Che bei tempi, per le Chiese cristiane, sino alla seconda metà del Novecento! Le assemblee domenicali erano affollate dalla maggioranza della popolazione e, sul fronte opposto, atei militanti alimentavano con attacchi a tutto campo la polemica anti-religiosa.
“S’ode a destra uno squillo di tromba;/
a sinistra risponde uno squillo:/
Le cause
sono molteplici e i sociologi della religione non hanno finito di indagarle, ma
i preti che abusano sessualmente di minori o le suore sfruttate come manodopera
alberghiera a basso costo non rientrano nel novero delle più rilevanti. Come
spiega il presbitero e teologo Bruno Mori nel recente L’implosione di una
religione. Verso la crisi dei dogmi, dei sacramenti e del sacerdozio
(Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2024) è tutto l’impianto teologico ed
etico del cristianesimo cattolico che non può più essere accettato da uomini e
donne del XXI secolo in grado – quando lo desiderano – di leggere, riflettere,
confrontarsi con esperti in scienze religiose e in scienze umane. Secondo
l’autore (che è stato membro dell’Ordine di Canonici Regolari dell’Immacolata
Concezione sino alla morte, avvenuta il 27 ottobre 2023) il movimento spontaneo
originario suscitato dalla testimonianza di Gesù di Nazareth è diventato
un’Istituzione che ha tradito proprio quei princìpi di libertà, giustizia,
fraternità, nonviolenza, solidarietà universale…per i quali il Maestro nomade è
stato ucciso.
Il testo,
corposo ma scorrevole e fruibile, di don Mori non può non suscitare critiche e
desiderio di approfondimenti.
Una prima
domanda: il Dio di Gesù è solo Misericordia materna?
La
perplessità più radicale che mi ha suggerito, e che in effetti è duplice, riguarda il messaggio di Gesù su Dio. Una
prima questione è storico-esegetica: davvero dal Nuovo Testamento emerge che
“il Dio di cui Gesù ci parla è un essere che sembra innamorato di ciascuno di
noi”? Un Dio “così familiare, così vicino, così tenero, così benevolo” che, di
fronte a Lui, “non possiamo che sentirci gioiosi e fiduciosi, perché il suo
pensiero suscita in noi la certezza che da Lui non saremo mai giudicati, né
ripudiati né condannati, ma sempre e solo cercati, risollevati, guariti,
accolti, valorizzati, giustificati e amati” (p. 44)? Sinceramente ritengo che
sarebbe unilateralmente selettiva questa “immagine” di Dio. Dai vangeli
(canonici e apocrifi), ma più in generale negli scritti del Secondo Testamento,
risulta che Dio è così, ma anche altro. L’elenco dei passi in cui il Padre è
anche esigente, minaccioso di castighi, duro sino a sembrare ingiusto sono
davvero numerosi. Il biblista Giuseppe Barbaglio ha sostenuto in varie
occasioni che la contrapposizione fra un Dio severo (dell’Antico Testamento) e
un Dio benevolo (del Nuovo) non è legittimata dai testi: infatti il Dio degli
ebrei proprio come il Dio dei
cristiani è un “Giano bifronte”;
entrambi hanno un volto misericordioso ed un volto violento.
Un Dio
tenero potrebbe sopportare il dolore dell’universo?
Ma, ammesso
e non concesso, che davvero “l’originalità e il cuore del suo (= di Gesù)
messaggio risiedono appunto nella stupenda novità della sua parola su Dio
presentato sotto l’immagine di un Padre materno che è solo Amore e
Misericordia” (p. 43) – e che dunque tutti i tratti differenti da questi che
Gesù stesso attribuisce al suo Dio siano irrilevanti o per lo meno secondari -
, si profila una seconda questione più filosofico-teologica: come si concilia
questa interpretazione (molto toccante, suggestiva) della Divinità con ciò che,
negli ultimi due millenni, abbiamo appreso della storia dell’universo e, in
particolare, della storia dell’umanità? Come può non impazzire un simile Padre
alla vista delle sofferenze costanti, onnipervasive, che da milioni di anni stritolano
animali di ogni foggia e dimensione sottoposti all’implacabile legge
dell’evoluzione biologica, nonché – da circa 300.000 anni - esseri umani di
ogni età, sesso, condizione sociale, insipienti o generosi che siano adulti?
Come potrebbe non scoppiare il “cuore” di un Dio alla vista di tragedie immani
attribuibili solo in minima parte agli errori e alle colpe degli umani? Sarebbe
meraviglioso poter condividere la fede di Gesù in un Dio sapiente e
provvidente, affettuoso e premuroso: ma
sarebbe anche intellettualmente onesto? La fede è certo un salto oltre l’esperienza
dei sensi e le evidenze della ragione: ma andare oltre può significare
anche andare contro? Forse nasce da queste domande il movimento
filosofico-teologico del “Post-teismo” (o del “Trans-teismo”) dei nostri
giorni: un movimento che, riprendendo intuizioni logiche e mistiche ricorrenti
della storia delle religioni (anche delle confessioni cristiane), vuole andare
oltre ogni antropomorfismo. Dunque non solo oltre il Dio inquisitore, giudice,
carceriere eterno, ma anche oltre il Dio curvo su ogni fragile creatura vivente
e senziente che – secondo un commovente detto irlandese – modera il vento come
segno di attenzione verso la pecorella tosata da poco. Di un Dio, o forse di
una Divinitas – priva dei tratti (benevolmente) antropomorfici propri
del vangelo gesuano, ma comuni a mistici di ogni latitudine e di ogni epoca - dobbiamo
confessare che ci è penitus ignota (radicalmente inconoscibile), secondo
la lapidaria espressione di Tommaso d’Aquino. Se ci basiamo solo sugli effetti
a noi accessibili, possiamo osare ipotizzare solo che l’Energia originaria ed
essenziale che anima e sostiene l’evoluzione dell’universo ci “ami” nel senso
che sospinge alcuni viventi ad un livello ontologico tale che possono fare
tanto male ma anche tanto bene: ci “ami” in quanto ci rende possibile diventare
“amanti”. E’ molto meno confortante dello splendido annunzio di Gesù, ma mi
pare che non contraddica né l’esperienza quotidiana (dappertutto c’è, accanto
ad egoismo accentratore, tensione solidale e talora comunionale: fra esseri
umani, fra altri animali, perfino fra vegetali) né la coerenza logica. Su
questa tematica ho l’impressione che don Bruno Mori si mostri esitante, dando
motivi di propendere per posizioni ora più ‘tradizionali’ ora più
‘contemporanee’.
Solo
volontà di dominio o non anche sete di concretezza?
Il volume
del prete bresciano trapiantato in Canada per motivi missionari solleva altre
domande (meno radicali delle precedenti, ma non per questo prive di
importanza). Ad esempio egli sostiene che la Chiesa cattolica ha prodotto il
suo impianto dottrinario, sacramentale ed etico con lo scopo precipuo, se non
esclusivo, di affermare il proprio dominio sulla società. Poiché in un
quindicennio della mia vita (tra i 18 e i 33 anni circa) ho vissuto
intensamente all’interno di un movimento cattolico ‘ortodosso’, inspirato alle
posizioni di Jacques Maritain (con particolare enfasi sulle sue posizioni ne Il
contadino della Garonna), so per esperienza personale che la questione è
complessa. Se Maritain o Gilson, Danielou o von Balthasar, Paolo VI o Giovanni
Paolo II, Benedetto XVI o Francesco (che in più di un decennio di pontificato
non ha modificato neppure un mattoncino del sistema ereditato dai predecessori)
fossero stati animati da volontà di potenza, sarebbe tutto più facile o meno
tragico. Certo, in quel quindicennio, ho conosciuto cardinali e preti, teologi
e teologhe, frati e suore di cui si sarebbe potuto affermare che avessero
condiviso – e a propria volta rafforzato -
“un Sistema religioso per dotarsi di strumenti e di mezzi estremamente
efficaci di potere, di controllo e di sfruttamento” (p. 229). Ma queste
persone, avendo coscienza della propria strategia, sono potenzialmente
convertibili al vangelo. Esse, a mio sommesso avviso, costituiscono una
minoranza nella galassia degli ortodossi, i quali – invece – pensano e agiscono
in buona fede. Quando si macerano fra volumi in varie lingue per giustificare i
dogmi più inverosimili o lasciano i
genitori per tentare di convertire popolazioni africane lontanissime o accettano
l’isolamento nel proprio ambiente di lavoro dove vengono derise per ciò che
pensano in campo sessuale…sono animate
da volontà di autodonazione sino al sacrificio dei beni più preziosi
(l’autonomia economica, la libertà di amare e di essere amati anche
carnalmente, l’indipendenza di giudizio nella conduzione della propria vita). I
privilegi del potere agiscono se mai come motivazioni inconsce che diventano
consce in quei soggetti che – quando capiscono di essere dentro un’Istituzione
che ha tradito il vangelo – preferiscono far finta di nulla perché a trenta o
cinquanta o settant’anni sarebbe faticoso rifarsi una vita fuori dalla Santa
Madre Chiesa. Cosa ha spinto, dunque, un Agostino o un Tommaso d’Aquino a
tradurre in termini di cose, di res, di sostanze e di accidenti,
il mondo dei simboli, delle metafore, delle allegorie (per cui ogni messa
diventerebbe rinnovamento del miracolo della ‘transustanziazione’ o ogni
ordinazione presbiteriale implicherebbe una trasformazione indelebile e
irreversibile dell’essere stesso del seminarista)? L’autore stesso – non so
quanto in coerenza con alcune altre pagine in cui elenca in sequenza le
“quattro fasi” attraversate dalla Chiesa per “diventare un organismo di
potere”: “la creazione di una struttura gerarchica; la creazione di
un’ideologia; la creazione di un corpus giuridico e liturgico (…); la creazione
di un sofisticato regime di sorveglianza e di controllo basato sulla paura e
sul mantenimento di una nevrosi universale di colpa” (p. 70) – afferma con
chiarezza che “sarebbe ingiusto e storicamente falso attribuire alle autorità
ecclesiastiche l’intenzione esplicita di avere voluto inventare il dogma della
divinità di Cristo per giustificare teologicamente il loro sistema di potere”
(p.58) e, qua e là nel libro, evoca una categoria che a me pare più
convincente: la “sindrome ontologica”. Almeno in parte richiama una
“sete di concretezza” di cui parla, in qualche passaggio delle sue opere, il
cardinal Martini. Se, in Giovanni, Gesù
promette di offrire la propria “carne”, i discepoli fraintendono il registro
metaforico e si chiedono come farà a darla loro in pasto: gli uomini vogliamo
certezze, contatti fisici. Il cattolicesimo si è costruito come enorme Macchina per
rassicurare, confortare. Il fedele che si affida ad essa viene liberato
dall’angoscia del dubbio: ci possono essere pastori che strumentalizzano questa
fame di materialità, di afferrabilità, a scopi di dominio, ma sospetto che la
maggior parte di essi sono i primi ad esserne affetti e da volerla soddisfare.
Da questi
rapidi cenni si ricava che il libro è un utile, perché organico, compendio
critico dell’impianto cristiano-cattolico. Offre anche indicazioni, in
positivo, sul da farsi? Forse solo l’ultimo breve capitolo (I cristiani di
domani) può interpretarsi come pars costruens. Troppo poco.
Purtroppo il decesso dell’autore, pochi mesi dopo la pubblicazione di quest’opera,
ha precluso la possibilità di ascoltare ciò di cui abbiamo bisogno adesso: un
piano di ricostruzione dopo il terremoto che ha abbattuto edifici ammirevoli,
ma ormai vetusti. Si apre dunque un campo di lavoro immenso e non poco
affascinante.
Augusto
Cavadi
“Viottoli”
Semestrale di
formazione comunitaria
Pinerolo
2/2024
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