martedì 18 febbraio 2025

SEX WORKER, GPA, IDENTITA' DI GENERE: UN CONTRIBUTO AL DIBATTITO INTERNO AL FEMMINISMO

 

Su alcune questioni etiche (in particolare il lavoro sessuale, la gravidanza per altri, l’identità di genere) il mondo femminista contemporaneo è attraversato da una spaccatura per molti versi imprevedibile. Da una parte (il movimento LGBT+, Non Una Di Meno, esponenti del transfemminismo)  chi sostiene posizioni più possibiliste, quando non apertamente favorevoli al capovolgimento dell’etica sinora maggioritaria; dall’altra (molte esponenti del femminismo storico) chi è molto critico verso le ‘nuove’ tendenze permissive e ne denuncia i risvolti decisamente negativi. Questa contrapposizione trasversale non sarebbe particolarmente interessante se non venisse a dividere personalità, gruppi, movimenti ritenuti tradizionalmente ‘progressisti’, di ‘sinistra’. Infatti una cerchia di femministe storiche ha pubblicato il volume Vietato a sinistra. Dieci interventi femministi su temi scomodi (Castelvecchi, Roma 2024) per denunziare ciò che ritiene una scorretta strategia dialettica: a parere delle co-autrici, chi è in disaccordo con le loro tesi, invece di entrare nel merito delle questioni, preferisce sfruttare polemicamente la convergenza oggettiva di tali posizioni con convinzioni espresse nel dibattito pubblico da ambienti consistenti della Destra politica e religiosa. Come si esprime Daniela Dioguardi (che è anche la curatrice del volume), “chi osa manifestare un pensiero divergente, esprimere una critica, un dissenso viene bollato come di destra, reazionario, bigotto, conservatore, perfino fascista e si tenta in vari modi di metterlo a tacere” (p. 40).

Quali sono, in estrema sintesi, le ragioni per cui a Sinistra non dovrebbe essere ovvio abbracciare con entusiasmo le teorie oggi di moda? Perché la prostituzione non è un un sexual work ma uno sfruttamento maschilista del corpo della donna; l’affitto dell’utero per nove mesi non è un gesto di solidarietà tra donne ma l’ennesima strumentalizzazione di chi ha soldi a danno di chi è fortemente deprivato; la possibilità di scegliere la propria identità di genere non è espressione di autodeterminazione ma miope cancellazione dei dati biologici e della differenza irriducibile fra maschile e femminile. Alla radice di queste trasformazioni – apparentemente rivoluzionarie in senso progressista – si troverebbe, invece, l’idea di  “una libertà individuale incondizionata” (p. 39) che scambia per “diritti” i propri “desideri” e riduce “il corpo” a “un oggetto in nostro possesso di cui possiamo fare ciò che vogliamo” (p.40). Lo scardinamento dell’etica occidentale non avviene, dunque, in nome della scienza, dell’evoluzione culturale, della civiltà, bensì della “nuova frontiera del neoliberismo” (ivi).

A un complesso di tesi così stimolanti mi sono sorte delle considerazioni che, forse, meriterebbero a loro volta di essere esaminate.

Non ho difficoltà ad ammettere che molte rivendicazioni settoriali delle nuove generazioni si basino – come scrive Francesca Izzo nella Introduzione – sul “paradigma individualistico, diventato dominante nell’economia come nella politica o nell’etica” (p. 10), che appartiene alla tradizione liberal-borghese-capitalistica più che a culture alternative che (non di rado con unilateralismo altrettanto “fuorviante”) hanno sottolineato la dimensione comunitaria, sociale, collettiva. Ma su quale di queste due prospettive ideologiche i femminismi storici hanno fondato le loro (legittime) rivendicazioni? A me pare – per limitarmi all’esempio più eclatante – che slogan come “l’utero è mio e lo gestisco io” siano espressione di un’antropologia individualistica, sbilanciata sul versante dell’autonomia e dei diritti piuttosto che della corresponsabilità e dei doveri. Se così fosse bisognerebbe riconoscere che il transfemminismo, più che tradire i presupposti teorici del femminismo storico, ne sta traendo le conseguenze logiche estreme.

Se capisco bene, anche la Izzo riconosce la necessità di rifondare su presupposti diversi normative come “la legge 194”, in cui “la libertà di scelta” non viene più “declinata” “in termini di diritto” ma chiamata “autodeterminazione” (p. 9). Ma – chiederei – cosa legittima questa possibilità di autodeterminarsi da parte della donna gravida, se ci lasciamo alle spalle l’ottica atomistica, monadica, del liberalismo illuministico? Sul criterio del male minore.  Sino a quando la cultura sessuofobica dominante ostacolerà la diffusione capillare delle informazioni sulle tecniche contraccettive, donne di ogni età e condizione sociale continueranno a rimanere involontariamente incinte: a quel punto la soluzione meno ingiusta è che la decisione ultima (se non esclusiva) sull’interruzione della gravidanza spetti non al partner o alla famiglia d’origine, ma a chi dovrà pagare il prezzo più alto in termini di sofferenza psico-fisica. Che lo Stato assicuri assistenza sanitaria alla donna che ritiene inevitabile affrontare il trauma dell’aborto procurato può essere giustificato nell’ottica della riduzione del danno: qualsiasi altra soluzione (dal ricorso a interventi selvaggi in condizioni igieniche proibitive al privilegio delle donne più danarose di ricorrere a cliniche straniere specializzate) risulterebbe eticamente peggiore.

Però – passo a una seconda considerazione – se, scartata la logica dell’individualismo proprietario, la legislazione può regolamentare pratiche in sé immeritevoli di tutela ma realisticamente impossibile da impedire, solo allo scopo di limitarne al massimo gli inconvenienti, perché escludere che nell’elenco di queste pratiche rientrino la prostituzione sessuale o la gravidanza per altri? A mio avviso una donna che, senza nessuna costrizione fisica, accetti d’essere ingravidata in conseguenza di un rapporto sessuale completo con un maschio irresponsabile (dunque sto escludendo aborti terapeutici, eugenetici o di feti conseguenti a stupri) non ha “diritto” di essere soccorsa dallo Stato a rimediare alla propria imprudenza più che un motociclista che, privo di casco,  voli dalla sua moto durante una corsa a 170 km orari in autostrada: ma, nell’uno come nell’altro caso, qualsiasi altra soluzione apparirebbe disumana. Similmente si può affermare che una donna che decida – anche se per ragioni economiche oggettive – di prestare servizi sessuali a pagamento o addirittura il proprio stesso apparato riproduttivo non stia esercitando un “diritto”; e tuttavia uno Stato, al fine di  evitare danni più pesanti, può intervenire legislativamente per regolamentare delle prassi che (in assoluto o comunque in relazione alla coscienza etica media di una certa società) non sarebbero accettabili.  Chiunque di noi, se avesse a cuore il destino di una donna che ritenesse lecito (o illecito ma, nella data situazione concreta, inevitabile) esercitare la prostituzione o prestare il proprio utero per la formazione di un bimbo non suo, se non riuscisse a modificare la decisione della figlia o della sorella o della compagna, preferirebbe che essa fosse almeno protetta normativamente dai rischi più gravi della sua scelta.

Dioguardi, giustamente, condanna le posizioni drastiche e “su una maniera così complessa” ritine che si debba “aprire un dibattito che faciliti la diffusione di corrette e complete informazioni e il confronto tra opinioni diverse” (p. 44). Poiché all’interno di questo volume le voci sono tutte convergenti, ci si deve augurare che – nelle varie sedi in cui sarà presentato e discusso – si possano ascoltare punti di vista differenti o addirittura opposti.


Augusto Cavadi 

“Adista/ Segni nuovi”, 7, 22.2.2025

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