Il
volume di Davide Miccione, La congiura degli ignoranti. Note sulla
distruzione della cultura (Valore italiano editore, Roma 2024) , può essere
apprezzato da più angolazioni. Intanto, a primo approccio, risulta piacevole da
leggere: che un saggio di denunzia, dettato dallo sdegno, sia scritto con stile brillante (e, perciò, accattivante) non è pregio da poco. Inoltre, attraverso un linguaggio
amaramente umoristico, veicola considerazioni serie e lancia allarmi tanto più
preziosi quanto meno frequenti nel discorso pubblico.
Infatti,
riprendendo e completando il suo precedente Lumpen Italia. Il trionfo del
sottoproletariato cognitivo (Ipoc, Milano
2015 e poi LetteredaQalat, Caltagirone 2022), quasi a voler comporre un trattato in
due tomi di “ignorantologia”, l’autore indaga sulle cause radicali del “declino
cognitivo” registrabile nella società italiana (in linea, ovviamente, con
quanto accade nell’area nord-occidentale del pianeta, di cui condividiamo i
pochi pregi e i molti difetti).
Le
famiglie, le organizzazioni sindacali, le associazioni di portata nazionale, i
politici in servizio permanente effettivo hanno certamente una porzione di
responsabilità (Miccione avrebbe potuto senza difficoltà aggiungere alla lista
la Chiesa cattolica nella quale, tranne in pochi studiosi, la fides ha
da tempo smesso di cercare l’ intellectus), ma è evidente che il ruolo
decisivo è svolto dalla scuola (intesa complessivamente come sistema della
formazione dei cittadini dalla scuola primaria all’università). Forse il
nocciolo del ragionamento dell’autore si potrebbe tradurre e sintetizzare a
partire dall’etimologia del vocabolo “scuola” che in greco suona skolé e
significa propriamente otium. La scuola nasce come uno spazio di quiete,
di libertà, di gratuità in cui formarsi e formare le nuove generazioni, al
riparo dagli affanni e dagli affari della vita sociale, nella speranza che –
quando sarà il momento di immergersi nel caos della storia – si abbiano gli
strumenti per giudicare criticamente e per proporre riforme (e/o rivoluzioni)
necessarie. Che cosa è diventata grazie all’opera di ministri di ogni area
partitica negli ultimi decenni? La negazione dell’ozio: un unico, affollato,
chiassoso neg-otium. Invece di interpretarsi come coscienza critica
della società, la scuola si configura come una palestra che prepara ad
entrarvi.
Miccione
vede in questa degradazione l’effetto di un disegno politico perverso, ma non
ne sarei così sicuro. I politici di professione che ho conosciuto un po’ più da
vicino – tranne rarissimi casi - non mi
sembrano attrezzati per un’impresa così impegnativa: infatti, anche quando non
mancano le doti intellettuali, difetta in loro
l’attitudine alla riflessione, alla ponderazione, al vaglio dei pareri
degli esperti (per la quale sono
necessari silenzio e tempo). Più che progettare strategicamente, mi pare
che i ministri sino avvicendatisi in viale Trastevere abbiano assecondato il
vento delle mode pedagogico-didattiche. D’altronde è lo stesso Miccione, in
altra parte del libro, a notare come “un parlamentare, un sottosegretario, un
ministro non decidono nulla. Accordi, trattati, commissioni europee, authority
e organismi internazionali hanno già deciso la direzione politica da seguire”
(p. 140).
Naturalmente
nelle nuove proposte non tutto è da buttare come non era tutta aurea la scuola
che abbiamo frequentato negli anni 50-60 del secolo scorso: il taglio
pamphlettistico del libro ha probabilmente dissuaso l’autore dal sottolineare
il positivo del nuovo e il negativo dell’antico, come sarebbe avvenuto in
un’analisi più scientificamente asettica.
Il
cuore del sistema è comunque nella classe docente che viene preparata,
selezionata, assunta e mantenuta in servizio sino alla quiescenza in nome di un
patto tacito: vi paghiamo poco, ma – dal punto di vista qualitativo - non
pretenderemo nulla in più di ciò che ognuno/a vorrà dare. Con il risultato macchiettistico
che solo a chi è estraneo al mondo della scuola può risultare inverosimile: “Il
professore di filosofia a disagio con i testi di filosofia o il professore di
lettere che non legge mai un libro o quello di latino che il poco latino che
aveva lo ha visto arrugginirsi irrimediabilmente, sono figure più diffuse di
quanto si pensi. Ovviamente si trovano in un sistema che chiede loro di
rinnovare la didattica in senso tecnologico e orizzontale, oppure di occuparsi
di monitoraggi, test, burocrazia, sicurezza e inclusione e mai di letteratura o
filosofia o latino” (p. 88).
La
situazione non è meno grave se il cannocchiale si sposta dalle scuole medie
all’università dove – per un complesso convergente di cause – neppure i docenti
(e, di conseguenza, gli studenti) riescono a costituire un’eccezione rispetto a
quel “popolo di frenetici informatissimi idioti” di cui Franco Ferrarotti ha offerto
la sociologia (p. 135).
La
conclusione del volume non invita all’ottimismo, ma forse solo la durezza delle
diagnosi può indurre a cercare con solerzia le ipotesi terapeutiche: “A meno di
non essere già stati contagiati dal morbo idiocratico non si può far
finta di ignorare che ogni anno che passa muoiono uomini formati da altri
uomini e diventano adulti individui che sono stati formati alla vita e
all’interazione umana da realtà artificiali e non da altri esseri umani; che
hanno fissato uno schermo ben più di quanto abbiano guardato il volto di un
altro (…). Quale livello di malafede o di integrazione al sistema o di
stupidità si deve raggiungere per pensare che un cambiamento simile non produca
nulla di radicalmente diverso e forse mostruoso?” (p. 160).
Se saggi come questo dovessero trovare accoglienza pletorica, proprio l’eventuale successo editoriale rischierebbe di costituire una smentita della denunzia in essi contenuta. Ma sarebbe triste se non entrassero a far parte della biblioteca privata di quanti – forse con presunzione, certo con sconforto – sono convinti che i drammi della storia che stiamo attraversando dipendono non da troppa teoria, bensì da teoria troppo poco critica.
Augusto
Cavadi
* Per la versione originale, corredata iconograficamente, cliccare qui:
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