L’esortazione a “vivere bene” (il buen vivir dei
latino- americani) ci raggiunge da molte fonti. Ma come possiamo interpretarla?
Certamente si vive bene quando la nostra dimensione corporea
non è incrinata da malanni gravi e persistenti. La salute fisica è, in misura
considerevole, un dato genetico ereditario e, per quanto riguarda le
menomazioni conseguenti a incidenti, un privilegio della sorte. Tuttavia, in
misura meno rilevante ma non per questo irrilevante, dipende da molte scelte
personali di cui siamo in esclusiva responsabili: il luogo in cui fissiamo la
nostra dimora abituale, il cibo di cui ci alimentiamo, le sostanze che assumiamo
per esempio fumando, la cura che riserviamo alla prevenzione delle malattie
(con modesti esercizi fisici e regolari controlli medici). In una parola, si
potrebbe dire: vivere in armonia con la natura dentro e intorno a noi.
Ma, per quanto si possa essere attenti alla propria sfera
individuale, la nostra relazione con l’universo è condizionata da scelte
collettive che trascendono le nostre possibilità: l’inquinamento dell’aria,
dei mari e delle acque potabili; i mutamenti climatici; le epidemie; lo spreco
delle risorse agricole, anche per finanziare allevamenti intensivi di animali
che vengono macellati dopo una vita di torture (per poi cucinarne la carne in
quantità eccessive e smaltirla tra i rifiuti)…sono tutti fattori di degrado
della qualità media della vita provocati da vaste aree della società con la
complicità – almeno passiva – dei governi.
I quali spesso aggiungono, ai malesseri dovuti a squilibri nel rapporto
con il mondo fisico, i disastri dovuti a conflitti interpersonali e
interstatali.
Si può vivere bene in una piccola cabina dotata di molti
conforti se il transatlantico sta lentamente, ma inesorabilmente, naufragando?
Molti di noi ci provano tappandosi occhi e orecchie, per non percepire i segnali di
sofferenza della natura, degli altri esseri senzienti e di gran parte
dell’umanità, nella previsione che il decesso individuale precederà il
naufragio complessivo. Ma questa auto-limitazione non è senza costi: bisogna
innaffiare pazientemente le nostre tendenze egoistiche, potare continuamente le
nostre attitudini all’empatia e alla compassione, inventarci complicate
scusanti ideologiche. Nessuno di noi nasce arido e insensibile come un legno
secco: deve faticare per castrare le pulsioni alla solidarietà che – secondo le
scienze umane – non sono meno reali ed esigenti delle pulsioni all’aggressività
e al dominio.
Un’alternativa a ciò che Italo Calvino chiamava la
rassegnazione all’inferno in cui viviamo sulla Terra e l’adeguamento
progressivo ad esso (sino a non avvertirlo più come inferno, sino a
considerarlo l’unico habitat concepibile e desiderabile) è cercare, in noi e
nella cerchia delle persone che frequentiamo, qualche ragione per resistere. E’
individuare, nella fase dell’inabissamento del transatlantico, qualche zattera
a cui aggrapparsi; in cui radunarsi con i compagni di viaggio che non hanno
rinunziato a sperare; da cui ripartire quando tutto sarà visibilmente perduto.
Possiamo dare molti nomi a questa scialuppa di salvataggio (etica elementare,
umanesimo basico, spiritualità laica…), ma l’essenziale è intuibile: si tratta
di far fiorire il nucleo intimo, la radice generativa, della nostra persona.
Che significa coltivare la nostra persona? Assumere
seriamente l’invito greco: “Divieni ciò che sei!”. Diventa, in atto, ciò
che sei in potenza. Realizza le tue possibilità più gratificanti per te e per
chi ti circonda, direttamente o mediatamente.
Soddisfa i tuoi cinque e più sensi, la tua vista, il tuo odorato, il
tuo gusto, il tuo udito, il tuo tatto: ma con rispetto, e anche con
sobrietà. Misura l’impronta ecologica
che lascerai dopo il tuo breve soggiorno terreno.
Non aver paura di sentire a trecentosessanta gradi, dunque
neppure dei tuoi sentimenti: non rinunziare a sperimentare le emozioni di cui sei capace
(siano essi la gioia, l’allegria, la letizia, ma anche il dolore, la tristezza,
la mestizia). L’insensibilità è inversamente proporzionale alla vitalità.
Sei anche intelligenza, animale desideroso di intus-legere : di
leggere dentro le cose, dentro gli avvenimenti. Di penetrare oltre il velo,
oltre le apparenze: per capire, sia pur parzialmente, sia pur senza mai
riuscire a comprendere (= conoscere totalmente e sino in fondo). E di
contemplare quei frammenti di verità, quei bagliori di bellezza, che riesci a
rintracciare nella trama per molti versi ingarbugliata della natura e della
storia.
Sei volontà, appetito di ciò che vale (che è ‘bene’ per te): dunque
desiderio di possedere e consumare, ma anche di comunicare e di fruire. Sei
erotico perché eros è bisogno di ciò che ci manca, ma anche agapico perché
agape è gratuità che dona ciò che manca all’altro. Poiché la forma più alta
d’amore è l’amore per la polis, la patria/matria, è mediante le svariate azioni
‘politiche’ che alimenti la tua
fioritura. “Sii tu per primo il cambiamento che vorresti nel mondo!” suggeriva
Gandhi. Ma egli stesso non si è limitato alla testimonianza personale, per
quanto necessaria e preziosa: ha cercato di contagiare, di coinvolgere, quanta
più gente possibile. Ha elaborato progetti, ideato strategie, cercato alleanze:
è stato un soggetto politicamente instancabile.
Soddisfare, sia pur con temperanza, le proprie esigenze
fisiologiche; esplicitare la sensibilità, esercitare l’intelligenza, praticare
la volontà-di-bene: forse sono queste alcune linee portanti del “ben-vivere” ,
di una vita sensata perennemente in bilico sull’abisso del non-senso. Se è con
l’etica che ci liberiamo dai condizionamenti individuali, è con le varie forme
della politica che possiamo contribuire a liberarci dai condizionamenti
collettivi.
Augusto Cavadi
https://www.zerozeronews.it/vivere-bene-si-con-volonta-cultura-e-intelligenza/
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