sabato 25 gennaio 2025

DOPO L'IMPLOSIONE DEL SISTEMA CATTOLICO: UN NUOVO LIBRO DI BRUNO MORI

Che bei tempi, per le Chiese cristiane, sino alla seconda metà del Novecento! Le assemblee domenicali erano affollate dalla maggioranza della popolazione e, sul fronte opposto, atei militanti alimentavano con attacchi a tutto campo la polemica anti-religiosa.

 “S’ode a destra uno squillo di tromba;/

a sinistra risponde uno squillo:/

d’ambo i lati calpesto rimbomba/

da cavalli e da fanti il terren”: alla proclamazione di nuovi, inverosimili, dogmi da parte del papa (come nel 1950 l’Assunzione in cielo di Maria nell’interezza della sua persona, anima e corpo) si contrapponevano le patetiche dichiarazioni degli astronauti russi come Yuri Gagarin (“Sono stato in cielo e non ho incontrato né Dio né angeli”). Di quelle ingenue diatribe, a meno di un secolo di distanza, neppure l’eco. La dottrina teologica ortodossa e le pratiche liturgiche “obbligatorie” sono semplicemente scomparse nell’irrilevanza.

Le cause sono molteplici e i sociologi della religione non hanno finito di indagarle, ma i preti che abusano sessualmente di minori o le suore sfruttate come manodopera alberghiera a basso costo non rientrano nel novero delle più rilevanti. Come spiega il presbitero e teologo Bruno Mori nel recente L’implosione di una religione. Verso la crisi dei dogmi, dei sacramenti e del sacerdozio (Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2024) è tutto l’impianto teologico ed etico del cristianesimo cattolico che non può più essere accettato da uomini e donne del XXI secolo in grado – quando lo desiderano – di leggere, riflettere, confrontarsi con esperti in scienze religiose e in scienze umane. Secondo l’autore (che è stato membro dell’Ordine di Canonici Regolari dell’Immacolata Concezione sino alla morte, avvenuta il 27 ottobre 2023) il movimento spontaneo originario suscitato dalla testimonianza di Gesù di Nazareth è diventato un’Istituzione che ha tradito proprio quei princìpi di libertà, giustizia, fraternità, nonviolenza, solidarietà universale…per i quali il Maestro nomade è stato ucciso.

Il testo, corposo ma scorrevole e fruibile, di don Mori non può non suscitare critiche e desiderio di approfondimenti.

Una prima domanda: il Dio di Gesù è solo Misericordia materna?

La perplessità più radicale che mi ha suggerito, e che in effetti è duplice,  riguarda il messaggio di Gesù su Dio. Una prima questione è storico-esegetica: davvero dal Nuovo Testamento emerge che “il Dio di cui Gesù ci parla è un essere che sembra innamorato di ciascuno di noi”? Un Dio “così familiare, così vicino, così tenero, così benevolo” che, di fronte a Lui, “non possiamo che sentirci gioiosi e fiduciosi, perché il suo pensiero suscita in noi la certezza che da Lui non saremo mai giudicati, né ripudiati né condannati, ma sempre e solo cercati, risollevati, guariti, accolti, valorizzati, giustificati e amati” (p. 44)? Sinceramente ritengo che sarebbe unilateralmente selettiva questa “immagine” di Dio. Dai vangeli (canonici e apocrifi), ma più in generale negli scritti del Secondo Testamento, risulta che Dio è così, ma anche altro. L’elenco dei passi in cui il Padre è anche esigente, minaccioso di castighi, duro sino a sembrare ingiusto sono davvero numerosi. Il biblista Giuseppe Barbaglio ha sostenuto in varie occasioni che la contrapposizione fra un Dio severo (dell’Antico Testamento) e un Dio benevolo (del Nuovo) non è legittimata dai testi: infatti il Dio degli ebrei proprio come  il Dio dei cristiani  è un “Giano bifronte”; entrambi hanno un volto misericordioso ed un volto violento.

Un Dio tenero potrebbe sopportare il dolore dell’universo?

Ma, ammesso e non concesso, che davvero “l’originalità e il cuore del suo (= di Gesù) messaggio risiedono appunto nella stupenda novità della sua parola su Dio presentato sotto l’immagine di un Padre materno che è solo Amore e Misericordia” (p. 43) – e che dunque tutti i tratti differenti da questi che Gesù stesso attribuisce al suo Dio siano irrilevanti o per lo meno secondari - , si profila una seconda questione più filosofico-teologica: come si concilia questa interpretazione (molto toccante, suggestiva) della Divinità con ciò che, negli ultimi due millenni, abbiamo appreso della storia dell’universo e, in particolare, della storia dell’umanità? Come può non impazzire un simile Padre alla vista delle sofferenze costanti, onnipervasive, che da milioni di anni stritolano animali di ogni foggia e dimensione sottoposti all’implacabile legge dell’evoluzione biologica, nonché – da circa 300.000 anni - esseri umani di ogni età, sesso, condizione sociale, insipienti o generosi che siano adulti? Come potrebbe non scoppiare il “cuore” di un Dio alla vista di tragedie immani attribuibili solo in minima parte agli errori e alle colpe degli umani? Sarebbe meraviglioso poter condividere la fede di Gesù in un Dio sapiente e provvidente, affettuoso e  premuroso: ma sarebbe anche intellettualmente onesto? La fede è certo un salto oltre l’esperienza dei sensi e le evidenze della ragione: ma andare oltre può significare anche andare contro? Forse nasce da queste domande il movimento filosofico-teologico del “Post-teismo” (o del “Trans-teismo”) dei nostri giorni: un movimento che, riprendendo intuizioni logiche e mistiche ricorrenti della storia delle religioni (anche delle confessioni cristiane), vuole andare oltre ogni antropomorfismo. Dunque non solo oltre il Dio inquisitore, giudice, carceriere eterno, ma anche oltre il Dio curvo su ogni fragile creatura vivente e senziente che – secondo un commovente detto irlandese – modera il vento come segno di attenzione verso la pecorella tosata da poco. Di un Dio, o forse di una Divinitas – priva dei tratti (benevolmente) antropomorfici propri del vangelo gesuano, ma comuni a mistici di ogni latitudine e di ogni epoca - dobbiamo confessare che ci è penitus ignota (radicalmente inconoscibile), secondo la lapidaria espressione di Tommaso d’Aquino. Se ci basiamo solo sugli effetti a noi accessibili, possiamo osare ipotizzare solo che l’Energia originaria ed essenziale che anima e sostiene l’evoluzione dell’universo ci “ami” nel senso che sospinge alcuni viventi ad un livello ontologico tale che possono fare tanto male ma anche tanto bene: ci “ami” in quanto ci rende possibile diventare “amanti”. E’ molto meno confortante dello splendido annunzio di Gesù, ma mi pare che non contraddica né l’esperienza quotidiana (dappertutto c’è, accanto ad egoismo accentratore, tensione solidale e talora comunionale: fra esseri umani, fra altri animali, perfino fra vegetali) né la coerenza logica. Su questa tematica ho l’impressione che don Bruno Mori si mostri esitante, dando motivi di propendere per posizioni ora più ‘tradizionali’ ora più ‘contemporanee’.

Solo volontà di dominio o non anche sete di concretezza?

Il volume del prete bresciano trapiantato in Canada per motivi missionari solleva altre domande (meno radicali delle precedenti, ma non per questo prive di importanza). Ad esempio egli sostiene che la Chiesa cattolica ha prodotto il suo impianto dottrinario, sacramentale ed etico con lo scopo precipuo, se non esclusivo, di affermare il proprio dominio sulla società. Poiché in un quindicennio della mia vita (tra i 18 e i 33 anni circa) ho vissuto intensamente all’interno di un movimento cattolico ‘ortodosso’, inspirato alle posizioni di Jacques Maritain (con particolare enfasi sulle sue posizioni ne Il contadino della Garonna), so per esperienza personale che la questione è complessa. Se Maritain o Gilson, Danielou o von Balthasar, Paolo VI o Giovanni Paolo II, Benedetto XVI o Francesco (che in più di un decennio di pontificato non ha modificato neppure un mattoncino del sistema ereditato dai predecessori) fossero stati animati da volontà di potenza, sarebbe tutto più facile o meno tragico. Certo, in quel quindicennio, ho conosciuto cardinali e preti, teologi e teologhe, frati e suore di cui si sarebbe potuto affermare che avessero condiviso – e a propria volta rafforzato -  “un Sistema religioso per dotarsi di strumenti e di mezzi estremamente efficaci di potere, di controllo e di sfruttamento” (p. 229). Ma queste persone, avendo coscienza della propria strategia, sono potenzialmente convertibili al vangelo. Esse, a mio sommesso avviso, costituiscono una minoranza nella galassia degli ortodossi, i quali – invece – pensano e agiscono in buona fede. Quando si macerano fra volumi in varie lingue per giustificare i dogmi più inverosimili  o lasciano i genitori per tentare di convertire popolazioni africane lontanissime o accettano l’isolamento nel proprio ambiente di lavoro dove vengono derise per ciò che pensano in campo sessuale…sono  animate da volontà di autodonazione sino al sacrificio dei beni più preziosi (l’autonomia economica, la libertà di amare e di essere amati anche carnalmente, l’indipendenza di giudizio nella conduzione della propria vita). I privilegi del potere agiscono se mai come motivazioni inconsce che diventano consce in quei soggetti che – quando capiscono di essere dentro un’Istituzione che ha tradito il vangelo – preferiscono far finta di nulla perché a trenta o cinquanta o settant’anni sarebbe faticoso rifarsi una vita fuori dalla Santa Madre Chiesa. Cosa ha spinto, dunque, un Agostino o un Tommaso d’Aquino a tradurre in termini di cose, di res, di sostanze e di accidenti, il mondo dei simboli, delle metafore, delle allegorie (per cui ogni messa diventerebbe rinnovamento del miracolo della ‘transustanziazione’ o ogni ordinazione presbiteriale implicherebbe una trasformazione indelebile e irreversibile dell’essere stesso del seminarista)? L’autore stesso – non so quanto in coerenza con alcune altre pagine in cui elenca in sequenza le “quattro fasi” attraversate dalla Chiesa per “diventare un organismo di potere”: “la creazione di una struttura gerarchica; la creazione di un’ideologia; la creazione di un corpus giuridico e liturgico (…); la creazione di un sofisticato regime di sorveglianza e di controllo basato sulla paura e sul mantenimento di una nevrosi universale di colpa” (p. 70) – afferma con chiarezza che “sarebbe ingiusto e storicamente falso attribuire alle autorità ecclesiastiche l’intenzione esplicita di avere voluto inventare il dogma della divinità di Cristo per giustificare teologicamente il loro sistema di potere” (p.58) e, qua e là nel libro, evoca una categoria che a me pare più convincente:  la “sindrome ontologica”.                 Almeno in parte richiama una “sete di concretezza” di cui parla, in qualche passaggio delle sue opere, il cardinal Martini. Se, in Giovanni,  Gesù promette di offrire la propria “carne”, i discepoli fraintendono il registro metaforico e si chiedono come farà a darla loro in pasto: gli uomini vogliamo certezze, contatti fisici. Il cattolicesimo si è  costruito come enorme Macchina per rassicurare, confortare. Il fedele che si affida ad essa viene liberato dall’angoscia del dubbio: ci possono essere pastori che strumentalizzano questa fame di materialità, di afferrabilità, a scopi di dominio, ma sospetto che la maggior parte di essi sono i primi ad esserne affetti e da volerla soddisfare.

Da questi rapidi cenni si ricava che il libro è un utile, perché organico, compendio critico dell’impianto cristiano-cattolico. Offre anche indicazioni, in positivo, sul da farsi? Forse solo l’ultimo breve capitolo (I cristiani di domani) può interpretarsi come pars costruens. Troppo poco. Purtroppo il decesso dell’autore, pochi mesi dopo la pubblicazione di quest’opera, ha precluso la possibilità di ascoltare ciò di cui abbiamo bisogno adesso: un piano di ricostruzione dopo il terremoto che ha abbattuto edifici ammirevoli, ma ormai vetusti. Si apre dunque un campo di lavoro immenso e non poco affascinante.

Augusto Cavadi

“Viottoli”

Semestrale di formazione comunitaria

Pinerolo 2/2024

Nessun commento: