Quando ho avuto fra le mani il volume di José Arregi, L’infinito prima di Dio. In transizione: liberare il mistero divino dalle immagini umane (Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2024) mi è affiorata alla memoria la risposta che un musicista di fama internazionale (purtroppo non ne ricordo più il nome) diede all’intervistatore che gli chiedeva se credesse in Dio: “No, non in Dio. Ma in qualcosa di più grande”. In quella risposta di anni fa, come in questo libro appena pubblicato, si staglia ineludibile una questione: se una persona afferma l’esistenza di Dio, una seconda la nega e una terza si dichiara in dubbio, intendono tutte e tre la stessa ‘cosa’ con la parola “Dio”? E’ molto probabile che non solo l’ebreo ortodosso avrà una sua idea di “Dio” differente dall’induista devoto, ma così avverrà tra due cattolici o tra due luterani: forse ognuno di noi è ateo rispetto al Dio degli altri sette miliardi di abitanti del pianeta.
Se
“tutte le credenze, le immagini e le forme riferite a Dio non sono altro che
(…) una costruzione collettiva e culturale” (p. 63), la prima operazione da
compiere è una sorta di ascetica intellettuale: distaccarsi dalla propria idea
di Dio, accettare che sia una delle molteplici possibili, senza pretendere
nessuna esclusività. Questo movimento – che l’autore come altri chiama
“post-teismo” o preferibilmente “trans-teismo” – invita tanto il teista quanto
l’ateo a spostarsi su un piano differente: che è l’al-di-là, o meglio
l’al-di-qua, di ciò che abitualmente pensiamo quando pronunziamo il nome di
Dio. Invita a lasciarsi alle spalle, soprattutto, l’immagine divina del
monoteismo biblico, irrimediabilmente segnata dall’antropomorfismo: un
Super-man, o un Super-Ente, che segue in diretta i comportamenti di miliardi di
umani, prende nota di meriti e demeriti di ognuno/a in vista del giudizio
finale, interviene miracolosamente ogni tanto per dare qualche segnale della
sua onnipresenza solitamente invisibile. (Nel tratteggiare questo identikit
divino Arregi cede alquanto al gusto della caricatura, ma non si allontana
molto dalla rappresentazione mediamente più diffusa tra sedicenti credenti e
sedicenti atei).
Questo
trascendimento delle teologie umane, troppo umane, è ciò che hanno operato nei
millenni i mistici inseriti nella varie tradizioni religiose: Arregi ricorda, a
titolo esemplificativo, il Brahman-Atman degli induisti (pp. 110 – 115),
l’En Sof della Cabala ebraica (pp. 116 – 122), la Deità di
Maestro Eckhart (pp. 127 – 133), ma anche i teologi della “morte di Dio”
(Hamilton, Altizer) e/o della “secolarizzazione” (Cox, Robinson) del Novecento
(pp. 133 – 134) , in particolare
Dietrich Bonhoeffer con la sua ferma convinzione che “Dio stesso” ci
chiede di “vivere nel mondo etsi deus non daretur” (pp. 134 – 135).
In
questa prospettiva apofatica, di silenzio estatico, si può ancora distinguere
chi ha fede (o crede di credere) e chi non ha fede (o crede di non credere)? Se
avere fede o credere significa accettare per fiducia in un testimone (Mosé,
Gesù, Paolo, Maometto…) delle informazioni sopra-razionali sull’identità del
Divino e sui suoi progetti, allora aderire al trans-teismo significa
abbandonare la fede dell’ortodossia tradizionale cattolica (e più in generale
cristiana). Non così, invece, se per fede
s’intende la “fiducia profonda
che sostiene la vita o l’essere nel suo costante movimento, nelle sue gioie e
nelle sue delusioni, nelle sue luci e nei suoi smarrimenti”; come “dono del
nostro essere profondo al referente ultimo, al Mistero a cui tutte le nostre
parole si riferiscono, al di là delle parole” (p. 63).
Poiché
i vocaboli hanno una storia, che non si può tralasciare o modificare a
piacimento, mi pare istruttiva la
tendenza a sostituire i termini “fede” e “credere” con “spiritualità”: almeno se questa parola viene interpretata a-confessionalmente,
come una postura che “non richiede la negazione di dio e delle sue immagini, o
di credo e preghiere, ma neppure ha a che fare con il credere o il pensare che
esista un Ente supremo e offrirgli un culto”. E’ piuttosto la convinzione
esperienziale che un “Soffio” “percorre e muove l’universo in direzione della
sua realizzazione autentica, dell’autenticamente reale, della bontà felice
universale che è in tutto come presente eterno in divenire”; “consiste
nell’attingere a questo Soffio e offrirlo, inspirarlo ed espirarlo” (p. 69).
L’adozione
del termine “spiritualità” in questa accezione può suscitare legittime
perplessità: potrebbe suggerire che in essa non siano comprese quelle persone
che, pur vivendo con sincerità la
ricerca del vero e con passione la pratica del giusto, non sono tuttavia
convinte che l’universo sia animato da qualche Soffio e in cammino verso
qualche meta. Ma probabilmente non è questo il pensiero autentico di Arregi dal
momento che in altre pagine del medesimo volume cita – condividendone la tesi
centrale - il libro di A. Comte-Sponville su Lo spirito dell’ateismo nel quale il filosofo francese
limita la sua “esperienza mistica” a “un sentimento di unione indissolubile con
il grande Tutto, o di appartenenza all’universale” (pp. 158- 159), senza nessun
presentimento di evoluzionismo più o meno teleologico.
Ciò che apprezzo senza riserve è invece la preoccupazione dell’autore di non schiacciare il trans-teismo su alcune posizioni, antiche e contemporanee, ‘spiritualistiche’ che legittimano, o addirittura impongono, la fuga dall’impegno storico-sociale e il rifugio in zone interiori confortevoli. A suo parere, infatti, la “spiritualità” - di cui si sono fatti promotori vari movimenti di riforma nel passato e di cui c’è urgentissimo bisogno nel presente – dev’essere certamente “mistica oltre le credenze e le divinità”, ma anche “etica di fronte al culto e alla dottrina”, “critica rispetto al dogma e al tempio”, “profetico-politica libera dinanzi a ogni immagine e a ogni alleanza fra trono e altare” (pp. 103 – 104).
Augusto
Cavadi
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