sabato 8 febbraio 2025

LE CANZONI TRADIZIONALI E IL VERO VOLTO DI UN POPOLO

 

“Il Gattopardo”/ Edizione Sicilia

Dicembre 2024

Viaggiu dulurusu

In  Un sogno di fiori e bagliori. Giorni in Sicilia, lo scrittore polacco J. Iwaszkiewicz – innamorato dell’isola al punto da ritornarvi più volte sino alla morte nel 1980 – scrive che le canzoni popolari “sono il vero volto della vita di questo popolo”.  Se questo è vero, non si può sottovalutare il merito di chi – senza erigere muraglie identitarie – preserva la memoria di antichi canti, come la novena natalizia  Viaggiu dulurusu di Maria Santissima e lu Patriarca San Giuseppi in Betlemi di Binidittu Annuleru di Monreale. Da anni don Cosimo Scordato ha ripubblicato il testo, lo ha commentato insieme ad altri teologi, lo ha musicato in collaborazione con il maestro Vincenzo Mancuso, ha collaborato con Pasquale Scimeca per farne un film. I destinatari prioritari sono i siciliani, ma non c’è dubbio che operazioni del genere possono offrire anche ai turisti l’occasione per intravedere “il vero volto” della popolazione che li accoglie. 

Augusto Cavadi

mercoledì 5 febbraio 2025

IL VIDEO DELLA PRESENTAZIONE DEI TRE VOLUMI DI "TEOLOGIA POPOLARE" DI J. M. CASTILLO

Finalmente anche in lingua italiana i 3 agili volumetti in cui Castillo presenta per un pubblico 'popolare' (anche giovani che si preparano ai sacramenti dell'iniziazione cristiana) la sua "teologia popolare".

Cliccando qui sotto è possibile rivedere la registrazione-video della presentazione dei tre volumetti, editi da Il pozzo di Giacobbe (Trapani), da parte di Dario Culot e Augusto Cavadi (introduce e interviene Stefano Olcese, presidente dell'associazione "Liberare l'uomo" di Treviso che ha organizzato l'evento):

https://www.youtube.com/watch?v=WdCmdNk3gac 

sabato 1 febbraio 2025

SULLA PROPOSTA DEL MINISTRO VALDITARA RIGUARDANTE LO STUDIO DELLA BIBBIA NELLE SCUOLE

BIBBIA A SCUOLA ? DIPENDE DA COME STUDIARLA

Di certo non c’è ancora nulla, ma sono bastate delle anticipazioni per cenni su alcune proposte del ministro dell’istruzione del merito Valditara per scatenare dibattiti e polemiche. Ad esempio sulla proposta di inserire lo studio della Bibbia nei programmi curriculari obbligatori, dunque anche fuori dalle ore facoltative di “religione cattolica” dove è già previsto (anche se quasi mai attuato). La Destra (in Parlamento e nella società) plaude, la Sinistra (politica e sociale) protesta, il Centro (cattolico e non) nicchia. Ma chi si esprime in questi giorni sa di cosa parla?

Il presupposto (condiviso dalla quasi totalità degli interventi) è che studiare la Bibbia accrescerebbe il numero dei credenti praticanti delle varie Chiese cristiane (a cominciare dalla cattolica). Ma se fosse così, come si spiegherebbe che per quattro secoli (dal Concilio di Trento del Cinquecento al Concilio Vaticano II del Novecento) la Chiesa cattolica ha vietato lo studio della Bibbia, al punto da inserirla nell’elenco del “libri proibiti” accanto al marchese De Sade e a Marx ?

La risposta è semplice e se chi mette becco in queste tematiche avesse letto una sola volta la Bibbia la conoscerebbe: la Bibbia è una biblioteca scandalosa. Almeno da due punti di vista.

Come in ogni biblioteca ci sono libri di genere e di valore diversi.

Alcuni sono o noiosi (elencano precetti e divieti su come lavarsi, vestirsi, cibarsi, pregare…che vengono ritenuti ormai impraticabili) o francamente diseducativi (presentano come atti meritori fecondare la schiava al posto della moglie sterile, sacrificare mediante sgozzamento il figlio unico,  sterminare sino al più piccolo neonato le popolazioni vinte in guerra…). Quanti studenti si avvicinerebbero alle Chiese cristiane perché attratti dalla concezione di Dio, dell’essere umano, della storia veicolata da queste pagine terribili?

Ma nella Bibbia ci sono anche libri bellissimi, soprattutto nel Secondo Testamento, in cui la religione viene presentata non come militanza obbediente in un’organizzazione burocratica verticistica, bensì come avventura comunitaria condivisa da  fratelli e sorelle che s’impegnano pariteticamente per una società più creativa, solidale, compassionevole. Ebbene, anche questi testi sarebbero motivo di scandalo per tanti  studenti che constaterebbero la distanza inaccettabile fra  il messaggio dei profeti (e di Gesù in particolare) e il catechismo insegnato nelle parrocchie.

Insomma, in considerazione di ciò che la Bibbia afferma di molto sbagliato e di molto affascinante, quanti sedicenti cattolici resterebbero tali se veramente la leggessero con l’attrezzatura scientifica (storico-letteraria) con cui si legge l’Iliade o la Divina Commedia? Non è certo un caso che tra i grandi esponenti degli studi biblici moderni (da Spinoza a Bultmann, passando per i Modernisti francesi, inglesi e italiani della prima metà del XX secolo) i condannati per eresia siano stati più numerosi dei riconosciuti come benemeriti.

La vera questione è dunque con quale prospettiva e con quali metodologie insegnare la Bibbia nelle scuole. Se la si vuole usare come una clava per colpire alunni provenienti da famiglie o ‘laicamente’ agnostiche o di altre religioni (a cominciare dagli islamici) per incrementare le fila dei bravi praticanti cristiani, si sperimenterà un tragicomico effetto boomerang. Se invece si vorrà studiare la Bibbia con l’attrezzatura esegetica oggi disponibile – e fare altrettanto almeno con il Corano – si renderà un servizio prezioso per la formazione spirituale delle nuove generazioni (a prescindere dalle opzioni di fede confessionale di ciascun giovane) e per la convivenza democratica di etnie e comunità di matrici teologico-culturali differenti. Ovviamente questo insegnamento dovrebbe essere affidato a docenti qualificati dipendenti dallo Stato, non da questa o quell’altra organizzazione ecclesiale. Solo così la scuola repubblicana contribuirebbe a sradicare le radici insidiose del fondamentalismo, del tradizionalismo, del conformismo.

 

Augusto Cavadi

Centro di ricerca esperienziale di teologia laica

(Palermo)


“Adista/ Segni nuovi”, 5, 8 . 2. 2025 

giovedì 30 gennaio 2025

INTELLETTUALI RADICAL CHIC: LA FESTA E' FINITA !


LE LISTE DI PROSCRIZIONE DEGLI INTELLETTUALI CHIC

Come è noto la fantascienza non è solo anticipazione del futuro, ma anche disvelamento di trame celate nel presente. Ad esempio Il censimento dei radical chic di Giacomo Papi (che la Feltrinelli ha pubblicato in prima edizione nel 2019, ma che ho avuto fra le mani solo in questi giorni) è un agevole romanzo di fantastoria in cui, col pretesto letterario di narrare vicende di tempi a venire, si mette a nudo un aspetto rilevante della condizione sociale attuale: la divaricazione fra un numero sempre più esiguo di “intellettuali” e una massa sempre più imponente di persone orgogliose della propria ignoranza.

Se il registro comunicativo prescelto fosse morale, o addirittura moralistico, il libro resterebbe utile, ma si sommerebbe a una lunga serie di pamphlet che negli ultimi anni denunciano il fenomeno. Invece l’autore - adottato un codice umoristico, a tratti ironico – integra le critiche agli incolti con almeno due elementi originali: le frecciatine agli “intellettuali” stessi (che così non risultano del tutto esenti da ogni colpa) e le accuse a quei politici che incentivano la tendenza popolare per strumentalizzarla intenzionalmente.

Della maggioranza allergica alla lettura, alla riflessione, alla dialettica fra idee si smaschera una dimensione abitualmente nascosta: la violenza. Chi non ha armi intellettuali ricorre, spontaneamente, all’offesa verbale (specie anonima, ad esempio sui social: “Miserabili intellettuali, mi fate schifo! @ Lindackty”, p. 11) ) e, se non basta, alle armi fisiche (“Il primo lo ammazzarono a bastonate perché aveva citato Spinoza durante un talk show”, p. 9). C’è un legame, sotterraneo ma forte, tra ripudio diffuso dell’istruzione, della memoria storica, della curiosità antropologica verso altri popoli e accettazione della “guerra” come possibilità lecita, anzi inevitabile, per gestire i conflitti. Per rendere più accessibile il linguaggio si vanno elidendo le parole più difficili, ma “a forza di semplificare la guerra è diventata l’unica soluzione” (p. 139).

Quanto agli intellettuali, Papi rileva che appaiono “radical chic” agli occhi degli ignoranti, ma ammette che tale rappresentazione caricaturale abbia in essi – nel loro stile di vita, nel loro linguaggio, nel loro disimpegno –  dei fondamenti oggettivi.  Tra di loro ci sono studiosi seri e riservati, ma incapaci di coalizzarsi e di organizzare una qualche forma di resistenza alla marea montante delle persecuzioni; senza contare le signore chiacchierone (come le cugine Clelia e Anna) o i giovani (come Cosma) che, inseguendo il sogno di una rivoluzione sempre più improbabile, finiscono con l’esercitare una violenza uguale e contraria rispetto agli avversari.

E’ comunque ai politici di professione che l’autore riserva gli strali più acuminati: alcuni sono davvero ignoranti, ma altri fingono di esserlo per poter accrescere i consensi elettorali. Come il “Primo ministro dell’Interno”, sono convinti che “il popolo non si deve elevare al livello delle élite, sono le élite che devono abbassarsi al livello del popolo”(p. 87). Se non proprio ad abbassarsi davvero, a fare finta:  “bisogna che gli intelligenti imparino a dire le cose in modo che gli stupidi credano di averle pensate da soli” (ivi).

Cosa c’entra, in questo contesto, “il censimento dei radicali chic” che dà il titolo al romanzo? E’ una delle tante liste di proscrizione che periodicamente si riproducono nella storia dell’umanità. Solo che, nell’epoca post-moderna (o iper-moderna), le dittature evitano il cattivo gusto di presentarsi come tali: preferiscono apparire come apparati di soccorso e di protezione agli occhi delle stesse vittime designate. Da qui l’idea geniale del governo di invitare chiunque si interpreti come “intellettuale” a iscriversi spontaneamente a un elenco di nominativi di cittadini da far sorvegliare giorno e notte: ufficialmente per difenderli dagli ignoranti scalmanati, in realtà per tenerli strettamente sotto controllo.  Con questa strategia si evita di creare nuovi martiri e, dunque, il rischio di una indignata sollevazione popolare. Certo, qualcuno potrebbe subodorare l’imbroglio istituzionale ma, ormai, non c’è ingiustizia (specie se sistemica) abbastanza eclatante da suscitare rivolte.

Augusto Cavadi

* Per la versione illustrata cliccare qui:

https://www.zerozeronews.it/le-liste-di-proscrizione-di-intellettuali-e-radical-chic/


martedì 28 gennaio 2025

IL CUORE COME CENTRO VITALE, NON COME ORGANO ISOLABILE

 Il volume della cardiologa Silvia Di Luzio, Il cuore è una porta. Dalla scienza, un’ipotesi di evoluzione (Amrita, Torino 2019), non può non evocare la celebre, fulminante,  asserzione di Blaise Pascal: “Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”. Ella infatti sostiene che il nostro cervello non è l’unico organo dotato di neuroni e che proprio il muscolo cardiaco ne contiene di moltissimi e attivissimi. Quando dunque asseriamo, in certe circostanze, di aver seguito la voce del nostro cuore, non ci stiamo esprimendo in un senso solo poetico, metaforico, ma letterale, anatomico. Potremmo dire lo stesso per il “terzo cervello” di cui siamo dotati: la pancia. 

   Dunque affrontiamo la vita – le sue relazioni, le sue sfide, i suoi imprevisti – con l’interezza del nostro essere: non averne consapevolezza, e limitarci ad approcci settoriali, ci condanna a una sorta di mutilazione. Chesterton ha una volta osservato, a proposito di Hegel, che esiste un genere particolare di follia consistente nel perdere tutto tranne la ragione. Quando ci mettiamo in gioco con la testa, lo facciamo anche sempre con il cuore e con la pancia.

   Se le cose stanno così – e la Di Luzio, che ha studiato anche negli Stati Uniti d’America la questione, lo argomenta con varie considerazioni empiricamente confermate – possiamo esaminare criticamente delle espressioni diffuse nei discorsi quotidiani.

   E’ vero – per prendere in prestito il titolo del più fortunato romanzo di Susanna Tamaro – che in alcuni bivi della vita dobbiamo andare “dove ci porta il cuore” (Baldini & Castoldi, Milano 1994)?

    Se per “cuore” intendiamo il potenziale emotivo, il sentimento, o addirittura la nostra sfera inconscia e pre-conscia, confesso – contro molte ortodossie oggi maggioritarie di impronta new age– che il cuore non ha ragioni e deve lasciarsi orientare dalla ragione. Dissento fermamente dalla contrapposizione – tutta giocata a favore del ‘cuore’ – fra cuore e ‘mente’. No: con buona pace della Tamaro non  voglio andare dove mi porta il cuore perché non voglio andare a sbattere il muso contro i muri della illusione e della delusione. Se inteso in questo significato – qualcosa come la “parte” passionale dell’anima che Platone paragonava a uno scalpitante  cavallo bianco che un bravo auriga deve saper controllare saldamente con le redini in mano – a mio parere vale per il cuore ciò che Gibran ha sostenuto per il complesso di passioni di cui siamo capaci: “La vostra ragione e la vostra passione sono/ il timone e le vele della vostra anima navigante./ Se si spezzano le vele, o si spezza il timone,/ o andrete, sbandati, alla deriva,/ oppure resterete a ristagnare in mezzo al mare./ Infatti la ragione, quando domina da sola,/ è una forza imprigionante;/ e la passione, quando non è custodita, è una fiamma che brucia a propria distruzione./ (…) Vorrei consideraste il vostro giudizio ed il vostro impulso/ sempre come fareste con due ospiti amati in casa vostra./ Sicuramente non onorereste un ospite più che l’altro:/ poiché chi ha più attenzione verso uno solo/ perde l’affetto e la fiducia di entrambi” (G. Kahlil Gibran, Il profeta, Guanda, Milano 1983, traduzione da me leggermente modificata). 

   Ma c’è una seconda accezione del termine “cuore” che rende perfettamente accettabile l’invito a seguirlo, non limitandosi alla ragione né conferendo ad essa il primato. In questa accezione di origine biblica, ma anche omerica, “<<cuore>> non va inteso tanto nel senso psicologico del sentimento quanto nel senso del centro profondo nel quale l'uomo si determina alla conoscenza e alla decisione>> (Cosimo Scordato). In questa prospettiva   “il cuore è l’organo che meglio rappresenta la vita umana nella sua totalità” (Enzo Bianchi) e, ne Il piccolo principe, Antoine de Saint-Exupéry può  scrivere: «Non si vede bene che col cuore». Andiamo pure, dunque, dove ci porta il cuore, ma solo se non lo intendiamo – riduttivamente -  come una parte dell’essere umano distinto, e tendenzialmente opposto, alla ragione; bensì, piuttosto, come il nucleo generativo   dell’essenza umana di cui la ragione è una parte, un’articolazione, una manifestazione.

Augusto Cavadi

* Per vedere l'edizione originale corredata iconograficamente:

https://www.zerozeronews.it/cuore-o-ragione-dibattito-infinito-fra-medici-filosofi-e-scrittori/


sabato 25 gennaio 2025

DOPO L'IMPLOSIONE DEL SISTEMA CATTOLICO: UN NUOVO LIBRO DI BRUNO MORI

Che bei tempi, per le Chiese cristiane, sino alla seconda metà del Novecento! Le assemblee domenicali erano affollate dalla maggioranza della popolazione e, sul fronte opposto, atei militanti alimentavano con attacchi a tutto campo la polemica anti-religiosa.

 “S’ode a destra uno squillo di tromba;/

a sinistra risponde uno squillo:/

d’ambo i lati calpesto rimbomba/

da cavalli e da fanti il terren”: alla proclamazione di nuovi, inverosimili, dogmi da parte del papa (come nel 1950 l’Assunzione in cielo di Maria nell’interezza della sua persona, anima e corpo) si contrapponevano le patetiche dichiarazioni degli astronauti russi come Yuri Gagarin (“Sono stato in cielo e non ho incontrato né Dio né angeli”). Di quelle ingenue diatribe, a meno di un secolo di distanza, neppure l’eco. La dottrina teologica ortodossa e le pratiche liturgiche “obbligatorie” sono semplicemente scomparse nell’irrilevanza.

Le cause sono molteplici e i sociologi della religione non hanno finito di indagarle, ma i preti che abusano sessualmente di minori o le suore sfruttate come manodopera alberghiera a basso costo non rientrano nel novero delle più rilevanti. Come spiega il presbitero e teologo Bruno Mori nel recente L’implosione di una religione. Verso la crisi dei dogmi, dei sacramenti e del sacerdozio (Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2024) è tutto l’impianto teologico ed etico del cristianesimo cattolico che non può più essere accettato da uomini e donne del XXI secolo in grado – quando lo desiderano – di leggere, riflettere, confrontarsi con esperti in scienze religiose e in scienze umane. Secondo l’autore (che è stato membro dell’Ordine di Canonici Regolari dell’Immacolata Concezione sino alla morte, avvenuta il 27 ottobre 2023) il movimento spontaneo originario suscitato dalla testimonianza di Gesù di Nazareth è diventato un’Istituzione che ha tradito proprio quei princìpi di libertà, giustizia, fraternità, nonviolenza, solidarietà universale…per i quali il Maestro nomade è stato ucciso.

Il testo, corposo ma scorrevole e fruibile, di don Mori non può non suscitare critiche e desiderio di approfondimenti.

Una prima domanda: il Dio di Gesù è solo Misericordia materna?

La perplessità più radicale che mi ha suggerito, e che in effetti è duplice,  riguarda il messaggio di Gesù su Dio. Una prima questione è storico-esegetica: davvero dal Nuovo Testamento emerge che “il Dio di cui Gesù ci parla è un essere che sembra innamorato di ciascuno di noi”? Un Dio “così familiare, così vicino, così tenero, così benevolo” che, di fronte a Lui, “non possiamo che sentirci gioiosi e fiduciosi, perché il suo pensiero suscita in noi la certezza che da Lui non saremo mai giudicati, né ripudiati né condannati, ma sempre e solo cercati, risollevati, guariti, accolti, valorizzati, giustificati e amati” (p. 44)? Sinceramente ritengo che sarebbe unilateralmente selettiva questa “immagine” di Dio. Dai vangeli (canonici e apocrifi), ma più in generale negli scritti del Secondo Testamento, risulta che Dio è così, ma anche altro. L’elenco dei passi in cui il Padre è anche esigente, minaccioso di castighi, duro sino a sembrare ingiusto sono davvero numerosi. Il biblista Giuseppe Barbaglio ha sostenuto in varie occasioni che la contrapposizione fra un Dio severo (dell’Antico Testamento) e un Dio benevolo (del Nuovo) non è legittimata dai testi: infatti il Dio degli ebrei proprio come  il Dio dei cristiani  è un “Giano bifronte”; entrambi hanno un volto misericordioso ed un volto violento.

Un Dio tenero potrebbe sopportare il dolore dell’universo?

Ma, ammesso e non concesso, che davvero “l’originalità e il cuore del suo (= di Gesù) messaggio risiedono appunto nella stupenda novità della sua parola su Dio presentato sotto l’immagine di un Padre materno che è solo Amore e Misericordia” (p. 43) – e che dunque tutti i tratti differenti da questi che Gesù stesso attribuisce al suo Dio siano irrilevanti o per lo meno secondari - , si profila una seconda questione più filosofico-teologica: come si concilia questa interpretazione (molto toccante, suggestiva) della Divinità con ciò che, negli ultimi due millenni, abbiamo appreso della storia dell’universo e, in particolare, della storia dell’umanità? Come può non impazzire un simile Padre alla vista delle sofferenze costanti, onnipervasive, che da milioni di anni stritolano animali di ogni foggia e dimensione sottoposti all’implacabile legge dell’evoluzione biologica, nonché – da circa 300.000 anni - esseri umani di ogni età, sesso, condizione sociale, insipienti o generosi che siano adulti? Come potrebbe non scoppiare il “cuore” di un Dio alla vista di tragedie immani attribuibili solo in minima parte agli errori e alle colpe degli umani? Sarebbe meraviglioso poter condividere la fede di Gesù in un Dio sapiente e provvidente, affettuoso e  premuroso: ma sarebbe anche intellettualmente onesto? La fede è certo un salto oltre l’esperienza dei sensi e le evidenze della ragione: ma andare oltre può significare anche andare contro? Forse nasce da queste domande il movimento filosofico-teologico del “Post-teismo” (o del “Trans-teismo”) dei nostri giorni: un movimento che, riprendendo intuizioni logiche e mistiche ricorrenti della storia delle religioni (anche delle confessioni cristiane), vuole andare oltre ogni antropomorfismo. Dunque non solo oltre il Dio inquisitore, giudice, carceriere eterno, ma anche oltre il Dio curvo su ogni fragile creatura vivente e senziente che – secondo un commovente detto irlandese – modera il vento come segno di attenzione verso la pecorella tosata da poco. Di un Dio, o forse di una Divinitas – priva dei tratti (benevolmente) antropomorfici propri del vangelo gesuano, ma comuni a mistici di ogni latitudine e di ogni epoca - dobbiamo confessare che ci è penitus ignota (radicalmente inconoscibile), secondo la lapidaria espressione di Tommaso d’Aquino. Se ci basiamo solo sugli effetti a noi accessibili, possiamo osare ipotizzare solo che l’Energia originaria ed essenziale che anima e sostiene l’evoluzione dell’universo ci “ami” nel senso che sospinge alcuni viventi ad un livello ontologico tale che possono fare tanto male ma anche tanto bene: ci “ami” in quanto ci rende possibile diventare “amanti”. E’ molto meno confortante dello splendido annunzio di Gesù, ma mi pare che non contraddica né l’esperienza quotidiana (dappertutto c’è, accanto ad egoismo accentratore, tensione solidale e talora comunionale: fra esseri umani, fra altri animali, perfino fra vegetali) né la coerenza logica. Su questa tematica ho l’impressione che don Bruno Mori si mostri esitante, dando motivi di propendere per posizioni ora più ‘tradizionali’ ora più ‘contemporanee’.

Solo volontà di dominio o non anche sete di concretezza?

Il volume del prete bresciano trapiantato in Canada per motivi missionari solleva altre domande (meno radicali delle precedenti, ma non per questo prive di importanza). Ad esempio egli sostiene che la Chiesa cattolica ha prodotto il suo impianto dottrinario, sacramentale ed etico con lo scopo precipuo, se non esclusivo, di affermare il proprio dominio sulla società. Poiché in un quindicennio della mia vita (tra i 18 e i 33 anni circa) ho vissuto intensamente all’interno di un movimento cattolico ‘ortodosso’, inspirato alle posizioni di Jacques Maritain (con particolare enfasi sulle sue posizioni ne Il contadino della Garonna), so per esperienza personale che la questione è complessa. Se Maritain o Gilson, Danielou o von Balthasar, Paolo VI o Giovanni Paolo II, Benedetto XVI o Francesco (che in più di un decennio di pontificato non ha modificato neppure un mattoncino del sistema ereditato dai predecessori) fossero stati animati da volontà di potenza, sarebbe tutto più facile o meno tragico. Certo, in quel quindicennio, ho conosciuto cardinali e preti, teologi e teologhe, frati e suore di cui si sarebbe potuto affermare che avessero condiviso – e a propria volta rafforzato -  “un Sistema religioso per dotarsi di strumenti e di mezzi estremamente efficaci di potere, di controllo e di sfruttamento” (p. 229). Ma queste persone, avendo coscienza della propria strategia, sono potenzialmente convertibili al vangelo. Esse, a mio sommesso avviso, costituiscono una minoranza nella galassia degli ortodossi, i quali – invece – pensano e agiscono in buona fede. Quando si macerano fra volumi in varie lingue per giustificare i dogmi più inverosimili  o lasciano i genitori per tentare di convertire popolazioni africane lontanissime o accettano l’isolamento nel proprio ambiente di lavoro dove vengono derise per ciò che pensano in campo sessuale…sono  animate da volontà di autodonazione sino al sacrificio dei beni più preziosi (l’autonomia economica, la libertà di amare e di essere amati anche carnalmente, l’indipendenza di giudizio nella conduzione della propria vita). I privilegi del potere agiscono se mai come motivazioni inconsce che diventano consce in quei soggetti che – quando capiscono di essere dentro un’Istituzione che ha tradito il vangelo – preferiscono far finta di nulla perché a trenta o cinquanta o settant’anni sarebbe faticoso rifarsi una vita fuori dalla Santa Madre Chiesa. Cosa ha spinto, dunque, un Agostino o un Tommaso d’Aquino a tradurre in termini di cose, di res, di sostanze e di accidenti, il mondo dei simboli, delle metafore, delle allegorie (per cui ogni messa diventerebbe rinnovamento del miracolo della ‘transustanziazione’ o ogni ordinazione presbiteriale implicherebbe una trasformazione indelebile e irreversibile dell’essere stesso del seminarista)? L’autore stesso – non so quanto in coerenza con alcune altre pagine in cui elenca in sequenza le “quattro fasi” attraversate dalla Chiesa per “diventare un organismo di potere”: “la creazione di una struttura gerarchica; la creazione di un’ideologia; la creazione di un corpus giuridico e liturgico (…); la creazione di un sofisticato regime di sorveglianza e di controllo basato sulla paura e sul mantenimento di una nevrosi universale di colpa” (p. 70) – afferma con chiarezza che “sarebbe ingiusto e storicamente falso attribuire alle autorità ecclesiastiche l’intenzione esplicita di avere voluto inventare il dogma della divinità di Cristo per giustificare teologicamente il loro sistema di potere” (p.58) e, qua e là nel libro, evoca una categoria che a me pare più convincente:  la “sindrome ontologica”.                 Almeno in parte richiama una “sete di concretezza” di cui parla, in qualche passaggio delle sue opere, il cardinal Martini. Se, in Giovanni,  Gesù promette di offrire la propria “carne”, i discepoli fraintendono il registro metaforico e si chiedono come farà a darla loro in pasto: gli uomini vogliamo certezze, contatti fisici. Il cattolicesimo si è  costruito come enorme Macchina per rassicurare, confortare. Il fedele che si affida ad essa viene liberato dall’angoscia del dubbio: ci possono essere pastori che strumentalizzano questa fame di materialità, di afferrabilità, a scopi di dominio, ma sospetto che la maggior parte di essi sono i primi ad esserne affetti e da volerla soddisfare.

Da questi rapidi cenni si ricava che il libro è un utile, perché organico, compendio critico dell’impianto cristiano-cattolico. Offre anche indicazioni, in positivo, sul da farsi? Forse solo l’ultimo breve capitolo (I cristiani di domani) può interpretarsi come pars costruens. Troppo poco. Purtroppo il decesso dell’autore, pochi mesi dopo la pubblicazione di quest’opera, ha precluso la possibilità di ascoltare ciò di cui abbiamo bisogno adesso: un piano di ricostruzione dopo il terremoto che ha abbattuto edifici ammirevoli, ma ormai vetusti. Si apre dunque un campo di lavoro immenso e non poco affascinante.

Augusto Cavadi

“Viottoli”

Semestrale di formazione comunitaria

Pinerolo 2/2024

giovedì 23 gennaio 2025

"ROTTAMATORI E CAPITANI": SCRITTI DI ELIO RINDONE SULLA POLITICA ITALIANA DAL 2015 al 2019

 Chi desideri riflettere sulle condizioni reali della democrazia nel nostro Paese e sulla politica dell’Occidente, spesso in contrasto con i valori che dice di difendere, può leggere il secondo di una serie di volumetti scaricabili gratuitamente al seguente link 

https://app.bookcreator.com/l/-Nis45cap9Lv2WiFznmj?c=R6GF6F2

In Rottamatori e capitani sono contenuti degli articoli (pubblicati da Elio Rindone su varie testate) che, in sequenza, mettono a fuoco alcuni passaggi critici della politica italiana dal 2015  al 2019 (con particolare riferimento ad alcune iniziative di Matteo Renzi e di Matteo Salvini).

I temi trattati sono seri e non di rado tragici, ma l'autore cerca di mantenere il punto di vista di un osservatore disincantato che volentieri alleggerisce i toni ricorrendo anche al registro ironico. 

Nota tecnica:

Basta cliccare sul link e poi, sulla schermata che si apre, su G (dove usare, se richiesto, un indirizzo gmail), per entrare come studenti nel sito di Book Creator.

venerdì 17 gennaio 2025

Kant ed Hegel: due opposte concezioni della guerra


In uno scritto precedente[1] ho avuto modo di richiamare le linee essenziali della filosofia della guerra e della pace secondo Erasmo da Rotterdam. Nell’umanista rinascimentale si trovano delle straordinarie anticipazioni del pacifismo, se non addirittura della nonviolenza, dei secoli successivi.

 

Kant e la guerra

Tra gli autori che su più di un punto hanno ripreso – forse senza saperlo, certamente senza dichiararlo – il pensiero di Erasmo  rientra Kant, ma con una differenza di fondo (qualcuno direbbe, alla Kuhn, di “paradigma”):  il filosofo prussiano traghetta da una prospettiva ancora per molti versi medievale (la pace va perseguita soprattutto per fedeltà al vangelo e grazie alla mediazione di autorità soprattutto cattoliche, in primis  del papa) a una visione moderna (in cui la pace va attuata per motivi razionali/utilitaristici e grazie a un’istituzione cosmopolitica interamente “laica”). Ma vediamo più analiticamente.

 

La visione antropologica

Come avviene (esplicitamente o implicitamente) in tutte le teorie politiche, alla base di ciascuna di esse vi è una certa interpretazione dell’essere umano. Nel caso di Kant, l’uomo non è del tutto malvagio, ma neppure pura razionalità senza passioni anche egoistiche: la sua condizione è piuttosto di “socievole insocievolezza”[2], oscilla fra desiderio di isolamento e necessità di convivenza. Tale condizione lo espone se non alla guerra continua, al rischio della stessa che è – erasmianamente – la sintesi di tutte le calamità che l’uomo possa procurare a sé stesso. E che dunque, almeno come ideale da perseguire, va cancellata dalla storia.

 

Verso una “costituzione civile”

Poiché “lo stato di pace tra uomini assieme conviventi non è affatto uno stato di natura”, “dev’essere istituito[3]. Come fare?

In un certo senso, e sino a un certo punto, come siamo riusciti a sradicare – o almeno rendere improbabili – le guerre civili far cittadini all’interno dello stesso Stato: con un patto costituzionale che ci ha traghettati dallo status naturalis (“uno stato di guerra, nel senso che, se anche non vi sono sempre ostilità dichiarate, è però continua la minaccia che esse abbiano a prodursi” [4]) a “far parte di una qualche costituzione civile”[5].

Tale costituzione dovrebbe basarsi su 3 articoli.

In base al primo, “la costituzione civile di ogni Stato dev’essere repubblicana”[6] .

Poiché scrive in Prussia, monarchia autocratica, ma è un entusiasta ammiratore della Rivoluzione francese ancora in corso, Kant deve giocare su un filo da equilibrista: da una parte, “ogni vera repubblica, ora, non è e non può non essere altro che un sistema rappresentativo del popolo, avente lo scopo di proteggere in nome del popolo (…) i diritti dei cittadini stessi” [7]; dall’altra, “è provvisoriamente (giacché essa non si realizza in modo tanto celere) dovere dei monarchi, sebbene comandino autocraticamente, governare tuttavia repubblicanamente”[8]. I 3 principi su cui si fonda la costituzione repubblicana solo il “principio della libertà[9]; il “principio della dipendenza di tutti da un’unica comune legislazione (come sudditi)”[10]; la “legge dell’uguaglianza di tutti (come cittadini)”[11].

Il secondo articolo dovrebbe recitare: “Il diritto internazionale deve fondarsi sopra una federazione di liberi Stati”[12]. Kant esclude esplicitamente la formazione di un unico Stato mondiale, “uno Stato di popoli[13], perché prematuro rispetto alla coscienza media attuale, ma auspica almeno “una federazione di popoli[14]:

 

“Come l’attaccamento dei selvaggi alla loro libertà senza legge, che li spinge a preferire di azzuffarsi di continuo tra loro piuttosto che sottoporsi a una coazione legale da loro stessi stabilita, a preferire una folle libertà a una libertà ragionevole, noi lo riguardiamo con profondo disprezzo e lo consideriamo barbarie, rozzezza, degradazione brutale dell’umanità, così si dovrebbe pensare che popoli civili (di cui ognuno forma uno Stato per sé) dovrebbero affrettarsi ad uscire al più presto possibile da uno stato così degradante. Al contrario ogni Stato ripone piuttosto la propria maestà (…) nel non sottoporsi a coazione legale esterna di sorta, e lo splendore del sovrano si fa consistere nell’avere al suo comando, senza che egli stesso si esponga al pericolo, molte migliaia di uomini pronti a sacrificarsi per una causa di cui ad essi non importa nulla”[15].

 

Il terzo articolo recita: “Il diritto cosmopolitico dev’essere limitato alle condizioni di una universale ospitalità”[16]. “Non si tratta di filantropia” – precisa Kant – “ma di diritto, e quindi ospitalità significa il diritto di uno straniero che arriva sul territorio di un altro Stato di non essere da questo trattato ostilmente”[17].

Il filosofo non tematizza la questione dal punto di vista odierno dei flussi migratori, ma l’affronta – autocriticamente – dal punto di vista del colonialismo europeo che abusa del “diritto di visita, spettante a tutti gli uomini”[18]:

 

 “Questo diritto di ospitalità, cioè questa facoltà degli stranieri sul territorio altrui, non si estende oltre le condizioni richieste per render possibile un tentativo di traffico cogli antichi abitanti. In questo modo parti del mondo lontane entrano in pacifici rapporti tra loro, e questi rapporti diventano col tempo formalmente giuridici e avvicinano sempre più il genere umano a una costituzione cosmopolitica. Se si paragona con questo la condotta inospitale degli Stati civili, soprattutto degli Stati commerciali del nostro continente, si rimane inorriditi a vedere l’ingiustizia che essi commettono nel visitare terre e popoli stranieri (il che per essi significa conquistarli). L’America, i paesi abitati dai negri, le Isole delle spezie, il Capo di Buona Speranza ecc., all’atto della loro scoperta erano per essi terre di nessuno, non facendo essi calcolo alcuno degli indigeni. Nell’India orientale (Indostan), col pretesto di stabilire stazioni commerciali, introdussero truppe straniere e ne venne l’oppressione degli indigeni, l’incitamento dei diversi Stati del paese a guerre sempre più estese, carestia, insurrezioni, tradimenti e tutta la lunga serie di mali che possono affliggere l’umanità”[19].

 

Kant, che parla sempre da filosofo, non dimentica di essere personalmente un cristiano e, dunque, non può fare a meno di notare:

 

“E questo fanno gli Stati che ostentano una grande religiosità; e mentre commettono ingiustizie con la stessa facilità con cui berrebbero un bicchier d’acqua, vogliono passare per esempi rari in fatto di osservanza del diritto”[20].

 

 

Un utopista ingenuo?

 

Da quando è stata pubblicata la proposta kantiana è stata accusata di ingenuità. La sua è stata però, a mio avviso, una “utopia critica” perché tiene in conto difficoltà, riserve e limitazioni di vario genere.

Innanzi tutto egli distingue (non sempre con nettezza) la guerra da altri generi di conflitti (come la competizione industriale e commerciale) e, in sintonia con Adam Smith, sostiene che questi ultimi (sia tra individui che fra popoli) sono sempre benefici ai fini del progresso dell’umanità.

Inoltre egli riconosce che persino le guerre in senso bellico, militare, hanno avuto degli effetti positivi: se non altro perché hanno evidenziato la necessità di andare oltre la fase storica millenaria sinora attraversata.

Tuttavia , nel chiudere il bilancio dei vantaggi e svantaggi della guerra, Kant cita un detto antico (sulla cui sostanza si era soffermato anche Erasmo da Rotterdam): "La guerra è un male, perché  fa più malvagi di quanti ne toglie di mezzo"[21].

 

Commenta Enrico Peyretti:

 

 “Dunque, chi vince nella guerra? Il male. La pretesa della vittoria armata è di sradicare un male. Ma essa è radice di altro maggiore male. Oh, se la guerra togliesse di mezzo i malvagi! Ameremmo la guerra come amiamo il bene! Ma qui è l'immenso inganno: sempre la guerra si ripresenta illudendo e ipnotizzando i buoni stolti con la promessa di togliere dal mondo la malvagità togliendo chi la incarna. E sempre il risultato è che chi fa la guerra diventa malvagio. Se siamo noi a voler togliere di mezzo uno o più malvagi, alla fine i malvagi saranno molti: noi”[22].

 

Infine, e direi soprattutto, Kant non può essere tacciato di ottimismo ingenuo perché afferma e ribadisce che la confederazione di Stati in grado di assicurare la pace perpetua non sia dietro l’angolo della storia: è un’utopia, ma va tenuta presente come un ideale verso cui tendere gradualmente passo dopo passo.

 

Hegel e la guerra

Se, in somma, eliminare la guerra dalla storia per Kant è possibile (sia pur nei tempi lunghi) e auspicabile, per Hegel  - suo più giovane contemporaneo – tale eliminazione non è né possibile né auspicabile.

 

La guerra è inevitabile

Non è possibile eliminare i conflitti bellici dalla storia perché il celebre frammento di Eraclito, “Guerra è la madre di tutte le cose”, esprime, a suo giudizio, non  solo un dato di fatto, ma anche un principio di diritto.

Per capire questa tesi bisogna inserirla nel sistema complessivo del filosofo tedesco per il quale “il  vero è l’intiero”[23], non il dettaglio particolare. Kant parlava  ancora dal punto di vista di noi esseri umani, Hegel ritiene di essere il portavoce della Totalità (che chiama anche Dio o Spirito o Assoluto o Ragione o Idea). Poiché l’Assoluto è intrinsecamente “dialettico” non rientra nelle modeste possibilità antropologiche cancellare “la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio del negativo”[24].

La storia del nostro pianeta è la storia della graduale auto-realizzazione (e conseguente auto-manifestazione) di questo Spirito assoluto che si affaccia con le prime forme di vita biologica, poi diventa soggettività psicologica, poi coscienza collettiva: è solo a questo stadio – quando l’io diventa noi – che si può iniziare a parlare propriamente di Spirito.

Prima di splendere in tutto il suo fulgore nell’arte, nelle mitologie religiose e nelle costruzioni filosofiche, lo Spirito di rende visibile e tangibile nelle istituzioni storiche principali: la famiglia, la società civile, lo Stato. Lo Stato appare cronologicamente dopo le famiglie e le società, ma è il fondamento che, per così dire retroattivamente,  dà senso a tali aggregati ed evita che la guerra di tutti contro tutti tra gli individui (all’interno della famiglia) e tra le famiglie (all’interno della società) distrugga l’umanità. Lo Stato è dunque l’istanza suprema (Stato “etico”) che Hegel non esita a definire “l’ingresso di Dio nel mondo” (la piena incarnazione del divino).

Tutto scorrerebbe liscio se l’umanità fosse radunata e animata da un unico Stato. Di fatto però ce ne sono molti e ognuno rivendica – legittimamente – la prerogativa di essere un principio assoluto. Lo “Spirito del mondo” si incarna in ogni Stato, ma come stabilire in ogni epoca quale sia lo Stato prescelto come guida mondiale? Al di sopra degli Stati (ciascuno dei quali sovrano) non c’è altro  “tribunale del mondo” che “la storia del mondo”, la quale si serve della “guerra” per esprimere le proprie sentenze: chi vince apprende, e fa apprendere, di avere la Ragione in sé[25].

 

 

La guerra è salvifica

L’eliminazione della guerra dalla storia non solo non è possibile, ma – anche se lo fosse – non sarebbe auspicabile.  Infatti l’Assoluto (“Dio in divenire”) è principio di vita, di progresso, non solo nella natura ma anche, e ancor di più,  nella sua manifestazione storica. Quindi la descrizione fenomenologica (su come va il mondo) non suscita in Hegel nessun rifiuto: ciò che è “reale” per lui è “razionale”, cioè logico, vero, pregno di significato, da accettare stoicamente. La guerra viene considerata da lui – a differenza di Kant che ne vedeva anche gli aspetti deleteri – un fenomeno solo positivo: “Come il movimento dei venti preserva il mare dalla putrefazione, nella quale lo  ridurrebbe una quiete durevole, come vi ridurrebbe i popoli una pace durevole,  o,  anzi, perpetua”[26].

Inoltra egli pensa a due effetti, per così dire collaterali della guerra, all’interno di uno Stato:  rafforza l’unità interna fra i cittadini e scoraggia le rivoluzioni.

Su questo tema mi pare che un principio fondamentale di ogni visione dialettica (il Bene, alla fine, vince) mostri tutta l’ ambiguità del suo ottimismo: infatti la convinzione che l’ultima parola della storia sarà conclusivamente redentrice è difficilmente separabile dalla convinzione che, sinora, gli eventi (se non altro in quanto gradini verso l’esito finale)  sono andati nel migliore dei modi possibili.

Secondo alcuni lettori di Hegel, egli – al di là dei toni apparentemente trionfalistici – è, almeno parzialmente, consapevole dello scacco che la guerra (e in generale il male nella storia) infligge al suo sistema filosofico:  da cattedrale del pan-logismo diventa tempio del pan-tragismo; da che doveva essere una “teodicea”, cioè la giustificazione razionale di Dio “attraverso il mondo dell’esperienza e della storia”, si trasforma nella “contemplazione della tragedia senza uscita della storia”[27]. Secondo altri, invece, egli ha accettato questa sfida allargando “la ragione per renderla capace di comprendere questa vita”, in cui l’irrazionale c’è senza scampo, ma “porta in sé il germe della propria opposizione e del proprio superamento”[28].

 

Uno spietato giustificazionista?

Questa interpretazione della guerra sembra una perfetta giustificazione dei vincitori nella storia dell’umanità. La sua prospettiva è dunque spietata, incurante dei mali materiali e morali provocati dai conflitti bellici? Ritengo difficile rispondere negativamente. Per almeno due motivi.

Il primo è che per Hegel importano solo la storia dello “Spirito del mondo” e la sua marcia trionfale verso la “libertà”, rispetto alle quali le vicende individuali, particolari, sono accidenti trascurabili.

Un secondo motivo è che egli contesta la pretesa degli Illuministi e di Kant di contribuire con la filosofia a dirigere il corso della storia per migliorarlo: come ha notato un illustre studioso italiano, inizialmente entusiasta di Hegel, questi ha assegnato alla storiografia un “compito retrospettivo” che “la fa rassomigliare al lavoro autobiografico” e non, invece, “per gettare un ponte tra il passato e il futuro, per preparare le riserve spirituali da bruciare nell’azione che si prepara”[29].

Nel criticare Hegel,  è onesto concedergli delle attenuanti e non cascare nella trappola degli anacronismi? Senza dubbio. Ad esempio è giusto ricordare che un suo studente, nei Lineamenti di filosofia del diritto, ha riportato due annotazioni di Hegel:

 

“Quindi, le guerre moderne son fatte umanamente, e la persona non è in atteggiamento di odio, di fronte alla persona. Tutt’al più, sopravvengono ostilità personali agli avamposti: ma, nell’esercito come esercito, l’ostilità è qualcosa di indeterminato, la quale vien meno, di fronte al dovere, che ciascuno rispetta nell’altro”[30].

 

E inoltre:

 

 “In essa è conservata la possibilità della pace, e, quindi, per esempio, sono rispettati gli ambasciatori, e, per cui, più in generale, essa non è fatta contro le istituzioni interne e la vita pacifica di famiglia privata, né contro le persone private”[31].

 

Tuttavia queste osservazioni non sono tali da ‘assolvere’ Hegel.

Mi pare che egli abbia sottovalutato il fatto che  le guerre, anche nella sua epoca, comportassero disastri per la popolazione civile inerme, non solo per i soldati in battaglia.

Inoltre possiamo chiederci: conserverebbe le stesse idee se avesse conosciuto la radicalizzazione dei conflitti bellici – divenuti “guerre totali” – nella Prima e nella Seconda Guerra mondiale del Novecento? Temo di sì. Mi pare che proprio a proposito del sistema hegeliano Chesterton abbia scritto una volta che esiste un genere di follia consistente nel perdere tutto, tranne la ragione. Quando la filosofia si esenta dalla verifica continua dei dati empirici – soprattutto dalla carne e dal sangue dei viventi senzienti – ma, una volta fissatasi su qualche Idea (sia pur suggerita dall’esperienza), si limita a deduzioni puramente logiche, rischia di configurarsi in maniera deleteria.

Al di là di queste considerazioni critiche, direi  che la prospettiva bellicistica di Hegel presta il fianco all’accusa radicale (gravissima per un filosofo) di essere logicamente incoerente. Infatti: Hegel, che ha contestato la méta di una pace perpetua, non l’ha forse – inconsapevolmente – condivisa?  Per lui, infatti, non c’è storia senza guerra; ma – poiché la storia ha un fine che coincide con la fine – ci sarà guerra senza storia? O la fine della storia coinciderà con l’avvento della (tanto vituperata) pace perpetua? Come si chiede Bobbio: se “la fine della storia consiste nel sapere assoluto, cioè nella presa di possesso da parte dell’uomo della teoreticità totale”[32], ci sarà ancora spazio per nuove opposizioni e nuovi oltrepassamenti?  “L’uomo teoretico totale”[33] avrà ancora nemici con cui confliggere?

 

Augusto Cavadi

 

La versione originale (con apparato iconografico) qui:

https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/kant-ed-hegel-due-opposte-concezioni-della-guerra/

 

 


 



[1] Cfr. Erasmo da Rotterdam: un pioniere del pacifismo nel numero 69  di “Dialoghi mediterranei”.

[2] E’ il concetto che Kant enuncia nella quarta tesi del saggio Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico del 1784.

[3] I. Kant, Per la pace perpetua in I. Kant, Per la pace perpetua. La pace come destinazione etica e politica della storia dell’umanità, a cura di M. Pancaldi, Armando Editore, Roma 2004, p. 45.

[4] Ivi.

[5] Ivi.

[6] Ivi, p. 46.

[7] I. Kant, Metafisica dei costumi, Laterza, Bari – Roma 1973, § 52, p. 176.

[8] I. Kant, Conflitto delle facoltà in I. Kant, Scritti di storia, politica, diritto, Laterza, Bari – Roma 2002, p. 234.

[9] I. Kant, Per la pace perpetua, cit., p. 47.

[10] Ivi, pp. 47 – 48.

[11] Ivi, p. 49.

[12] Ivi, p. 59.

[13] Ivi, pp. 59 – 60.

[14] Ivi, p. 59.

[15] Ivi, pp. 60 – 61. Ancora una volta con toni erasmiani, Kant ritorna su questa assurdità della guerra:   “Se per diritto internazionale si intende il diritto alla guerra (…), esso non significa propriamente nulla. Si dovrebbe infatti intendere nel senso che uomini che pensano in tal modo hanno la sorte che si meritano, se si distruggono a vicenda e cercano così la pace eterna nella vasta fossa che copre coi loro autori tutti gli orrori della violenza” (ivi, pp. 66 – 67).

[16] Ivi, p. 69.

[17] Ivi.

[18] Ivi.

[19] Ivi, pp. 70 – 71.

[20] Ivi, p. 74.

[21] Ivi, p. 88 (siamo nel primo dei due Supplementi aggiunti da Kant alla propria trattazione). Il detto è attribuito al cinico Antistene.

[22] E. Peyretti, Contro la vittoria, riprodotta anche sul periodico on line  “Donna, vita, libertà ”n. 460 del 4.4.2024.

[23] G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, a cura di E. De Negri, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1985, p. 15 (par. 19).

[24] G. W. F. Hegel, Fenomenologia, cit., p. 14 (par. 18).

[25] Si può notare che la fiducia hegeliana nella “razionalità” delle sentenze storiche emanate dalle guerre è esattamente agli antipodi di quanto sosteneva quel filone della saggezza “classica” europea a cui Erasmo da Rotterdam aveva prestato voce: “Marte è un dio sciocco e balordo, non meno cieco di Pluto o di Cupido, sempre o quasi sempre pronto ad abbracciare la peggiore delle parti in causa” (Erasmo da Rotterdam, Lo scarabeo dà la caccia all’aquila in Erasmo da Rotterdam, Dolce è la guerra per chi non ne ha esperienza. Storie politiche tratte dagli Adagi, a cura di U. Dotti, Feltrinelli, Milano 2017, p. 102).

[26] G.W.F. Hegel, Lineamenti di Filosofia del diritto, cit. in S. Brocardo, Bellum iustum: riflessioni hegeliane sulla guerra in www.arenaphilosophika.it

[27] E’ ad esempio la tesi di I. Iljin, Die Philosophie Hegels als kontemplative Gotteslehre , A. Francke, Bern 1945,  esposta e commentata da N. Bobbio, Studi hegeliani in N. Bobbio, Da Hobbes a Marx. Saggi di storia della filosofia, Morano Editore, Napoli 1971, pp. 178 – 186.

[28] E’ il caso di J. Hyppolite, soprattutto nel saggio Introduction à la philosophie de l’histoire de Hegel, Rivière, Paris 1948 che Bobbio discute nello stesso volume, appena citato, alle pp. 190 – 192.

[29] G. De Ruggiero, Storia della filosofia, vol. 5: G.G.F. Hegel, Laterza, Bari 1948, p. 256.

[30] Ivi.

[31] Ivi.

[32] N. Bobbio, Studi hegeliani, cit., p. 211.

[33] Ivi.