Negli ambienti cristiani, soprattutto cattolici, lo studio scientifico dei testi biblici è stato ostacolato in tutti i modi. E a ragione. Se si ritorna alle fonti con gli attrezzi della critica moderna (come l’umanesimo rinascimentale aveva provato con intellettuali del calibro di Lorenzo Valla, Tommaso Moro ed Erasmo da Rotterdam) tutto l’impianto dogmatico e sacramentale delle Chiese così come si sono configurate - almeno dal IV secolo in poi – crolla. Bisogna scegliere: o ci si aggrappa al cristianesimo della catechesi tradizionale perché suona confortevole, rinunziando a indagarne le radici storiche, o si è disposti a ricominciare dall’inizio con l’entusiasmo e la totale incertezza di chi sa che sta aprendo cammini inediti.
I
fedeli del primo orientamento proveranno solo fastidio a leggere Il volume Gesù,
questo sconosciuto. Cosa sapere prima di credergli o di rifiutarlo
(Edizioni Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2024, pp. 322, euro 28,00), scritto dal
magistrato di Cassazione, ora in quiescenza, Dario Culot. Per chi è già
incamminato nella direzione alternativa di una rifondazione del cristianesimo a
partire dal Gesù del Secondo Testamento, invece, vi troverà preziose
indicazioni sia dal punto di vista destruens che, soprattutto, dal punto di vista construens.
L’ottica
della de-costruzione
Sin
dalla Presentazione l’autore chiarisce, con il tono colloquiale ma non
banale che caratterizza queste pagine, il primo dei suoi due obiettivi:
“Quello
che qui cercherò allora di fare è togliere a Gesù quel mantello dorato che il
magistero cattolico gli ha messo addosso, facendo vedere che neanche la
Chiesa-istituzione è in grado di dire con certezza: «io so chi tu sei! Tu sei
vero Dio e vero uomo». Immaginiamo cioè,
per un attimo, che Gesù arrivi oggi in mezzo a un gruppo di vescovi a Roma, e
riproponga la stessa domanda che aveva fatto a Pietro: «Chi dite che io sia?» (Mt
16,15). Tutti questi vescovi all’unisono risponderebbero, in coro, (…) : «Tu
sei la seconda persona della Trinità, l’unione ipostatica della divinità e
dell’umanità, tu incarni due nature nella tua unica persona (divina)». Ma siamo
poi così sicuri che Gesù non resterebbe sbigottito davanti a questi astratti
discorsi teologici che lo riguardano, e magari replicherebbe: « Ma cosa state dicendo? Non capisco». Non vi
sfiora mail il dubbio che, a volte, non sia stata proprio la teologia, nel
corso dei secoli, a deformare il Vangelo? ” (p. 9).
Ogni
esplorazione dell’identità dell’uomo Gesù dovrebbe partire dai “pochi dati di
fatto assodati” che si riscontrano nei vangeli (canonici ed extra-canonici) pervenutici:
“Gesù
non ha mai detto chi è, non ha mai dato definizioni di se stesso (…). Quindi
l’affermazione che Gesù Cristo è figlio di Dio, nel senso che ha la stessa
natura di Dio, è una professione di fede imposta dalla Chiesa, ma non c’è prova
alcuna che lo possa dimostrare” (p. 21).
Paolo
sostiene che l’uomo Gesù è costituito “messia” (o nella traduzione greca
“signore”) (cfr. p. 57) dopo la morte; Marco e Giovanni anticipano questa
consacrazione al momento del battesimo sul Giordano per mano di Giovanni
Battista; Matteo e Luca addirittura prima della sua nascita (cfr. p. 58). E’
ragionevole supporre che in queste differenti modalità si sia espressa la
convinzione della Chiesa primitiva sul fatto che “un uomo di nome Gesù ha
raggiunto la pienezza della condizione umana e per questo è entrato nella sfera
della condizione divina” (p. 57).
L’ottica
della ri-costruzione
Ma
se Il Gesù della cristologia pre-nicena (=
anteriore al Concilio di Nicea del 325 d.C.) non è Dio in senso
ontologico, che ha da dirci ancora oggi? Passiamo così all’obiettivo construens
propostosi dall’autore con questo intrigante volume.
a)
La religione – la
sua religione di appartenenza anagrafica e, per analogia, ogni religione in
quanto tale – va sostituita con una proposta alternativa:
“Dobbiamo
renderci conto che il progetto di Gesù da una parte, e il progetto della
religione dall’altra, sono due progetti che non hanno potuto conciliarsi né
armonizzarsi. Questo vuol dire che si tratta di due progetti incompatibili.
E sono incompatibili perché nel progetto della religione il centro determinante
di tutto sta nel sacro, con la sua dignità, il suo potere, le sue norme,
le sue proibizioni; invece nel progetto di Gesù il centro di tutto sta nell’umano,
nel rispetto verso tutti, siano o non siano religiosi, abbiano o non abbiano
credenze, siano persone buone o cattive, siano ortodossi o eterodossi, siano
ebrei, musulmani o cristiani. Ed è anche un progetto che ha il suo centro nella
dignità e felicità delle persone, nella gioia di vivere, nel piacere e nel
godere di tutto il bello e il buono che Dio ha messo nella vita. Invece, grazie
all’insegnamento che abbiamo ricevuto, quando si parla di Dio, per la gente è
più facile associare Dio al dolore, alla sofferenza, alla penitenza piuttosto
che associarlo alla felicità, alla gioia, all’allegria. Associare Dio al
piacere sembra quasi una bestemmia” (p.
195).
b)
E’ nota
l’obiezione a questa prima notazione cristologica: così non si “riduce” il
vangelo a mera filantropia ?
Si potrebbe rispondere che se una proposta di vita non
è “almeno” filantropica non è degna di essere accolta ragionevolmente. Il
cristianesimo dogmatico-istituzionale non è stato certamente contrassegnato da
univoco filantropismo e sino ai nostri tempi assistiamo a conflitti di matrice
teologica (o almeno sbandierati come tali) fra confessioni cristiane diverse
(ad esempio cattolici e protestanti in Irlanda) o addirittura all’interno della
stessa confessione (ad esempio fra ortodossi russi e ortodossi ucraini).
Ma anche nell’ottica delle fede tradizionale, a
partire dal Secondo Testamento, l’amore “orizzontale” verso il prossimo è stato
considerato segno autenticatore dell’amore “verticale” verso l’Invisibile: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate
gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli
altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore
gli uni per gli altri» (Giov. 13, 34 – 35).
Culot, però, sulla scia di alcuni predecessori, va
oltre. L’amore per l’umanità non è solo il presupposto minimo di
qualsiasi eventuale proposta teologica né soltanto il banco di prova
dell’autenticità di ogni eventuale unione mistica con il Divino: egli
sostiene che è proprio in quanto essere-per-l’altro che Gesù rivela il
massimo del pochissimo che possiamo conoscere di Dio. Insisto un po’ su
questo passaggio che mi risulta particolarmente originale.
c)
La “regola d’oro”
di tantissime etiche è di fare agli altri ciò che si vorrebbe da loro, dunque
del bene in tutte le modalità necessarie e opportune. Ma secondo i vangeli la
prassi amorevole di Cristo possiede un significato originale, peculiare: essa
allude, esprime, rende percepibile
qualcosa dell’atteggiamento di Dio stesso verso l’umanità. Essa veicola il
messaggio che
“non è vero che Dio discrimina le persone e allontana
da sé gli impuri e i peccatori, ma l’amore di Dio è rivolto a tutti” (p. 56).
d)
Troppo poco
questo sull’identità divina? Indubbiamente meno di quanto la Chiesa abbia avuto
la pretesa di raccontare:
“Quando
si parla di Dio, sembra che la Chiesa sappia tutto: è l’Essere Spirituale
Perfettissimo, Soprannaturale (cioè collocato su un piano superiore),
Trinitario, Onnipotente, Maschile, Creatore del cielo e della terra, Salvatore,
Redentore, Liberatore, Giudice severo ma giusto. Io preferisco la definizione di
Dio tratta dalle Upanishad vediche indiane: Non questo, non quello,
perché non si può prendere, non si può legarlo, non si può trattenerlo.
L’antica
India da millenni c’insegna che, se arriviamo ad avere un concetto preciso e
definitivo di Dio, se lo definiamo, questo non è più Dio. E’ solo una
rappresentazione di Dio che noi ci siamo costruiti nella nostra mente, perché Dio resta misterioso” (p. 7).
e)
Questo “poco”
assomiglia a quel che un animale domestico di compagnia, o anche un neonato, sa
(o meglio sente) di un adulto umano che lo abbia preso in carico: di essere in
buone mani.
“Probabilmente
anche noi dovremmo fermarci qui nel nostro rapporto uomo-Dio: Gesù, divulgando
la Buona notizia, ci ha fatto sapere che Dio ci ama e che ci si può fidare di
Lui; non molto altro ci ha detto Gesù di Dio in tutta la sua vita. Tutto
il resto ce l’ha detto il magistero. A questo punto sarebbe forse meglio fare
come aveva ammonito Ludwig Wittgenstein: «Di ciò di cui non si può parlare si
deve tacere» ” (pp. 7 – 8).
Obiezioni
a Dario Culot
Poiché il discorso di Culot è indubbiamente di grande
rigore logico e di altrettanto grande onestà intellettuale invita il lettore a
reagire con proporzionale senso critico e a formulare delle domande.
Molte obiezioni, perplessità, vere e proprie aggressioni
egli le ha effettivamente registrate negli incontri pubblici e nella
corrispondenza privata durante gli anni precedenti alla pubblicazione di questo
testo. Alcune di queste osservazioni critiche sono state raccolte nella Parte
II del volume (pp. 197 – 320): ad esempio, dal momento che “la formula Gesù
è vero Dio e vero uomo è dogmatica, e non è lecito mettere in discussione un
dogma”, “come fa a mettere in dubbio un dogma ?” (p. 228); oppure: “Lei dice
che Dio si manifesta in Gesù, senza che Gesù sia Dio, e che Gesù non ha mai
detto di essere Dio. Ma come è venuta allora fuori, fra i cristiani, l’idea
della divinità di Gesù che Lei nega?” (p. 299).
Le domande riportate nel libro, a cui l’autore
risponde con molte pagine in maniera sempre pacatamente argomentativa,
provengono tutte da un pubblico di cattolici credenti e praticanti.
Evidentemente ne sono possibili altre da versanti ‘esterni’ all’ambito
cattolico[1] e, in
particolare, mi pare se ne imponga una centrale. Per Culot del Mistero che
chiamiamo Dio non sappiamo nulla, tranne quel pochissimo/moltissimo che ce ne
ha raccontato Gesù di Nazareth: che non è un Principio antropomorficamente
raffigurabile come sovrano giusto e implacabile, ma una Fonte inesauribile di
tenerezza, cura, misericordia. Questa “buona notizia” (evangelo) è frutto non di
un’autorivelazione di Dio (come si affermava quando si vedeva in Cristo
l’incarnazione della Parola stessa divina) bensì dell’intuizione teologica di
un rabbi palestinese (dalla vita interiore intensa e certamente informato del
filone profetico biblico): dunque, la si può accogliere o meno, ma non senza
sottoporla al setaccio della ragionevolezza.
Il che, nel XXI secolo, significa chiedersi se si possa credere in un
Dio amorevole nonostante l’oceano di sofferenze in cui siamo immersi.
Non si tratta solo, o principalmente, dei mali evitabili che l’umanità è così
brava nell’infliggersi o nel non saper evitare, ma di quelle sofferenze
inevitabili a cui tutti i viventi senzienti siamo esposti nel nostro pianeta
(non sappiamo altrove) dalle tremende leggi dell’evoluzione. Per quanta
ammirazione, simpatia, devozione si possa provare per il Maestro, come fare a
condividere la sua fede in un Padre attento e benevolo che si occuperebbe di ciascun
essere umano, anzi di ciascun uccello del cielo e di ciascun giglio dei campi? Tante
volte ho ascoltato la risposta a questi dubbi laceranti (e talora geni sommi
come Dostoevskij l’hanno saputa formulare in parole di fuoco): se Gesù si sbaglia,
se l’Assoluto non è come lo presenta egli, l’alternativa logica è il
nichilismo. Se a Fondamento dell’universo non c’è nessun principio Intelligente
né ancor meno Amorevole, che senso ha per ciascuno di noi (ma prima ancora per
la grande famiglia dei viventi senzienti di cui siamo parte) venire alla luce
e, tra difficoltà e travagli d’ogni genere, trascinare un’esistenza precaria
che troppo presto s’interrompe con la morte? Che valore hanno i nostri
pensieri, le nostre scelte, i nostri slanci di eroismi, le nostre colpe
imperdonabili… se siamo dentro un flusso senza Alfa e senza Omega? E’ certo che
un tempo non esisteva l’homo sapiens, anzi neppure la vita biologica,
anzi neppure il pianeta Terra; ed è altrettanto certo che tra un certo tempo
non esisterà più né l’umanità né altri viventi né la stessa Terra. Tra l’inizio
e la fine la somma delle sofferenze più strazianti sarà compensata dalla somma
delle ore gioiose, o per lo meno serene, vissute da noi animali senzienti?
Se l’opzione è tra la “buona notizia” di Gesù e la
“cattiva notizia” di Morin (“Tutti i viventi sono gettati nella vita senza
averlo chiesto, sono promessi alla morte senza averlo desiderato. Vivono tra
nulla e nulla, il nulla prima, il nulla dopo, circondati dal nulla durante”[2]), come
negare che la seconda ha dalla sua la conferma dell’esperienza (per lo meno
scientifica e collettiva se non individuale)?
Si può accogliere il vangelo solo per evitare la disperazione, il senso
di angoscia e di frustrazione all’idea sartriana che “ogni esistenza nasce
senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione”[3]? Per me
filosofo sarebbe il rinnegamento radicale della tensione verso la verità. Perciò sono convinto che - dal punto di vista
teoretico, cognitivo - l’annunzio cristiano
sia irricevibile: non si può accettare una teoria dell’universo solo
perché non si avrebbe la forza di vivere secondo quanto l’intelligenza –
debitamente coltivata – ci attesta. L’uomo adulto del XXI secolo potrà far sua
l’intuizione stupenda e incoraggiante di Gesù solo quando essa sarà integrata e
supportata da un contesto dimostrativo (o per lo meno di un apparato di
contro-obiezioni) che, sinora, a mia conoscenza, nessuno ha saputo offrire. Gesù
per primo non ha dato, non ha voluto dare e probabilmente (estraneo com’era
alla mentalità speculativa greca) non avrebbe potuto dare nessuna
argomentazione razionale/ragionevole su come conciliare l’idea di un Dio Amorevole con i disastri
dolorosi che si registrano nel piccolo, nel medio e nel grande ogni volta che
apriamo gli occhi sull’universo. Intesa come via verso la Verità, la fiducia
esistenziale nel vangelo non solo non esclude ma – in linea di diritto – esige un
lavoro intellettuale immenso e incessante (a tutt’oggi lontano dall’essere
compiuto) affinché la si possa esercitare al di là della logica, non contro
la logica[4]. A mio
avviso, il vangelo non va ellenizzato, metafisicizzato; ma accoglierlo e
provare a viverlo rientra nella sfera esistenziale, fuori della quale
permangono domande ontologiche e cosmologiche cui solo la filosofia, in stretto
dialogo con le scienze, può tentare di offrire risposte (ovviamente parziali e
provvisorie).
Una possibile prospettiva interpretativa
Ma allora il cristianesimo è, ab ovo, tutto un
inganno (o comunque una proposta che può risultare tanto veridica quanto
ingannevole)? Nelle pagine del suo volume Culot non affronta, esplicitamente e
frontalmente, questo dubbio cruciale. Però, se non erro, apparecchia tutti gli
elementi per inquadrarlo da una prospettiva diversa, molto più fedele
all’ottica dei primi cristiani. Infatti, finché restiamo nella mentalità
critica dei figli di Atene, il nodo (almeno sino ad oggi) appare insolubile .
Ma pur avendo il diritto – anzi, prima ancora il dovere – di rispettare le
esigenze della ragione, possiamo anche ammettere che nelle varie culture
dell’umanità sono possibili altri orizzonti, altri paradigmi. Nella mentalità ebraica
di Gesù e dei discepoli, ad esempio, la preoccupazione prevalente non è di
ordine intellettuale, bensì operativo. Per i figli di Gerusalemme non si tratta
di convincere (se stessi e gli altri) della tesi filosofico-teologica che
all’origine del tutto vi sia un Principio vitale generoso, bensì di ‘vivere’
secondo questa convinzione: di testimoniarla, di metterla a frutto nella
concretezza della visibilità storica.
Infatti,
“il cristianesimo non è un sistema di
nozioni, bensì una via da seguire, tracciata da una persona in carne ed ossa.
Ecco perché ho detto che il centro del cristianesimo è la sequela dell’uomo
Gesù. Gesù, su questa terra, ci ha fatto conoscere Dio, non rivelando la
vera natura del suo essere, ma vivendo in un certo modo. Quella di Gesù non è
sta perciò una lezione magistrale sui concetti filosofici di ousia, physis,
prosopon, hypostasis ecc., ma una storia nella quale quel modesto galileo,
povero di mezzi ma ricco di umanità, ha presentato per l’appunto un progetto di
umanità, è vissuto in un modo ben preciso, si è relazionato con la gente in
maniera tale da attrarre alcuni e respingere altri, ha espresso con chiarezza
le sue preferenze e i suoi valori ecc. In questo modo Gesù ci ha rivelato Dio,
senza mai analizzare categorie metafisiche od ontologiche” (p. 62).
Il Secondo Testamento vacilla
quando, condizionato dalle influenze greche, vuole spiegare l’inspiegabile:
come sia possibile che un Dio infintamente buono abbia potuto creare un
universo dove non c’è divenire senza scarti, non c’è evoluzione senza vittime,
non c’è progresso senza tragedie. Molto più convincente quando testimonia, con
gesti, azioni, opere che Dio è dalla stessa parte degli esseri umani nella
lotta contro il male in tutte le sue molteplici forme, senza sbilanciarsi nel
(vano) tentativo di spiegare l’origine e il senso di questa lotta millenaria.
Se Dio è il Creatore dell’universo, se “esso è suo possesso assoluto ed egli ne
è il Signore assoluto” (p. 59), ci è debitore di molte risposte sulla
inesauribile miniera di dolore da cui l’universo sembra attingere il
combustibile per vivere e progredire. Con Gesù queste risposte non arrivano, ma
“questo concetto di Dio cambia, perché egli ci presenta Dio in modo
completamente nuovo: Dio non è più il padrone assoluto, ma è il servitore, o meglio
il diacono della vita: «Io sono venuto per servire e non per essere servito» (Mc
10,45)” (p. 59). Gesù si fa – o per lo meno viene interpretato dai primi
discepoli – come icona, plastica e vivente, del Mistero invisibile,
“non
inculcando dogmi, non imponendo di credere al catechismo, non imponendo
pratiche religiose. L’ha fatto, da vero servitore della vita, chiamando alla
vita, mostrandosi più umano e rendendo anche gli altri non più religiosi, ma
più umani, perché quando siamo pienamente umani diventiamo anche noi – come lui
– un canale di ciò che è pienamente divino, di quell’amore misterioso che
diffonde la vita” (pp. 63 – 64).
Essere
cristiano oggi
Se
essere cristiano oggi non significa appartenere necessariamente a una determinata
Chiesa (in senso istituzionale) né condividere un’idea chiara e distinta del
Mistero divino né avere ragioni a supporto della fede nella Bontà divina (poiché,
se tali ragioni ci sono, è in quanto pensatore che può trovarle, non in quanto
credente), cosa resta di specifico?
In
un certo senso, nulla. Il cristiano non è un tipo particolare di essere
umano: è uno di quei “laici” (= membro
del popolo, della grande famiglia terrestre) che vogliono capire se la vita ha
un senso e, sul versante etico, liberarsi e liberare i simili da ogni
dis-umanità.
In
un altro senso, il cristiano è caratterizzato in maniera peculiare, se
non addirittura esclusiva. Egli si auto-interpreta come uno che, sulle orme di Gesù,
nel perseguire la pienezza umana, in sé e negli altri, ritiene di rendere
visibile e tangibile nella storia l’Amore originario che chiamiamo anche “Dio”.
Egli dà un’interpretazione specifica e speciale alla sua prassi (che, in quanto
prassi agapica, è potenzialmente condivisibile da ogni altro essere umano), ma sapendo
che a costituire il fattore basilare e prevalente sia la prassi, non certo l’interpretazione
che di essa ne dà:
“La
comunità cristiana non può e non deve essere un circolo intellettuale, dove si
discute di argomenti teologici astratti, magari anche molto profondi e
interessanti, disancorati però dal Vangelo che, lungi dall’essere una dottrina,
è una testimonianza di una comunità che si è vista trasformata dalla sequela
di Gesù, cioè da un’esperienza che ha vissuto stando accanto a Gesù,
attraverso la quale ha scoperto che Gesù è il Messia atteso, il Figlio di Dio (Gv
20, 31) in senso messianico. Da questa esperienza nasce la volontà di
continuare su quella strada” (pp.55 – 58).
Una
strada che può portarci molto più in là dell’essere “servi fedeli” di Dio, ma
“amici”, anzi “figli” del Padre (Gv 15,15):
“Sequela
significa voler assumere la forma di Gesù, che vediamo come la miglior forma di
uomo possibile. Sequela è allora credere non ai dogmi, ma che il Dio di Gesù è
al nostro fianco – se uno lo vuole – per aiutarci a raggiungere quella forma
che ha assunto il figlio. (…) Il progetto della sequela di Gesù è il progetto
della libertà al servizio della misericordia. In questa formula si trovano il
cuore stesso del Vangelo e la sua sorprendente attualità” (p. 56 con rimando a
un commento di J. M. Castillo a Lc 9, 51 – 62).
“Senza
sequela non si è discepoli. Gesù chiede adesione alla sua persona, non a
dottrine, sì che la conoscenza di Gesù è pratica quotidiana, è farsi
plasmare dai suoi comportamenti, non è conoscere la dottrina cristiana
insegnata dalla Chiesa e poi credere che questa conoscenza ci salvi” (p. 64).
Più
di una volta ho ascoltato da parte di cattolici istruiti (per la verità più
nelle discipline professionali che in teologia) che questo identikit del
cristiano sarebbe d’impronta irrazionalistica e basato su una visione riduttiva
e fuorviante del Gesù storico. In effetti egli era anche un rabbi, un
conoscitore delle Scritture e un predicatore efficace né abbiamo prova alcuna
di una sua postura anti-intellettuale. Chi si appella ai vangeli per attaccare
il dono e la responsabilità della ricerca teoretica, del pensiero metodico, o è
poco informato o è in cattiva fede. Solo che – in sintonia con la mentalità
ebraica – egli ha giocato un altro gioco ed ha scelto di essere (o per lo meno
così è stato recepito) uno che parla facendo, che annunzia attraverso gesti
concreti, che predilige la testimonianza rispetto all’insegnamento. E’ per
questo che un fisico nucleare o un compositore musicale, un filosofo o un
politologo possono benissimo essere bravi cristiani, ma non grazie alla musica
che producono o alle scoperte che realizzano: la loro “fede” sarà valutabile
sul metro dell’agape, della donazione costante, della generosità nell’impegno
per il bene comune. Dunque non necessariamente sarà nota ai contemporanei,
prossimi o lontani. Don Cosimo Scordato, un amico che ha insegnato per decenni
teologia sistematica, adesso che come noi coetanei sta tirando un po’ le somme
di una lunga e appassionata ricerca, è pervenuto alla conclusione che, dal
punto di vista biblico, sarebbe preferibile sostituire alla dicotomia
credente/non credente il binomio amante/non amante.
In
ogni caso la sequela cordiale e pro-attiva non può identificarsi, come per
secoli ha insegnato la Chiesa cattolica, con una separazione fisica dal
contesto sociale (per esempio scegliendo l’eremitaggio o entrando in un ordine
cenobitico)[5]:
“Il
vero dilemma posto da Gesù non consiste nello scegliere tra l’amore a Dio e
l’odio per il mondo terreno […]. Il vero dilemma è scegliere fra la nostra «umanità
disumanizzata o l’umanità piena» sempre presente in Gesù. In questo punto
stiamo toccando il nocciolo stesso della sequela di Gesù. Seguace di Gesù è
solo chi è pienamente umano così da superare e vincere ogni possibile
disumanizzazione (Lc 14, 25). Nulla dunque di astrattamente religioso,
ma tutto concretamente terreno e profano” (p. 66).
Un’ultima
annotazione mi pare opportuno aggiungere per restituire l’affresco di Culot in
misura meno incompleta.
Per
chi si ritiene cristiano, il rapporto con il Divino passa, anche e soprattutto,
attraverso la partecipazione alla prassi di Gesù e dei suoi più fedeli seguaci
nei secoli: ma questa fede attiva, operativa, non ha nessuna pretesa di
esclusività[6], dal
momento che ogni essere umano può trovare i suoi canali per unirsi all’Assoluto
(o per prendere consapevolezza del suo esser-già-da-sempre in rapporto con l’Assoluto).
Questa apertura mentale, opposta a ogni tendenza fondamentalista, il cristiano
la adotta non per cedimento alle mode relativistiche che tanto preoccupavano
papa Benedetto XVI (come se fosse “irragionevole affermare che tutto nella
storia è relativo, tranne Dio”, p. 41), quanto per fedeltà al magistero gesuano
che, stando ai testi evangelici,
“rifiuta ogni assolutismo che cerca di monopolizzare come l’unica via di accesso a Dio la propria: ecco perché Dio non va adorato né nel monte Garizim come facevano i samaritani, né a Gerusalemme come facevano i giudei, essendo invece entrambi sicuri di essere gli unici adoratori del vero Dio (Gv 4,21). L’importante è essere aperti e pronti ad accogliere lo Spirito, come fanno la donna siro-fenicia (Mc 7, 26 ss) o il centurione pagano (Mt 8, 5 ss). La fede può essere grande anche senza profonde comprensioni teologiche e senza grandiose celebrazioni. E agli apostoli, che non avendo capito nulla di Gesù vogliono proteggere il monopolio di essere solo essi gli unici veri seguaci di questo maestro, Gesù dirà: «Chi non è contro di voi è con voi » (Mc 9, 40) (p. 54).
Augusto
Cavadi
[1] Ad esempio ci sarebbe da discutere a fondo se davvero
si possa prevedere/auspicare la fine di ogni religione in quanto tale o se non
sia più realistico concentrarsi sulla revisione radicale delle religioni
storiche dal momento che, ogni volta che si è tentato di cancellarle (come nei
regimi totalitari di Destra e di Sinistra nel XX secolo), sono state sostituite
da nuove strutture religionali ancora più dogmatiche, disumane e intolleranti
delle antiche.
[2] E. Morin – A.B. Kern, Terra – patria, Cortina,
Milano 1994, p. 104.
[3] J. P. Sarte, La nausea, Mondadori, Milano
1965, p. 191.
[4] Culot stesso, che pur denuncia più di una volta (con
ragione) l’ellenizzazione metafisica del cristianesimo, ogni tanto avverte la
necessità di supportare il kerigma evangelico con delle considerazioni
filosofiche: “Dobbiamo convincerci che Dio, come creatore, offre possibilità,
ma non si sostituisce alle creature. E tutte le cose create sono limitate: non
solo l’uomo, ma tutta la natura è limitata, per cui la materia in sé non può
esistere per sempre, e anche il male della natura (terremoti, frane) si spiega
con questa limitazione” (p. 101). Purtroppo queste considerazioni mi sembrano
sufficienti per conciliare l’idea di un Dio-Amore con i limiti fisici delle
“creature”, ma non con le atrocità che da milioni di anni accompagnano
l’evoluzione degli esseri senzienti, sino alle malformazioni genetiche dei
neonati odierni. Sulla scia di Tertulliano o di Kierkegaard si potrebbe dire
che la visione del mondo cristiana va accettata nonostante sia assurda, anzi proprio
perché assurda: ma è un “sacrificio” dell’intelletto che molti (Culot
compreso) non riteniamo di poter consumare per rispetto della nostra dignità e
dell’eventuale Creatore che – attraverso le vie dell’evoluzione – ce ne avrebbe
fatto dono.
[5] Vedi in proposito la lettura critica della vicenda di
Tommaso Moro in H. Küng,
Libertà nel mondo, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2014.
[6] Culot cita in proposito una poesia di Tagore (pp. 69
– 70) e un detto attribuito al celebre monaco buddhista Thich Nhat Hanh: “Il
vero miracolo non è camminare sull’acqua o camminare nell’aria, ma
semplicemente camminare su questa terra e farla fiorire dove sei passato” (p.
69).
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