Su
alcune questioni etiche (in particolare il lavoro sessuale, la gravidanza per
altri, l’identità di genere) il mondo femminista contemporaneo è attraversato
da una spaccatura per molti versi imprevedibile. Da una parte (il movimento
LGBT+, Non Una Di Meno, esponenti del transfemminismo) chi sostiene posizioni più possibiliste,
quando non apertamente favorevoli al capovolgimento dell’etica sinora maggioritaria;
dall’altra (molte esponenti del femminismo storico) chi è molto critico verso
le ‘nuove’ tendenze permissive e ne denuncia i risvolti decisamente negativi.
Questa contrapposizione trasversale non sarebbe particolarmente interessante se
non venisse a dividere personalità, gruppi, movimenti ritenuti tradizionalmente
‘progressisti’, di ‘sinistra’. Infatti una cerchia di femministe storiche ha
pubblicato il volume Vietato a sinistra. Dieci interventi femministi su temi
scomodi (Castelvecchi, Roma 2024) per denunziare ciò che ritiene una
scorretta strategia dialettica: a parere delle co-autrici, chi è in disaccordo
con le loro tesi, invece di entrare nel merito delle questioni, preferisce
sfruttare polemicamente la convergenza oggettiva di tali posizioni con
convinzioni espresse nel dibattito pubblico da ambienti consistenti della
Destra politica e religiosa. Come si esprime Daniela Dioguardi (che è anche la
curatrice del volume), “chi osa manifestare un pensiero divergente, esprimere
una critica, un dissenso viene bollato come di destra, reazionario, bigotto,
conservatore, perfino fascista e si tenta in vari modi di metterlo a tacere”
(p. 40).
Quali
sono, in estrema sintesi, le ragioni per cui a Sinistra non dovrebbe essere
ovvio abbracciare con entusiasmo le teorie oggi di moda? Perché la
prostituzione non è un un sexual work ma uno sfruttamento
maschilista del corpo della donna; l’affitto dell’utero per nove mesi non è un
gesto di solidarietà tra donne ma l’ennesima strumentalizzazione di chi ha
soldi a danno di chi è fortemente deprivato; la possibilità di scegliere la
propria identità di genere non è espressione di autodeterminazione ma miope
cancellazione dei dati biologici e della differenza irriducibile fra maschile e
femminile. Alla radice di queste trasformazioni – apparentemente rivoluzionarie
in senso progressista – si troverebbe, invece, l’idea di “una libertà individuale incondizionata” (p.
39) che scambia per “diritti” i propri “desideri” e riduce “il corpo” a “un
oggetto in nostro possesso di cui possiamo fare ciò che vogliamo” (p.40). Lo
scardinamento dell’etica occidentale non avviene, dunque, in nome della
scienza, dell’evoluzione culturale, della civiltà, bensì della “nuova frontiera
del neoliberismo” (ivi).
A
un complesso di tesi così stimolanti mi sono sorte delle considerazioni che,
forse, meriterebbero a loro volta di essere esaminate.
Non
ho difficoltà ad ammettere che molte rivendicazioni settoriali delle nuove
generazioni si basino – come scrive Francesca Izzo nella Introduzione –
sul “paradigma individualistico, diventato dominante nell’economia come nella
politica o nell’etica” (p. 10), che appartiene alla tradizione
liberal-borghese-capitalistica più che a culture alternative che (non di rado
con unilateralismo altrettanto “fuorviante”) hanno sottolineato la dimensione
comunitaria, sociale, collettiva. Ma su quale di queste due prospettive
ideologiche i femminismi storici hanno fondato le loro (legittime)
rivendicazioni? A me pare – per limitarmi all’esempio più eclatante – che
slogan come “l’utero è mio e lo gestisco io” siano espressione di
un’antropologia individualistica, sbilanciata sul versante dell’autonomia e dei
diritti piuttosto che della corresponsabilità e dei doveri. Se così fosse
bisognerebbe riconoscere che il transfemminismo, più che tradire i presupposti
teorici del femminismo storico, ne sta traendo le conseguenze logiche estreme.
Se
capisco bene, anche la Izzo riconosce la necessità di rifondare su presupposti
diversi normative come “la legge 194”, in cui “la libertà di scelta” non viene
più “declinata” “in termini di diritto” ma chiamata “autodeterminazione” (p.
9). Ma – chiederei – cosa legittima questa possibilità di autodeterminarsi da
parte della donna gravida, se ci lasciamo alle spalle l’ottica atomistica,
monadica, del liberalismo illuministico? Sul criterio del male minore. Sino a quando la cultura sessuofobica
dominante ostacolerà la diffusione capillare delle informazioni sulle tecniche
contraccettive, donne di ogni età e condizione sociale continueranno a rimanere
involontariamente incinte: a quel punto la soluzione meno ingiusta è che la
decisione ultima (se non esclusiva) sull’interruzione della gravidanza spetti
non al partner o alla famiglia d’origine, ma a chi dovrà pagare il prezzo più
alto in termini di sofferenza psico-fisica. Che lo Stato assicuri assistenza
sanitaria alla donna che ritiene inevitabile affrontare il trauma dell’aborto
procurato può essere giustificato nell’ottica della riduzione del danno:
qualsiasi altra soluzione (dal ricorso a interventi selvaggi in condizioni
igieniche proibitive al privilegio delle donne più danarose di ricorrere a
cliniche straniere specializzate) risulterebbe eticamente peggiore.
Però
– passo a una seconda considerazione – se, scartata la logica
dell’individualismo proprietario, la legislazione può regolamentare pratiche in
sé immeritevoli di tutela ma realisticamente impossibile da impedire, solo allo
scopo di limitarne al massimo gli inconvenienti, perché escludere che
nell’elenco di queste pratiche rientrino la prostituzione sessuale o la
gravidanza per altri? A mio avviso una donna che, senza nessuna costrizione
fisica, accetti d’essere ingravidata in conseguenza di un rapporto sessuale
completo con un maschio irresponsabile (dunque sto escludendo aborti
terapeutici, eugenetici o di feti conseguenti a stupri) non ha “diritto” di
essere soccorsa dallo Stato a rimediare alla propria imprudenza più che un
motociclista che, privo di casco, voli
dalla sua moto durante una corsa a 170 km orari in autostrada: ma, nell’uno
come nell’altro caso, qualsiasi altra soluzione apparirebbe disumana.
Similmente si può affermare che una donna che decida – anche se per ragioni
economiche oggettive – di prestare servizi sessuali a pagamento o addirittura
il proprio stesso apparato riproduttivo non stia esercitando un “diritto”; e
tuttavia uno Stato, al fine di evitare
danni più pesanti, può intervenire legislativamente per regolamentare delle
prassi che (in assoluto o comunque in relazione alla coscienza etica media di
una certa società) non sarebbero accettabili. Chiunque di noi, se avesse a cuore il destino
di una donna che ritenesse lecito (o illecito ma, nella data situazione
concreta, inevitabile) esercitare la prostituzione o prestare il proprio utero
per la formazione di un bimbo non suo, se non riuscisse a modificare la
decisione della figlia o della sorella o della compagna, preferirebbe che essa
fosse almeno protetta normativamente dai rischi più gravi della sua scelta.
Dioguardi,
giustamente, condanna le posizioni drastiche e “su una maniera così complessa”
ritine che si debba “aprire un dibattito che faciliti la diffusione di corrette
e complete informazioni e il confronto tra opinioni diverse” (p. 44). Poiché
all’interno di questo volume le voci sono tutte convergenti, ci si deve
augurare che – nelle varie sedi in cui sarà presentato e discusso – si possano
ascoltare punti di vista differenti o addirittura opposti.
Augusto
Cavadi
“Adista/
Segni nuovi”, 7, 22.2.2025
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