lunedì 6 gennaio 2025

VERSO UN INFINITO AL DI LA’ DELLE MOLTE RAPPRESENTAZIONI DI “DIO”

Quando ho avuto fra le mani il volume di José Arregi, L’infinito prima di Dio. In transizione: liberare il mistero divino dalle immagini umane (Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2024) mi è affiorata alla memoria la risposta che un musicista di fama internazionale (purtroppo non ne ricordo più il nome) diede all’intervistatore che gli chiedeva se credesse in Dio: “No, non in Dio. Ma in qualcosa di più grande”. In quella risposta di anni fa, come in questo libro appena pubblicato, si staglia ineludibile una questione: se una persona afferma l’esistenza di Dio, una seconda la nega e una terza si dichiara in dubbio, intendono tutte e tre la stessa ‘cosa’ con la parola “Dio”? E’ molto probabile che non solo l’ebreo ortodosso avrà una sua idea di “Dio” differente dall’induista devoto, ma così avverrà tra due cattolici o tra due luterani: forse ognuno di noi è ateo rispetto al Dio degli altri sette miliardi di abitanti del pianeta.

Se “tutte le credenze, le immagini e le forme riferite a Dio non sono altro che (…) una costruzione collettiva e culturale” (p. 63), la prima operazione da compiere è una sorta di ascetica intellettuale: distaccarsi dalla propria idea di Dio, accettare che sia una delle molteplici possibili, senza pretendere nessuna esclusività. Questo movimento – che l’autore come altri chiama “post-teismo” o preferibilmente “trans-teismo” – invita tanto il teista quanto l’ateo a spostarsi su un piano differente: che è l’al-di-là, o meglio l’al-di-qua, di ciò che abitualmente pensiamo quando pronunziamo il nome di Dio. Invita a lasciarsi alle spalle, soprattutto, l’immagine divina del monoteismo biblico, irrimediabilmente segnata dall’antropomorfismo: un Super-man, o un Super-Ente, che segue in diretta i comportamenti di miliardi di umani, prende nota di meriti e demeriti di ognuno/a in vista del giudizio finale, interviene miracolosamente ogni tanto per dare qualche segnale della sua onnipresenza solitamente invisibile. (Nel tratteggiare questo identikit divino Arregi cede alquanto al gusto della caricatura, ma non si allontana molto dalla rappresentazione mediamente più diffusa tra sedicenti credenti e sedicenti atei).

Questo trascendimento delle teologie umane, troppo umane, è ciò che hanno operato nei millenni i mistici inseriti nella varie tradizioni religiose: Arregi ricorda, a titolo esemplificativo, il Brahman-Atman degli induisti (pp. 110 – 115), l’En Sof della Cabala ebraica (pp. 116 – 122), la Deità di Maestro Eckhart (pp. 127 – 133), ma anche i teologi della “morte di Dio” (Hamilton, Altizer) e/o della “secolarizzazione” (Cox, Robinson) del Novecento (pp. 133 – 134) , in particolare  Dietrich Bonhoeffer con la sua ferma convinzione che “Dio stesso” ci chiede di “vivere nel mondo etsi deus non daretur” (pp. 134 – 135).

In questa prospettiva apofatica, di silenzio estatico, si può ancora distinguere chi ha fede (o crede di credere) e chi non ha fede (o crede di non credere)? Se avere fede o credere significa accettare per fiducia in un testimone (Mosé, Gesù, Paolo, Maometto…) delle informazioni sopra-razionali sull’identità del Divino e sui suoi progetti, allora aderire al trans-teismo significa abbandonare la fede dell’ortodossia tradizionale cattolica (e più in generale cristiana). Non così, invece, se per fede  s’intende  la “fiducia profonda che sostiene la vita o l’essere nel suo costante movimento, nelle sue gioie e nelle sue delusioni, nelle sue luci e nei suoi smarrimenti”; come “dono del nostro essere profondo al referente ultimo, al Mistero a cui tutte le nostre parole si riferiscono, al di là delle parole” (p. 63).

Poiché i vocaboli hanno una storia, che non si può tralasciare o modificare a piacimento,  mi pare istruttiva la tendenza a sostituire i termini “fede” e “credere” con “spiritualità”:  almeno se questa parola viene interpretata a-confessionalmente, come una postura che “non richiede la negazione di dio e delle sue immagini, o di credo e preghiere, ma neppure ha a che fare con il credere o il pensare che esista un Ente supremo e offrirgli un culto”. E’ piuttosto la convinzione esperienziale che un “Soffio” “percorre e muove l’universo in direzione della sua realizzazione autentica, dell’autenticamente reale, della bontà felice universale che è in tutto come presente eterno in divenire”; “consiste nell’attingere a questo Soffio e offrirlo, inspirarlo ed espirarlo” (p. 69).

L’adozione del termine “spiritualità” in questa accezione può suscitare legittime perplessità: potrebbe suggerire che in essa non siano comprese quelle persone che, pur  vivendo con sincerità la ricerca del vero e con passione la pratica del giusto, non sono tuttavia convinte che l’universo sia animato da qualche Soffio e in cammino verso qualche meta. Ma probabilmente non è questo il pensiero autentico di Arregi dal momento che in altre pagine del medesimo volume cita – condividendone la tesi centrale -  il libro di A. Comte-Sponville su Lo spirito dell’ateismo nel quale il filosofo francese limita la sua “esperienza mistica” a “un sentimento di unione indissolubile con il grande Tutto, o di appartenenza all’universale” (pp. 158- 159), senza nessun presentimento di evoluzionismo più o meno teleologico.

Ciò che apprezzo senza riserve è invece la preoccupazione dell’autore di non schiacciare  il trans-teismo su alcune posizioni, antiche e contemporanee, ‘spiritualistiche’ che legittimano, o addirittura impongono, la fuga dall’impegno storico-sociale e il rifugio in zone interiori confortevoli. A suo parere, infatti, la “spiritualità”  - di cui si sono fatti promotori vari movimenti di riforma nel passato e di cui c’è urgentissimo bisogno nel presente – dev’essere certamente “mistica oltre le credenze e le divinità”, ma anche “etica di fronte al culto e  alla dottrina”, “critica rispetto al dogma e al tempio”, “profetico-politica libera dinanzi a ogni immagine e a ogni alleanza fra trono e altare” (pp. 103 – 104).  

Augusto Cavadi

* Per la versione originaria illustrata, basta un click:

https://www.zerozeronews.it/lenigma-esistenziale-dellinfinita-di-dio/

venerdì 3 gennaio 2025

ELOGIO, CON QUALCHE CAUTELA, DELLA CREATIVITA’

 

Parole come “creatività” occupano, semanticamente, il filo sottile fra due vuoti: la banale genericità dell’ovvio, da una parte; l’elitaria eccezionalità, dall’altra. Infatti ci ripetiamo ora che creativi lo saremmo tutti ora che lo sarebbero alcuni geni canonizzati.  Questa polarizzazione non mi convince. Per evitare di dire, con il medesimo vocabolo, troppo o troppo poco può riuscire istruttiva la chiave ermeneutica (di origine aristotelico-medievale) dell’analogia : creativi lo siamo tutti i viventi, ma ognuno a modo suo, in parte simile e in parte (ancora maggiore) dissimile da ogni altro vivente.  Le formiche della villa comunale manifestano, indubbiamente, creatività nel costruire il formicaio; ma una creatività che somiglia soltanto, senza uguagliarla, alla creatività degli architetti della Firenze rinascimentale. In entrambi i casi dei soggetti trasformano una materia donando emergenza a qualcosa di novum, di inedito; ma il grado di questa novità non è il medesimo. Il ruolo della soggettività autrice, infatti, può andare da livelli minimi – per cui si riproduce nei secoli un prodotto pressoché uguale – a livelli massimi di originalità, sino alla vera e propria unicità irripetibile, inimitabile.

Se adottiamo questa griglia interpretativa non è difficile riconoscere nella categoria “creatività” una costellazione di qualificazioni positive, al punto che spesso usiamo l’aggettivo “creativo” in un’accezione immediatamente laudativa. La vita dei singoli e le vicende dei popoli scorrono di solito con monotona ripetitività, per cui risulta spontaneo salutare con compiacimento ogni gesto che introduca qualcosa di “nuovo sotto il sole”: il combinato disposto di tradizionalismo e di conformismo costituisce una cappa di grigiore omologante insopportabilmente soffocante.

Contro la divinizzazione della creatività

Come tutti i valori, anche la creatività è esposta al rischio dell’acritica enfatizzazione retorica. Peggio: se assolutizzata, può capovolgersi in disvalore. D‘altronde, se è uno dei modi in cui si manifesta l’intelligenza, non c’è da stupirsi che ne condivida l’ambivalenza: di per sé è un bene, ma ne possiamo fare un uso spregevole (specie quando la disconnettiamo dall’insieme delle nostre potenzialità umane: come notava Chesterton, c’è una forma di pazzia che consiste nel perdere tutto tranne la ragione).

Le serie televisive ‘gialle’ statunitensi abbondano di esempi spiazzanti di creatività criminale: suppongo che non tutti siamo d’accordo nel considerare  un’abilità ammirevole inventare metodi inediti di tortura di vittime innocenti. In campi un po’ meno perniciosi, come il marketing, assistiamo nelle tecniche pubblicitarie a manifestazioni di creatività originale di cui faremmo volentieri a meno per rispetto della nostra salute fisica (quando mirano a farci ingurgitare alimenti poco dietetici) o dell’immagine pubblica della donna (quando viene rappresentata come merce apri-pista di altre merci).  

Tra intellettuali e artisti finalizzare la creatività all’originalità può diventare un’ossessione oscillante fra il patetico e il ridicolo. Già nel Settecento Rousseau stigmatizzava la tendenza di numerosi suoi colleghi a voler apparire a tutti i costi diversi dagli altri. Tutti noi abbiamo nella cerchia dei nostri conoscenti qualcuno che interviene nelle discussioni prima di tutto, o addirittura esclusivamente, per contestare un’affermazione, prenderne le distanze, proporre un’alternativa: come se riconoscere la particella di vero nelle opinioni altrui fosse indice di scarso acume critico!  E ai primi anni di università uno dei miei docenti di filosofia, Armando Plebe, diceva – e scriveva – che il filosofo dev’essere come il clown che irrompe in un contesto spiazzando gli astanti con trovate inaspettate. Un suo collega, Nunzio Incardona, non teorizzava questa strategia stupefacente, ma la praticava: le sue lezioni, come i suoi testi, erano zeppe di neologismi fantasiosi collegati da una sintassi ardita.

Bertold Wald ha riferito, a proposito di un pensatore importante nella mia formazione, Joseph Pieper (“per l’alta tiratura dei suoi scritti e l’ampio numero delle traduzioni, egli è il filosofo tedesco più letto del ventesimo secolo”), che nella cerchia dei discepoli di Martin Heidegger (dove “bizzarria speculativa e stravaganza terminologica venivano e vengono ancor oggi considerate come segno distintivo dell’argomentare filosofico”) si diceva: “Joseph Pieper? Tutti lo capiscono – questa non è filosofia”.

Spero sia chiaro che non sto tentando alcuna apologia della banalità. Sto solo denunziando alcuni metodi truffaldini per camuffarla, come appunto la creatività apparente. E’ pacifico che per dire cose nuove si debbano (e dunque si possano) creare parole nuove; ma è disonesto intellettualmente inventarsi parole nuove solo per non far notare di dire cose vecchie. Tra l’altro è un trucco superfluo perché anche le cose antiche possono essere dette creativamente se usiamo le parole antiche con autenticità, avendole incarnate e ri-create. Già: è importante sottolineare il nesso autenticità-creatività-originalità. Proverei a formularlo in questo modo:  quando si crea con autenticità (cioè con fedeltà alla propria ispirazione) si risulta comunque originali. Aggiungerei che l’originalità (che può – non: deve – risultare esotica, extra-ordinaria) è in ogni caso un effetto collaterale, non un obiettivo da perseguire in se stesso.

Dopo aver citato Luc de Clapiers de Vauvenargues – “Un libro davvero nuovo e davvero originale sarebbe quello che facesse amare vecchie verità” – Pierre Hadot così chiosa: “Ci sono verità di cui le generazioni umane non giungeranno mai a esaurire il senso; non che siano difficili a capirsi, al contrario sono estremamente semplici, spesso hanno persino l’apparenza della banalità; ma precisamente, per comprenderne il senso occorre viverle, occorre rifarne incessantemente l’esperienza: ogni epoca deve riprendere questo compito, imparare a leggere e a rileggere queste <vecchie verità>” (per questa citazione, e le precedenti di questo paragrafo, rimando al mio La filosofia come terapia dell’anima. Linee essenziali per una spiritualità filosofica, Diogene Multimedia, Bologna 2019, pp. 131 – 135). Non so se ci attende un Aldilà in cui ciascuno conserverà la memoria della propria storia, ma so che – se così fosse – ci sarebbe da divertirsi lungamente nello scoprire che la creatività narcisistica ed esibizionistica di un Vittorio Sgarbi è solo la parodia della creatività di quelle migliaia di insegnanti di arte che, ogni giorno come se fosse per la prima volta, hanno parlato di bellezza artistica ai loro alunni con amore sincero e competente. E solo per questo sono stati in grado di contagiare la propria quieta passione.

 

L’humus  (nascosto) della creatività

Talora la nozione di creatività si oppone a nozioni che ne denominano invece dei presupposti irrinunciabili.

Un caso tipico è l’opposizione creatività/tradizione. Non c’è creatività senza innovazione e dunque senza tradimento di ciò che si è ricevuto in eredità. Ma è proprio il patrimonio (materiale e simbolico) tramandato che può suscitare dialetticamente l’inventiva. Chi è privo di memoria rischia di scambiare per creazione inedita ciò che è già stato visto, criticato, superato: di sbandierare come proprio merito “la scoperta dell’acqua calda”.

Abbastanza simile l’opposizione creatività/tecnica. Dal Rinascimento italiano del Cinquecento in poi abbiamo imparato a distinguere il diligente artigiano, che padroneggia tecniche faticosamente apprese, dal fantasioso artista che fa saltare il tavolo e impone nuove regole di gioco. Ma quando si ascoltano questi rivoluzionari si apprende – come si esprimeva ad esempio Picasso – che ci vuole una vita per imparare a dipingere con la spontaneità creatrice di un bambino. Solo chi ha avuto la pazienza di seguire le prescrizioni canoniche può trasgredirle efficacemente: nessun aereo decolla senza aver accettato di strisciare terra-terra su una pista per tutto il tempo necessario.

Creatività ad intra

Sinora abbiamo riflettuto sulla creatività ad extra, come attività transitiva. Essa presuppone, per certi versi, e contribuisce a realizzare, per altri, la creatività ad intra: l’auto-creatività. E’ vero infatti che l’azione è effetto e manifestazione di ciò che si è (agere sequitur esse); ma direi essere altrettanto vero che si è ciò che le nostre azioni – specie se ripetute – ci rendono (esse sequitur agere). Siamo originariamente e radicalmente “dati” – donati – a noi stessi, ma non in un assetto definito al punto da essere esonerati dal plasmarci, dal ri-formarci, dal co-crearci.

Neanche questa accezione soggettiva, personale, di creatività va mitizzata. Da una parte dobbiamo essere fieri di ciò che siamo diventati: non dobbiamo vergognarci delle nostre caratteristiche peculiari, della nostra originalità, e immergerci nella massa per mimetizzarci. Si ricorda come molto saggia la richiesta dell’attrice Anna Magnani a un suo truccatore: Lasciami tutte le rughe, non me ne togliere nemmeno una. C’ho messo una vita a farmele!”. Tuttavia questo sano orgoglio di essere ciò che si è – e se è il caso di pagare in termini di emarginazione la propria inventività pionieristica, catacronistica - non deve necessariamente includere tutti i propri difetti, specie se dai risvolti oggettivamente – e socialmente – sgradevoli. Da qualche parte mi è capitato di leggere: “Sei unico, sii te stesso! Ma se capisci che sei uno stupido, non insistere”. Uno stolto che, creativamente, si eserciti ad esserlo ogni giorno di meno non perde di originalità: si limita a modificarne i tratti. Da ex-insipienti si può essere unici come, e più, che da insipienti.

 

Augusto Cavadi

 

“Le nuove frontiere della scuola”, n. 65, Dicembre 2024, pp. 9 – 12.