tutti i maschi d’ogni età che, più o meno condizionati nello sviluppo della propria personalità, diano segni d’incapacità di gestire le proprie emozioni e di rapportarsi in maniera responsabile con il femminile con cui incrociano le esistenze.  

Augusto Cavadi

* L'edizione originale illustrata è qui:

https://www.zerozeronews.it/femmicidi-che-fare-riforma-pedagogica-e-capillare-assistenza-psicologica/

 

giovedì 3 aprile 2025

L’eredità di Ortensio da Spinetoli: report di Valerio Gigante del Convegno romano del 26.3.2025

 

Cercare assieme, cercare ancora.                                L’eredità di Ortensio da Spinetoli

Ricordare la figura di Ortensio da Spinetoli a cento anni dalla nascita. Ma perché, qual è il senso e la portata della sua testimonianza umana e intellettuale per la Chiesa e per la società odierna? È una domanda che vale per tante figure che hanno accompagnato la storia della Chiesa e della società del passato recente e remoto. Vale ancora di più per Ortensio, che le circostanze storiche hanno condannato alla marginalità, al punto che sin dagli anni ‘70 Ortensio ha potuto parlare e scrivere solo in una sorta di semi-clandestinità, allontanata dalla Chiesa istituzionale e dalle facoltà teologiche.

Eppure, in modo per alcuni versi sorprendente, le pagine di Ortensio continuano a suscitare interesse e dibattito. Il suo libro postumo – quasi una sorte di testamento spirituale – L’inutile fardello, pubblicato nel 2017 dalla casa editrice laica Chiarelettere fu un piccolo caso letterario, con diverse ristampe e migliaia di copie vendute. Di questa permanenza di Ortensio nella vita e nel dibattito ecclesiale e culturale si è discusso a Roma, presso la basilica dei SS: Apostoli, lo scorso 16 marzo. C’erano oltre 100 persone, venute ad ascoltare e a confrontarsi con Ricardo Peréz Márquez, teologo, del Centro studi biblici “G. Vannucci” di Montefano e Augusto Cavadi, filosofo, della Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone” di Palermo. Moderati dalla giornalista Luce Tommasi, i relatori e gli interventi dei presenti hanno messo in evidenza la consapevolezza che la forza e radicalità del pensiero di Ortensio sono state più forti della violenza con cui il potere ecclesiastico ha tentato di silenziarlo. E che, anzi, proprio la condizione di marginalità che Ortensio ha dovuto subire per oltre 40 anni, unite alla coerenza di vita e testimonianza gli hanno consentito di instaurare e mantenere un legame solidissimo con le generazioni di laici e credenti vissute nel post Concilio, che si interrogavano su un nuovo modo di leggere e interpretare le Scritture. Augusto Cavadi nel suo intervento ha sostenuto che Ortensio, con i suoi testi e la sua proposta di esegesi biblica, con la sua ecclesiologia e la sua teologia sia stato soprattutto capace di parlare ai non specialisti, a coloro che non frequentavano le biblioteche e le facoltà teologiche; addirittura a coloro che non si interessavano della Chiesa e dei suoi problemi nel rapporto con il mondo contemporaneo. Una circostanza straordinaria, soprattutto in un Paese come l’Italia, dove drammatico è stato il divorzio tra ricerca teologica e cultura laica, consumatosi sin dal periodo post unitario. Se infatti, ha spiegato Cavadi, in Paesi come la Germania, le facoltà teologiche si trovano all'interno di atenei statali con il risultato di un continuo e fecondo dialogo tra culture e visioni del mondo, in Italia la teologia è sempre stata monopolio esclusivo della Chiesa. Questa circostanza ha provocato enormi danni alla cultura cattolica, ma ha avuto conseguenze disastrose anche per la cultura laica.

L’“ecumenismo dell’ignoranza”

Cavadi, che ha insegnato per 40 anni nei licei, ha raccontato ad esempio di essersi spesso trovato di fronte a insegnanti di letteratura, storia, arte completamente digiuni di conoscenze bibliche e competenze teologiche, che non sapevano nulla di Gesù e della dottrina cattolica; ma che spiegavano la Divina Commedia o i capolavori della pittura o le guerre di religione senza questo indispensabile retroterra culturale. Oggi poi, che, ha chiosato Cavadi, neanche i cattolici leggono e sanno più di teologia, siamo di fronte a una sorta di «ecumenismo dell’ignoranza». In tale contesto, pochissimi intellettuali cattolici hanno avuto la capacità e il coraggio di superare questo divorzio, facendo breccia in un pubblico laico, digiuno di questioni religiose. Capitò al biblista Giuseppe Barbaglio, con il suo fortunato testo su Paolo di Tarso. O a Vittorio Messori con la sua Inchiesta su Gesù. È capitato in anni recenti a Vito Mancuso o a Mauro Pesce. Ma sempre in modo episodico. Ortensio invece ha inciso in maniera profonda su diverse generazioni; non solo con i suoi libri, ma con il suo metodo di indagine. In un periodo, peraltro, in cui la teologia dava risposte a domande che la società secolarizzata non si poneva. In un dialogo tra sordi che la ricerca di Ortensio ha saputo lentamente trasformare.

Tre qualità

Dell’eredità di Ortensio, Cavadi sottolinea in particolare tre qualità: la competenza scientifica, che gli consentiva di argomentare, documentando puntualmente e in maniera circostanziata ciò che sosteneva. In questo modo Ortensio non doveva rifugiarsi, come altri teologi, in un linguaggio astruso, autoreferenziale e specialistico, ma comunicava in maniera chiara e nitida, sempre aperto al confronto con ogni possibile rilievo critico. E sempre consapevole della provvisorietà di ogni affermazione e ipotesi, che poteva e anzi doveva sempre essere soggetta a revisione e approfondimento.

Poi Ortensio aveva la passione per la ricerca; e ogni volta che scriveva o parlava si percepiva il suo desiderio di indagare il testo biblico assieme a coloro che lo ascoltavano e lo leggevano, evitando ogni atteggiamento di superiorità intellettuale.

La terza qualità di Ortensio è che era una persona libera. Libera dalla dipendenza economica nei confronti dell'autorità; e libero dal desiderio di fare carriera. Aveva infatti accettato di essere degradato e impoverito pur di difendere le sue idee; e ha fatto anzi di questa sua condizione il presupposto di una ricerca realmente libera, perché realmente indipendente da ogni condizionamento. 

Ortensio scriveva e affermava contenuti di grande radicalità ma mai in uno spirito distruttivo Se demoliva indicava sempre un aspetto positivo, una prospettiva possibile per uscire dalla crisi che le sue affermazioni avevano aperto. E sempre Ortensio proponeva le sue interpretazioni come ipotesi, sottolineando sempre – come ha ricordato Perez – che le parole migliori sono quelle che devono ancora essere scritte e che fare esegesi biblica e fare teologia equivale a mettersi costantemente in cammino.

Il Vangelo per l’uomo, non per l’istituzione

Mantenendo con perseveranza la fedeltà alla parola, ha ricordato Ricardo Peréz Márquez, profeti come Ortensio sono stati ingiuriati, ma la storia ha dato loro ragione. Anche se la loro esistenza si può chiudere con una sconfitta, il fatto di essere stati vigili e perseveranti rende ancora viva e attuale la loro testimonianza. In particolare Ortensio ha saputo comunicare la ricchezza umana del Vangelo, sempre consapevole delle incomprensioni e del rifiuto di quanti sono pronti a sacrificare il bene delle persone alle ragioni dell’istituzione.

Ortensio era convinto che il Vangelo fosse distinto e distante da ogni dottrina. Uno dei suoi tratti distintivi è stata la passione per la parola, che Ortensio ha sempre saputo coniugare con il rigore e la coerenza della vita. Per lui, ha spiegato Peréz Márquez, la parola non serve a confermare una dottrina, ma a nutrire la fede dei credenti per orientarne le scelte alla realizzazione del regno. Ortensio lo ha fatto introducendo tra i primi il metodo storico critico all'esegesi delle scritture. Demitizzare i testi sacri, riportandoli al contesto storico culturale nel quale sono stati prodotti per renderli significativi per la vita dei credenti. Liberando la teologia dai fardelli inutili imposti dall’ideologia religiosa, che identifica la verità con la dottrina. Ortensio ha insegnato una prassi che si oppone a ogni forma di dogmatismo applicato alla parola. Alcuni dei libri di Ortensio da Spinetoli sono disponibili presso Adista, 06/6868692, abbonamenti@adista.it, www.adista.it).

Un’ultima notazione: alla fine dell’incontro i presenti si sono spostati in Basilica, per assistere alla celebrazione di una messa in ricordo di Ortensio celebrata dal card. Matteo Zuppi. Un segno – ma resta da capire quanto sarà rilevante (una analoga iniziativa del cardinale per Ernesto Bonaiuti non ha avuto sinora alcun seguito) – dell’attenzione che oggi anche l’istituzione ecclesiastica ha voluto mostrare nei confronti di questo grande biblista. 

Tratto da: Adista Notizie n° 13 del 05/04/2025

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