In uno scritto precedente[1]
ho avuto modo di richiamare le linee essenziali della filosofia della guerra e
della pace secondo Erasmo da Rotterdam. Nell’umanista rinascimentale si trovano
delle straordinarie anticipazioni del pacifismo, se non addirittura della
nonviolenza, dei secoli successivi.
Kant e la guerra
Tra gli autori che su più di un punto
hanno ripreso – forse senza saperlo, certamente senza dichiararlo – il pensiero
di Erasmo rientra Kant, ma con una
differenza di fondo (qualcuno direbbe, alla Kuhn, di “paradigma”): il filosofo prussiano traghetta da una prospettiva
ancora per molti versi medievale (la pace va perseguita soprattutto per fedeltà
al vangelo e grazie alla mediazione di autorità soprattutto cattoliche, in
primis del papa) a una visione
moderna (in cui la pace va attuata per motivi razionali/utilitaristici e grazie
a un’istituzione cosmopolitica interamente “laica”). Ma vediamo più
analiticamente.
La visione antropologica
Come avviene (esplicitamente o
implicitamente) in tutte le teorie politiche, alla base di ciascuna di esse vi
è una certa interpretazione dell’essere umano. Nel caso di Kant, l’uomo non è
del tutto malvagio, ma neppure pura razionalità senza passioni anche
egoistiche: la sua condizione è piuttosto di “socievole insocievolezza”[2],
oscilla fra desiderio di isolamento e necessità di convivenza. Tale condizione
lo espone se non alla guerra continua, al rischio della stessa che è –
erasmianamente – la sintesi di tutte le calamità che l’uomo possa procurare a
sé stesso. E che dunque, almeno come ideale da perseguire, va cancellata dalla
storia.
Verso una “costituzione civile”
Poiché “lo stato di pace tra uomini
assieme conviventi non è affatto uno stato di natura”, “dev’essere istituito”[3].
Come fare?
In un certo senso, e sino a un certo
punto, come siamo riusciti a sradicare – o almeno rendere improbabili – le
guerre civili far cittadini all’interno dello stesso Stato: con un patto
costituzionale che ci ha traghettati dallo status naturalis (“uno stato
di guerra, nel senso che, se anche non vi sono sempre ostilità dichiarate, è
però continua la minaccia che esse abbiano a prodursi” [4])
a “far parte di una qualche costituzione civile”[5].
Tale costituzione dovrebbe basarsi su 3
articoli.
In base al primo, “la costituzione
civile di ogni Stato dev’essere repubblicana”[6]
.
Poiché scrive in Prussia, monarchia
autocratica, ma è un entusiasta ammiratore della Rivoluzione francese ancora in
corso, Kant deve giocare su un filo da equilibrista: da una parte, “ogni vera
repubblica, ora, non è e non può non essere altro che un sistema
rappresentativo del popolo, avente lo scopo di proteggere in nome del popolo
(…) i diritti dei cittadini stessi” [7];
dall’altra, “è provvisoriamente (giacché essa non si realizza in modo tanto
celere) dovere dei monarchi, sebbene comandino autocraticamente, governare
tuttavia repubblicanamente”[8].
I 3 principi su cui si fonda la costituzione repubblicana solo il “principio
della libertà”[9];
il “principio della dipendenza di tutti da un’unica comune legislazione
(come sudditi)”[10];
la “legge dell’uguaglianza di tutti (come cittadini)”[11].
Il secondo articolo dovrebbe
recitare: “Il diritto internazionale deve fondarsi sopra una federazione di
liberi Stati”[12].
Kant esclude esplicitamente la formazione di un unico Stato mondiale, “uno Stato
di popoli”[13],
perché prematuro rispetto alla coscienza media attuale, ma auspica almeno “una federazione
di popoli”[14]:
“Come l’attaccamento dei selvaggi alla
loro libertà senza legge, che li spinge a preferire di azzuffarsi di continuo
tra loro piuttosto che sottoporsi a una coazione legale da loro stessi
stabilita, a preferire una folle libertà a una libertà ragionevole, noi lo
riguardiamo con profondo disprezzo e lo consideriamo barbarie, rozzezza,
degradazione brutale dell’umanità, così si dovrebbe pensare che popoli civili
(di cui ognuno forma uno Stato per sé) dovrebbero affrettarsi ad uscire al più
presto possibile da uno stato così degradante. Al contrario ogni Stato ripone
piuttosto la propria maestà (…) nel non sottoporsi a coazione legale esterna di
sorta, e lo splendore del sovrano si fa consistere nell’avere al suo comando,
senza che egli stesso si esponga al pericolo, molte migliaia di uomini pronti a
sacrificarsi per una causa di cui ad essi non importa nulla”[15].
Il terzo articolo recita: “Il
diritto cosmopolitico dev’essere limitato alle condizioni di una universale
ospitalità”[16].
“Non si tratta di filantropia” – precisa Kant – “ma di diritto, e quindi
ospitalità significa il diritto di uno straniero che arriva sul territorio di
un altro Stato di non essere da questo trattato ostilmente”[17].
Il filosofo non tematizza la questione dal
punto di vista odierno dei flussi migratori, ma l’affronta – autocriticamente –
dal punto di vista del colonialismo europeo che abusa del “diritto di
visita, spettante a tutti gli uomini”[18]:
“Questo diritto di ospitalità, cioè questa
facoltà degli stranieri sul territorio altrui, non si estende oltre le
condizioni richieste per render possibile un tentativo di traffico cogli
antichi abitanti. In questo modo parti del mondo lontane entrano in pacifici
rapporti tra loro, e questi rapporti diventano col tempo formalmente giuridici
e avvicinano sempre più il genere umano a una costituzione cosmopolitica. Se si
paragona con questo la condotta inospitale degli Stati civili,
soprattutto degli Stati commerciali del nostro continente, si rimane inorriditi
a vedere l’ingiustizia che essi commettono nel visitare terre e popoli
stranieri (il che per essi significa conquistarli). L’America, i paesi
abitati dai negri, le Isole delle spezie, il Capo di Buona Speranza ecc.,
all’atto della loro scoperta erano per essi terre di nessuno, non facendo essi
calcolo alcuno degli indigeni. Nell’India orientale (Indostan), col pretesto di
stabilire stazioni commerciali, introdussero truppe straniere e ne venne
l’oppressione degli indigeni, l’incitamento dei diversi Stati del paese a
guerre sempre più estese, carestia, insurrezioni, tradimenti e tutta la lunga
serie di mali che possono affliggere l’umanità”[19].
Kant, che parla sempre da filosofo, non
dimentica di essere personalmente un cristiano e, dunque, non può fare a meno
di notare:
“E questo fanno gli Stati che ostentano
una grande religiosità; e mentre commettono ingiustizie con la stessa facilità
con cui berrebbero un bicchier d’acqua, vogliono passare per esempi rari in
fatto di osservanza del diritto”[20].
Un utopista ingenuo?
Da quando è stata pubblicata la proposta
kantiana è stata accusata di ingenuità. La sua è stata però, a mio avviso, una
“utopia critica” perché tiene in conto difficoltà, riserve e limitazioni di
vario genere.
Innanzi tutto egli distingue (non sempre
con nettezza) la guerra da altri generi di conflitti (come la competizione
industriale e commerciale) e, in sintonia con Adam Smith, sostiene che questi
ultimi (sia tra individui che fra popoli) sono sempre benefici ai fini del
progresso dell’umanità.
Inoltre egli riconosce che persino le
guerre in senso bellico, militare, hanno avuto degli effetti positivi: se non
altro perché hanno evidenziato la necessità di andare oltre la fase storica
millenaria sinora attraversata.
Tuttavia , nel
chiudere il bilancio dei vantaggi e svantaggi della guerra, Kant cita un detto
antico (sulla cui sostanza si era soffermato anche Erasmo da Rotterdam):
"La guerra è un male, perché fa più
malvagi di quanti ne toglie di mezzo"[21].
Commenta Enrico Peyretti:
“Dunque, chi vince nella guerra? Il male. La
pretesa della vittoria armata è di sradicare un male. Ma essa è radice di altro
maggiore male. Oh, se la guerra togliesse di mezzo i malvagi! Ameremmo la
guerra come amiamo il bene! Ma qui è l'immenso inganno: sempre la guerra si
ripresenta illudendo e ipnotizzando i buoni stolti con la promessa di togliere
dal mondo la malvagità togliendo chi la incarna. E sempre il risultato è che
chi fa la guerra diventa malvagio. Se siamo noi a voler togliere di mezzo uno o
più malvagi, alla fine i malvagi saranno molti: noi”[22].
Infine, e direi soprattutto,
Kant non può essere tacciato di ottimismo ingenuo perché afferma e ribadisce
che la confederazione di Stati in grado di assicurare la pace perpetua non sia
dietro l’angolo della storia: è un’utopia, ma va tenuta presente come un ideale
verso cui tendere gradualmente passo dopo passo.
Hegel e la guerra
Se, in somma, eliminare la guerra dalla
storia per Kant è possibile (sia pur nei tempi lunghi) e auspicabile, per
Hegel - suo più giovane contemporaneo –
tale eliminazione non è né possibile né auspicabile.
La guerra è inevitabile
Non è possibile eliminare i
conflitti bellici dalla storia perché il celebre frammento di Eraclito, “Guerra
è la madre di tutte le cose”, esprime, a suo giudizio, non solo un dato di fatto, ma anche un principio
di diritto.
Per capire questa tesi bisogna inserirla
nel sistema complessivo del filosofo tedesco per il quale “il vero è l’intiero”[23],
non il dettaglio particolare. Kant parlava
ancora dal punto di vista di noi esseri umani, Hegel ritiene di essere
il portavoce della Totalità (che chiama anche Dio o Spirito o Assoluto o
Ragione o Idea). Poiché l’Assoluto è intrinsecamente “dialettico” non rientra
nelle modeste possibilità antropologiche cancellare “la serietà, il dolore, la
pazienza e il travaglio del negativo”[24].
La storia del nostro pianeta è la storia
della graduale auto-realizzazione (e conseguente auto-manifestazione) di questo
Spirito assoluto che si affaccia con le prime forme di vita biologica, poi
diventa soggettività psicologica, poi coscienza collettiva: è solo a questo
stadio – quando l’io diventa noi – che si può iniziare a parlare propriamente
di Spirito.
Prima di splendere in tutto il suo fulgore
nell’arte, nelle mitologie religiose e nelle costruzioni filosofiche, lo
Spirito di rende visibile e tangibile nelle istituzioni storiche principali: la
famiglia, la società civile, lo Stato. Lo Stato appare cronologicamente dopo le
famiglie e le società, ma è il fondamento che, per così dire
retroattivamente, dà senso a tali
aggregati ed evita che la guerra di tutti contro tutti tra gli individui
(all’interno della famiglia) e tra le famiglie (all’interno della società)
distrugga l’umanità. Lo Stato è dunque l’istanza suprema (Stato “etico”) che
Hegel non esita a definire “l’ingresso di Dio nel mondo” (la piena incarnazione
del divino).
Tutto scorrerebbe liscio se l’umanità
fosse radunata e animata da un unico Stato. Di fatto però ce ne sono molti e
ognuno rivendica – legittimamente – la prerogativa di essere un principio
assoluto. Lo “Spirito del mondo” si incarna in ogni Stato, ma come stabilire in
ogni epoca quale sia lo Stato prescelto come guida mondiale? Al di sopra degli
Stati (ciascuno dei quali sovrano) non c’è altro “tribunale del mondo” che “la storia del
mondo”, la quale si serve della “guerra” per esprimere le proprie sentenze: chi
vince apprende, e fa apprendere, di avere la Ragione in sé[25].
La guerra è salvifica
L’eliminazione della guerra dalla storia
non solo non è possibile, ma – anche se lo fosse – non sarebbe auspicabile. Infatti l’Assoluto (“Dio in divenire”) è
principio di vita, di progresso, non solo nella natura ma anche, e ancor di
più, nella sua manifestazione storica.
Quindi la descrizione fenomenologica (su come va il mondo) non suscita in Hegel
nessun rifiuto: ciò che è “reale” per lui è “razionale”, cioè logico, vero,
pregno di significato, da accettare stoicamente. La guerra viene considerata da
lui – a differenza di Kant che ne vedeva anche gli aspetti deleteri – un
fenomeno solo positivo: “Come il movimento dei venti preserva il mare dalla
putrefazione, nella quale lo ridurrebbe
una quiete durevole, come vi ridurrebbe i popoli una pace durevole, o, anzi,
perpetua”[26].
Inoltra egli pensa a due effetti, per così
dire collaterali della guerra, all’interno di uno Stato: rafforza l’unità interna fra i cittadini e
scoraggia le rivoluzioni.
Su questo tema mi pare che un principio
fondamentale di ogni visione dialettica (il Bene, alla fine, vince) mostri
tutta l’ ambiguità del suo ottimismo: infatti la convinzione che l’ultima
parola della storia sarà conclusivamente redentrice è difficilmente separabile
dalla convinzione che, sinora, gli eventi (se non altro in quanto gradini verso
l’esito finale) sono andati nel migliore
dei modi possibili.
Secondo alcuni lettori di Hegel, egli – al
di là dei toni apparentemente trionfalistici – è, almeno parzialmente,
consapevole dello scacco che la guerra (e in generale il male nella storia)
infligge al suo sistema filosofico: da
cattedrale del pan-logismo diventa tempio del pan-tragismo; da che doveva
essere una “teodicea”, cioè la giustificazione razionale di Dio “attraverso il
mondo dell’esperienza e della storia”, si trasforma nella “contemplazione della
tragedia senza uscita della storia”[27].
Secondo altri, invece, egli ha accettato questa sfida allargando “la ragione
per renderla capace di comprendere questa vita”, in cui l’irrazionale c’è senza
scampo, ma “porta in sé il germe della propria opposizione e del proprio
superamento”[28].
Uno
spietato giustificazionista?
Questa interpretazione della guerra sembra
una perfetta giustificazione dei vincitori nella storia dell’umanità. La sua
prospettiva è dunque spietata, incurante dei mali materiali e morali provocati
dai conflitti bellici? Ritengo difficile rispondere negativamente. Per almeno
due motivi.
Il primo è che per Hegel importano solo la
storia dello “Spirito del mondo” e la sua marcia trionfale verso la “libertà”,
rispetto alle quali le vicende individuali, particolari, sono accidenti
trascurabili.
Un secondo motivo è che egli contesta la
pretesa degli Illuministi e di Kant di contribuire con la filosofia a dirigere
il corso della storia per migliorarlo: come ha notato un illustre studioso
italiano, inizialmente entusiasta di Hegel, questi ha assegnato alla
storiografia un “compito retrospettivo” che “la fa rassomigliare al lavoro
autobiografico” e non, invece, “per gettare un ponte tra il passato e il
futuro, per preparare le riserve spirituali da bruciare nell’azione che si
prepara”[29].
Nel criticare Hegel, è onesto concedergli delle attenuanti e non
cascare nella trappola degli anacronismi? Senza dubbio. Ad esempio è giusto
ricordare che un suo studente, nei Lineamenti di filosofia del diritto,
ha riportato due annotazioni di Hegel:
“Quindi, le guerre moderne son fatte
umanamente, e la persona non è in atteggiamento di odio, di fronte alla
persona. Tutt’al più, sopravvengono ostilità personali agli avamposti: ma,
nell’esercito come esercito, l’ostilità è qualcosa di indeterminato, la quale
vien meno, di fronte al dovere, che ciascuno rispetta nell’altro”[30].
E inoltre:
“In
essa è conservata la possibilità della pace, e, quindi, per esempio, sono
rispettati gli ambasciatori, e, per cui, più in generale, essa non è fatta
contro le istituzioni interne e la vita pacifica di famiglia privata, né contro
le persone private”[31].
Tuttavia queste osservazioni non sono tali
da ‘assolvere’ Hegel.
Mi pare che egli abbia sottovalutato il
fatto che le guerre, anche nella sua
epoca, comportassero disastri per la popolazione civile inerme, non solo per i
soldati in battaglia.
Inoltre possiamo chiederci: conserverebbe
le stesse idee se avesse conosciuto la radicalizzazione dei conflitti bellici –
divenuti “guerre totali” – nella Prima e nella Seconda Guerra mondiale del
Novecento? Temo di sì. Mi pare che proprio a proposito del sistema hegeliano
Chesterton abbia scritto una volta che esiste un genere di follia consistente
nel perdere tutto, tranne la ragione. Quando la filosofia si esenta dalla
verifica continua dei dati empirici – soprattutto dalla carne e dal sangue dei
viventi senzienti – ma, una volta fissatasi su qualche Idea (sia pur suggerita
dall’esperienza), si limita a deduzioni puramente logiche, rischia di configurarsi
in maniera deleteria.
Al di là di queste considerazioni
critiche, direi che la prospettiva
bellicistica di Hegel presta il fianco all’accusa radicale (gravissima per un
filosofo) di essere logicamente incoerente. Infatti: Hegel, che ha contestato
la méta di una pace perpetua, non l’ha forse – inconsapevolmente – condivisa? Per lui, infatti, non c’è storia senza guerra;
ma – poiché la storia ha un fine che coincide con la fine – ci sarà guerra
senza storia? O la fine della storia coinciderà con l’avvento della (tanto
vituperata) pace perpetua? Come si chiede Bobbio: se “la fine della storia
consiste nel sapere assoluto, cioè nella presa di possesso da parte dell’uomo
della teoreticità totale”[32],
ci sarà ancora spazio per nuove opposizioni e nuovi oltrepassamenti? “L’uomo teoretico totale”[33]
avrà ancora nemici con cui confliggere?
Augusto Cavadi
La versione originale (con apparato iconografico)
qui:
https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/kant-ed-hegel-due-opposte-concezioni-della-guerra/
[1] Cfr. Erasmo da
Rotterdam: un pioniere del pacifismo nel numero 69 di “Dialoghi mediterranei”.
[2] E’ il concetto
che Kant enuncia nella quarta tesi del saggio Idea per una storia universale
dal punto di vista cosmopolitico del 1784.
[3] I. Kant, Per
la pace perpetua in I. Kant, Per la pace perpetua. La pace come
destinazione etica e politica della storia dell’umanità, a cura di M.
Pancaldi, Armando Editore, Roma 2004, p. 45.
[4] Ivi.
[5] Ivi.
[6] Ivi, p. 46.
[7] I. Kant, Metafisica
dei costumi, Laterza, Bari – Roma 1973, § 52, p. 176.
[8] I. Kant, Conflitto
delle facoltà in I. Kant, Scritti di storia, politica, diritto,
Laterza, Bari – Roma 2002, p. 234.
[9] I. Kant, Per
la pace perpetua, cit., p. 47.
[10] Ivi, pp. 47 – 48.
[11] Ivi, p. 49.
[12] Ivi, p. 59.
[13] Ivi, pp. 59 – 60.
[14] Ivi, p. 59.
[15] Ivi, pp. 60 – 61.
Ancora una volta con toni erasmiani, Kant ritorna su questa assurdità della
guerra: “Se per diritto internazionale
si intende il diritto alla guerra (…), esso non significa propriamente nulla.
Si dovrebbe infatti intendere nel senso che uomini che pensano in tal modo
hanno la sorte che si meritano, se si distruggono a vicenda e cercano così la
pace eterna nella vasta fossa che copre coi loro autori tutti gli orrori della
violenza” (ivi, pp. 66 – 67).
[16] Ivi, p. 69.
[17] Ivi.
[18] Ivi.
[19] Ivi, pp. 70 – 71.
[20] Ivi, p. 74.
[21] Ivi, p. 88 (siamo
nel primo dei due Supplementi aggiunti da Kant alla propria
trattazione). Il detto è attribuito al cinico Antistene.
[22] E. Peyretti, Contro la vittoria, riprodotta anche
sul periodico on line “Donna,
vita, libertà ”n. 460 del 4.4.2024.
[23] G. W. F. Hegel, Fenomenologia
dello spirito, a cura di E. De Negri, La Nuova Italia Editrice, Firenze
1985, p. 15 (par. 19).
[24] G. W. F. Hegel, Fenomenologia,
cit., p. 14 (par. 18).
[25] Si può notare che
la fiducia hegeliana nella “razionalità” delle sentenze storiche emanate dalle guerre
è esattamente agli antipodi di quanto sosteneva quel filone della saggezza “classica”
europea a cui Erasmo da Rotterdam aveva prestato voce: “Marte è un dio sciocco
e balordo, non meno cieco di Pluto o di Cupido, sempre o quasi sempre pronto ad
abbracciare la peggiore delle parti in causa” (Erasmo da Rotterdam, Lo
scarabeo dà la caccia all’aquila in Erasmo da Rotterdam, Dolce è la
guerra per chi non ne ha esperienza. Storie politiche tratte dagli Adagi, a
cura di U. Dotti, Feltrinelli, Milano 2017, p. 102).
[26] G.W.F. Hegel, Lineamenti
di Filosofia del diritto, cit. in S. Brocardo, Bellum iustum: riflessioni
hegeliane sulla guerra in www.arenaphilosophika.it
[27] E’ ad esempio la
tesi di I. Iljin, Die Philosophie Hegels als kontemplative Gotteslehre ,
A. Francke, Bern 1945, esposta e
commentata da N. Bobbio, Studi hegeliani in N. Bobbio, Da Hobbes a
Marx. Saggi di storia della filosofia, Morano Editore, Napoli 1971, pp. 178
– 186.
[28] E’ il caso di J.
Hyppolite, soprattutto nel saggio Introduction à la philosophie de
l’histoire de Hegel, Rivière, Paris 1948 che Bobbio discute nello stesso
volume, appena citato, alle pp. 190 – 192.
[29] G. De Ruggiero, Storia
della filosofia, vol. 5: G.G.F. Hegel, Laterza, Bari 1948, p. 256.
[30] Ivi.
[31] Ivi.
[32] N. Bobbio, Studi
hegeliani, cit., p. 211.
[33] Ivi.
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