venerdì 29 novembre 2024

LE RESPONSABILITA' DELL'OCCIDENTE PER LA GUERRA FRA RUSSIA E UCRAINA

 

Ogni giorno, in Italia, si sfornano centinaia di libri: tra questi alcuni istruttivi, pochissimi davvero imperdibili. Se non mi inganno, l’agile e denso Come l’Occidente ha provocato la guerra in Ucraina (Fazi Editore, Roma 2023), di Benjamin Abelow, appartiene a quest’ultima categoria. Infatti è talmente chiaro nell’enunciare la sua tesi e talmente documentato nell’argomentarla che – alla fine della lettura – bisogna appellarsi a una forte riserva di pregiudizi ideologici per non condividerla.

L’autore ribadisce più volte che “le provocazioni che gli Stati Uniti e i loro alleati hanno lanciato alla Russia sono errori politici talmente gravi che, a parti invertite, i leader statunitensi avrebbero da tempo rischiato una guerra nucleare con la Russia. Per i vertici americani affermare il contrario, come fanno adesso, rappresenta un pericoloso disconoscimento della realtà” (p. 57). Non si tratta di giustificare Putin, ma di capirne le ragioni perché se è un pazzo scatenato non resta che aspettare che la Nato distrugga la Russia o la Russia distrugga la Nato; se invece è un politico che sta difendendo in maniera autolesionistica un punto di vista logico, c’è la possibilità che – riconoscendo la parte di verità del suo punto di vista – si possa evitare il suicidio finale dell’umanità.

L’estremo interesse di questo libro sta nel fatto che le ragioni di Putin vengono esposte non da studiosi e politici russi o cinesi, ma proprio statunitensi, a cominciare addirittura da un falco di lungo corso, come Henry Kissinger, che (come ricorda Luciano Canfora nella lucida Prefazione), nel maggio 2022 (!!!),  esortava l’Occidente a non cercare “la sconfitta della Russia, che salderebbe l’alleanza fra Russia e Cina” (p. XIV). Ma la lista delle citazioni riportate e contestualizzate è lunga: da Chas Freeman (ex vicesegretario alla Difesa per gli affari di sicurezza nazionale) che, con amara ironia, afferma: “Combatteremo fino all’ultimo ucraino per l’indipendenza ucraina” (p.6) , al colonnello Douglas Macgregor, “storico comandante in Iraq che ha contribuito a sviluppare i piani di guerra statunitensi per l’Europa” (p. 17) : “Per i russi ciò che accade in Ucraina è una questione esistenziale. (…) I russi non tollerano forze o armamenti stranieri sul campo all’interno di un paese a loro ostile e che potrebbero plausibilmente minacciare la loro esistenza. (…) Cosa faremmo noi se i russi o i cinesi o qualcun altro dispiegasse una forza militare in Messico?” ( p. 33).

La tracotanza dei vincitori della Prima guerra mondiale ha arato il terreno per lo scoppio della Seconda: così sta avvenendo per voler stravincere dopo l’implosione dell’Unione Sovietica. Con una cecità supplementare: si vuole stravincere non contro il nemico di prima, ma contro chi ne ha eroso il potere. Già nel 1997 Geroges Kennan, “forse il più insigne statista americano allora in vita”, metteva in guardia contro l’errore del suo governo: “l’allargamento della NATO sarebbe l’errore più fatale della politica americana in tutta l’era post guerra fredda” (p. 43). E, in un’intervista dell’anno successivo, il novantaquattrenne ex-ambasciatore degli USA a Mosca si chiedeva retoricamente: “Ma davvero non lo capiamo? Le nostre divergenze durante la guerra fredda erano con il regime comunista sovietico. E adesso stiamo voltando le spalle proprio alle persone che hanno organizzato la più grande rivoluzione incruenta della storia per rimuovere quel regime” (p. 44). Davvero gli dei accecano coloro che vogliono distruggere! In questo scenario l’Unione Europea non potrebbe comportarsi in maniera più insipiente: invece di allargare l’alleanza alla Russia per costituire un Terzo polo mondiale dopo USA e Cina, si presta alle mire espansionistiche dell’USA e alla testardaggine di un capo di Stato, come Zelensky, che è stato eletto a larga maggioranza nel 2019 con la promessa di ristabilire la pace nel Donbass, senza riuscirvi, anzi allargando il conflitto nella convinzione che Putin non avrebbe rispettato nessun accordo sottoscritto (vedi proposta di mediazione del cancelliere tedesco Olaf Scholz, cinque giorni prima dell’invasione russa, a p. 66). Da parte sua, il capo della Russia sta facendo del suo peggio per elaborare un’ideologia reazionaria in funzione anti-occidentale rinforzando i legami con una Chiesa ortodossa nella cui predicazione è difficile rintracciare gli echi evangelici originari: insomma, ogni mese che passa ci avviciniamo a un baratro che ci eravamo illusi di evitare ormai per sempre. Gli appelli a fermarsi sinché si è in tempo, da parte di papa Francesco, vengono ignorati non solo (come è prevedibile) dal mondo non-cattolico e non-cristiano, ma perfino dai politici cattolici presenti nei parlamenti italiano, europeo e statunitense.

 

Augusto Cavadi

“Adista / Segni nuovi”

41 del 30.11.2024

lunedì 25 novembre 2024

LA VIDEO-REGISTRAZIONE DEL DIALOGO CON DARIO CULOT SUL SUO LIBRO DI CRISTOLOGIA

Chi desiderasse recuperare la video-registrazione del dialogo fra me e l'autore a proposito del libro di Dario Culot, Gesù questo sconosciuto. Cosa sapere prima di credergli. O di rifiutarlo, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2024, può trovarlo cliccando qui:

https://www.youtube.com/watch?v=aDUvlmgEfTg&t=129s

venerdì 22 novembre 2024

DESTRA E SINISTRA HANNO ANCORA UN SENSO ?


Né Sinistra né Destra: ma in che senso?

Il mantra ricorrente “Non c’è più né Sinistra né Destra” esprime, a seconda dell’interpretazione, un’evidenza o una baggianata. E’ evidente che, di fatto, partiti/sindacati/movimenti che si dicono di Sinistra pensano/agiscono in maniera sempre più simile ai partiti/sindacati/movimenti che si dicono di Destra. Che questa situazione effettuale, empirica, significhi che, di diritto, sia scomparso qualsiasi criterio per differenziare un’organizzazione di Sinistra da una di Destra è una madornale falsità (condivisa o per ignoranza o in malafede).

Allora che c’è di vero nell’adagio “Ormai Destra e Sinistra si equivalgono”? Che non è facile distinguere di caso in caso chi si dice di Sinistra e lo è davvero da chi si dice di Sinistra e non lo è (o lo è solo in parte insufficiente).

La linea di confine: i 3 princìpi dell’Ottantanove

Ma quale, appunto, almeno in teoria, il discrimine fra i due schieramenti (rispetto ai quali si può essere più o meno vicini e più o meno lontani)?

La risposta più convincente a me sembra la più semplice: è di Sinistra chi condivide i 3 principi della Rivoluzione francese (libertà, uguaglianza, fraternità); è di Destra chi li ritiene da contrastare (o, almeno, da limitare più possibile).

Poi, certo, ci sono mille Sinistre e mille Destre, ma la varietà delle versioni non deve farci perdere di vista il confine decisivo fra i due campi principali.

Potremmo aggiungere che la molteplicità di varianti dipende essenzialmente non dai fini, dagli scopi, quanto dai metodi, dalle strade. C’è una Sinistra rivoluzionaria e c’è una Sinistra riformista: se tengono fisso lo sguardo sulla méta unica comune, sono entrambe specie del medesimo genere. C’è una Destra reazionaria e c’è una Destra conservatrice: se tengono fisso lo sguardo sulla méta unica comune, sono entrambe specie del medesimo genere.

Logica della partecipazione versus logica della delega

Un indizio significativo per individuare, al di là delle apparenze, cosa è Sinistra e cosa è Destra mi pare stia nel ruolo che viene attribuito alla popolazione: nel primo caso si tende a supporre che la partecipazione del numero maggiore di cittadini sia da perseguire, nel secondo caso che sia preferibile la delega a un’élite di “potenti” (dal punto di vista carismatico o intellettuale o economico o militare e così via). A Sinistra si tende a enfatizzare l’iniziativa dal basso: un caso esemplare Antonio Gramsci a giudizio del quale si potevano discutere tutte le tesi di Marx, ma si restava nell’alveo marxista sino a quando si manteneva la convinzione che gli sfruttati della Terra, se uniti, possono liberarsi. Di contro una costante della Destra nel tempo è la convinzione  che le grandi questioni della storia possano risolverle solo dei “capi” (attorniati da squadre affidabili selezionate) dal momento che le maggioranze numeriche sono costitutivamente incapaci di auto-organizzarsi e di auto-emanciparsi.

Uno sguardo alla storia recente

Questa proposta analitica non è priva di conseguenze nell’interpretazione della storia degli ultimi due secoli: infatti se un governo che si dice di Sinistra scarta uno solo dei 3 principi dell’Ottantanove non va considerato di Sinistra. Ad esempio l’Unione Sovietica, che ha calpestato programmaticamente libertà e fraternità, è stato un caso evidente di “fascismo eterno” (U. Eco) rosso. Similmente se un governo non persegue la limitazione strutturale di tutti e 3 i principi dell’Ottantanove non va considerato perfettamente di Destra. Ad esempio non lo sono i governi liberal-borghesi sino a quando, pur scartando uguaglianza e fraternità, non calpestano anche la libertà: lo diventano quando, rinunziando a condizionare il potere economico dei capitalisti, annullano di fatto anche il valore della libertà (civile, politica, sociale e culturale). Gli Stati Uniti d’America, con la vittoria elettorale del duo Trump-Musk, sono a pochi passi dal completamento del processo di fascistizzazione.

Insomma se guardiamo alle etichette e ancor più ai contenuti delle politiche attuali, il nostro pianeta (non solo in Italia, in Europa e in Occidente, ma anche in Oriente: dalla Russia alla Cina) è molto più a Destra che a Sinistra.

Una prospettiva per il futuro

Se questa griglia di lettura non è del tutto infondata, il vento di Destra oggi dominante non potrà invertire direzione sino a quando le formazioni di Sinistra non affermeranno, con determinazione, i 3 principi-guida che dovrebbero caratterizzarle. Per “affermare con determinazione” intendo intervenire almeno a tre livelli:

a)     auto-convincersi che davvero non c’è libertà senza uguaglianza e fraternità; non c’è uguaglianza senza libertà e fraternità; non c’è fraternità senza libertà e uguaglianza. Invece quasi sempre ci si illude, disastrosamente, di poter intestarsi uno di questi principi trascurando (o addirittura ripudiando) gli altri. Le “dittature del proletariato” sono un tragico esempio di negazione della libertà e della fraternità; i “partiti democratici” occidentali sono un tragico esempio di enfatizzazione della libertà a scapito dell’uguaglianza e della fraternità;

b)     evidenziare la valenza utopica, simbolica, prolettica dei principi dell’Ottantanove senza ritenere (e far ritenere all’opinione pubblica) che i livelli raggiunti siano soddisfacenti. Il caso italiano è abbastanza significativo: la Sinistra sembra più concentrata nel ‘conservare’ i valori della Costituzione repubblicana che nella ‘lotta’ perché siano attuati per quella grandissima parte in cui non lo sono; la Destra appare invece ‘rivoluzionaria’ perché si appella alle ragioni della protesta popolare, sequestra delle parole preziose (come “patria”, “merito”, “giustizia”, “autonomia”…) declinandole ad uso propagandistico e si rivolge alla dimensione emotiva più che razionale degli esseri umani;

c)      provare a mostrare con la produzione normativa e soprattutto con la prassi amministrativa, in tutti gli ambiti in cui ne avesse facoltà (enti locali, regioni, Stati nazionali, organismi europei), che i principi dell’Ottantanove non sono solo (eticamente) “sacri”, ma anche (pragmaticamente) convenienti per la stragrande maggioranza (se non addirittura per la totalità) della popolazione.

In sintesi: solo il plesso consapevolezza teorica-attitudine comunicativa-coerenza operativa potrebbe consentire alla Sinistra di dimostrare che la radicale differenza rispetto alla Destra permane. E non solo sul piano delle idee.

Augusto Cavadi

* La versione originaria qui:

https://www.zerozeronews.it/ne-sinistra-ne-destra-ma-in-che-senso/

mercoledì 20 novembre 2024

LO STUPRO DI GRUPPO AL "FORO ITALICO" DI PALERMO: RISVOLTI ETICI DI UNA SENTENZA GIUDIZIARIA

 "Repubblica-Palermo"

20.11.2024

Lo scambio di opinioni fra l’ex magistrata Seminara e l’ex docente di diritto Fiandaca, a proposito della sentenza di condanna degli autori dello stupro di gruppo ai danni di una ragazza, è senz’altro utile al pubblico dei ‘profani’ per soppesare gli aspetti giurisprudenziali. Ma, al di là della prospettiva tecnica, ogni processo comporta dei risvolti culturali, simbolici, etico-politici.  Da questo angolo di visuale, a noi maschi del “Gruppo Noi uomini a Palermo contro la violenza sulle donne” preme sottolineare due o tre punti rilevanti.

Il primo è che una severa condanna lancia un messaggio significativo: la violenza di genere non è più sottovalutabile. Le attenuanti a favore dei colpevoli possono essere talmente numerose da indebolirsi a vicenda (un po’ come avviene con altre forme di criminalità, dallo spaccio di droghe all’affiliazione mafiosa): uno viene da famiglia povera, l’altro è stato viziato da famiglia ricca, l’altro ancora ha respirato in una famiglia medio-borghese un’atmosfera grigia e amorfa…

Subito dopo, però, va esplicitato un secondo punto: la condanna dev’essere severa, ma in funzione rieducativa. La logica della vendetta (in queste ore circola una frase orripilante del vice-ministro Delmastro sulla “gioia” di “togliere l’aria” ai detenuti) non è solo immorale, ma anche autolesionistica perché ai cittadini onesti conviene – utilitaristicamente – che dal carcere escano persone che abbiano avuto modo di riflettere sulla propria vita e progettare cammini alternativi. La realtà, come sappiamo quanti frequentiamo le carceri per incontrare i detenuti disposti a dialogare, è ben diversa!

Dunque il nodo centrale non è tanto la durata quanto la qualità della detenzione: questi giovani come trascorreranno gli anni di reclusione? Saranno impiegati in lavori utili e avranno  l’occasione di confrontarsi con altri uomini che provano a incarnare modelli di maschilità alternativi ai più diffusi attualmente oppure, abbrutiti dalla noia di giornate vuote, attingeranno dall’insegnamento di compagni di prigione non necessariamente ‘pentiti’ di aver sciupato la vita? Sette/otto anni sono troppi se trascorsi per incarognirsi, troppo pochi se investiti per imparare che il rispetto per le donne è il primo segno dell’onore  maschile.

Un ultimo aspetto riguarda l’opportunità di indagare lo stile di vita della “vittima” per valutare eventuali ambiguità di comportamento. Ammesso che una ragazza sia non solo poco netta nel rifiutare un rapporto sessuale, ma addirittura consenziente: tale atteggiamento legittima la sua “utilizzazione finale” da parte del maschio lucido, ricco o, in qualsiasi accezione, potente? Non sono in grado di pronunziarmi sulla normativa attuale, ma se essa prevedesse davvero delle attenuanti per l’abusante dimostrerebbe di essere arretrata rispetto alle punte più evolute della coscienza civile attuale. Infatti, se è vero che la maggior parte dei maschi ritiene moralmente accettabile ottenere con qualsiasi mezzo – tranne la violenza fisica – i favori sessuali altrui, è anche vero che movimenti diffusi da decenni in tante città (come “Maschile plurale”) ripudiano questa mentalità patriarcale, maschilista, fallocentrica e lavorano per una maschilità alternativa contrassegnata da una convinta parificazione di dignità fra i generi. Come abbiano ragionato i giudici lo sapremo a sentenza pubblicata, ma possiamo augurarci che abbiano sollecitato il diritto vigente (ius conditum) in direzione di un diritto da perfezionare secondo il progresso civile (ius condendum). 

 

Augusto Cavadi


venerdì 15 novembre 2024

LA CHIESA CATTOLICA E LA GUERRA: STORIA DI UN RAPPORTO AMBIGUO

 E' on line, scaricabile gratuitamente, il n. 70 del bimensile "Dialoghi Mediterranei", rivista dell'Istituto euro-arabo di Mazara del Vallo (Trapani).

Tra i numerosi articoli interessanti segnalo l'excursus storico-critico di Elio Rindone sul giudizio (molto oscillante) della Chiesa cattolica sulla legittimità della guerra: un intervento che esplora il passato per sollecitare i cristiani di oggi a una rottura più netta con ogni logica bellicista.

Cliccare qui:

https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/la-chiesa-condanna-la-guerra/

giovedì 7 novembre 2024

CHE NE STIAMO FACENDO DELLA NOSTRA VITA?

 

Sono soddisfatto della mia vita personale e sociale? Ogni tanto faremmo bene a interrogarci. Sappiamo che può essere doloroso perché, anche quando si avesse il privilegio di vivere un discreto equilibrio psico-fisico-economico, ci vuole una scorza davvero dura per restare indifferenti rispetto alle guerre, alle epidemie, ai disastri ecologici, alle sperequazioni tra pochissimi arricchiti e moltissimi impoveriti.

Tuttavia rimuovere, negare i motivi della propria infelicità    - uso i verbi in senso non psicanalitico perché mi riferisco a processi consapevoli e intenzionali, non inconsci – è molto più rischioso: può incarognirci. In proposito Kierkegaard ha osservato che di solito supponiamo che la gente sia infelice perché è malvagia, ma in realtà diventiamo malvagi perché siamo infelici. Dobbiamo avere il coraggio di guardare in faccia le ragioni della nostra condizione d’infelicità.

Sino a mezzo secolo fa questo coraggio era meno difficile: quasi tutti avevamo delle mappe orientative per trovare – o sperare di trovare – indicazioni salvifiche. Per uno era la politica, per un altro la religione (cristiana o orientale)…Ma oggi le “grandi narrazioni” sono in crisi. Ionesco l’ha detto con una formula fortunata: “Dio è morto, Marx è morto e – se devo essere sincero – neppure io mi trovo molto bene”. Già, neanche la chiusura a riccio si rivela risolutiva: non abitiamo più case, più o meno aperte, ma appartamenti dove ci ‘appartiamo’ in cerca di privacy; ma, come ha osservato Hanna Arendt, una vita privata è ‘privata’ di relazioni essenziali.

Da dove cominciare nel disorientamento generale? Dalla radice. Dalla nostra soggettività. “Sii tu il cambiamento che vuoi per il mondo” esortava Gandhi. La coltivazione  della propria persona, l’attenzione per farla “fiorire” (come ama dire Martha Nussbaum),  possiamo chiamarle anche “spiritualità” a patto di intendere questo termine non in un senso teologico-confessionale,   ma come dimensione antropologica universale.

 La spiritualità basica può essere rappresentata con la metafora del respiro che è costituito dal doppio movimento dell’ in-spirare e dell’ e-spirare.

Con in-spirazione alludo al movimento verso la propria interiorità: alla ricerca della quiete, del silenzio, della riflessione critica…”Tutte le disgrazie originano dalla nostra incapacità di stare fermi e zitti per dieci minuti in una stanza” recita grosso modo uno dei Pensieri di Pascal. I leader mondiali, sino ai politici locali, si concedono dieci minuti al giorno di raccoglimento meditativo? E noi ?

Il movimento verso l’interno, come nel respiro, va completato con il movimento ad extra: non si tratta di concentrarsi sul proprio ombelico, ma di recuperare le energie  per vivere intensamente la propria socialità. Ci sarebbe un vocabolo per denotare lo spettro delle nostre relazioni con l’altro – “amore” – ma è ormai inflazionato. Posso precisare che esso è polivalente e che si articola in (almeno) tre dimensioni: l’eros, l’amicizia e l’ agape. L’eros è l’amore di desiderio per qualcuno o qualcosa che ci manca, di cui abbiamo bisogno, che ci attrae svegliando le nostre passioni: l’eros sessuale ne è forse la cifra più emblematica, anche se certo non l’unica. L’amicizia   è l’amore tra pari, l’amore di reciprocità in nome di valori o interessi comuni. Tutte le culture, la cristiana in particolare, conoscono una terza versione dell’amore: l’agape, l’amore di donazione, radicato nella gratuità, dal momento che il donatore dà sapendo di non ricevere contraccambio. C’è un bel testo tibetano che, in forma metaforica, tratteggia questa forma di amore (non più elevata delle altre due, ma altrettanto necessaria per una vita spirituale matura):

 

“Offro il mio corpo perché sia consumato.

 Dono la mia carne a quelli che hanno fame,

il mio sangue a chi ha sete,

la mia pelle per rivestire gli ignudi,

le mie ossa come combustibile per chi ha freddo.

Offro la mia felicità agli sventurati,

il mio respiro vitale per rianimare i moribondi”.

 

Di questa dimensione dell’amore (in termini cristiani, anch’essi consunti dall’uso e dall’abuso, si denomina “carità”) la versione più nobile – perché più ardua – è l’attività politica. Non ignaro della lezione di altri cristiani, Paolo VI lo ha ribadito in più occasioni: “La forma più alta di carità è la politica”. L’abisso fra questo concetto di politica e la cronaca quotidiana misura abbastanza bene il grado di degenerazione civica in cui versiamo. Forse non ci sono stati nella storia epoche migliori. Ma questo non mi pare abbastanza per consolarci.

Augusto Cavadi

* Versione originaria (corredata da foto) qui:

https://www.zerozeronews.it/che-ne-stiamo-facendo-della-nostra-vita/

Gli appunti riprendono la scaletta di una mia conversazione tenuta il 6 novembre 2024 nella sede della Provincia di Messina :

https://www.messinatoday.it/cronaca/spiritualita-laica-incontro-cavadi-lute-palazzo-leoni.html

 

 

lunedì 4 novembre 2024

l'IGNORANTOLOGIA DI DAVIDE MICCIONE: VOLUME SECONDO


Il volume di Davide Miccione, La congiura degli ignoranti. Note sulla distruzione della cultura (Valore italiano editore, Roma 2024) , può essere apprezzato da più angolazioni. Intanto, a primo approccio, risulta piacevole da leggere: che un saggio di denunzia, dettato dallo sdegno,  sia scritto con stile brillante (e, perciò, accattivante)  non è pregio da poco. Inoltre, attraverso un linguaggio amaramente umoristico, veicola considerazioni serie e lancia allarmi tanto più preziosi quanto meno frequenti nel discorso pubblico.

Infatti, riprendendo e completando il suo precedente Lumpen Italia. Il trionfo del sottoproletariato cognitivo (Ipoc, Milano  2015 e poi LetteredaQalat, Caltagirone  2022), quasi a voler comporre un trattato in due tomi di “ignorantologia”, l’autore indaga sulle cause radicali del “declino cognitivo” registrabile nella società italiana (in linea, ovviamente, con quanto accade nell’area nord-occidentale del pianeta, di cui condividiamo i pochi pregi e i molti difetti).

Le famiglie, le organizzazioni sindacali, le associazioni di portata nazionale, i politici in servizio permanente effettivo hanno certamente una porzione di responsabilità (Miccione avrebbe potuto senza difficoltà aggiungere alla lista la Chiesa cattolica nella quale, tranne in pochi studiosi, la fides ha da tempo smesso di cercare l’ intellectus), ma è evidente che il ruolo decisivo è svolto dalla scuola (intesa complessivamente come sistema della formazione dei cittadini dalla scuola primaria all’università). Forse il nocciolo del ragionamento dell’autore si potrebbe tradurre e sintetizzare a partire dall’etimologia del vocabolo “scuola” che in greco suona skolé e significa propriamente otium. La scuola nasce come uno spazio di quiete, di libertà, di gratuità in cui formarsi e formare le nuove generazioni, al riparo dagli affanni e dagli affari della vita sociale, nella speranza che – quando sarà il momento di immergersi nel caos della storia – si abbiano gli strumenti per giudicare criticamente e per proporre riforme (e/o rivoluzioni) necessarie. Che cosa è diventata grazie all’opera di ministri di ogni area partitica negli ultimi decenni? La negazione dell’ozio: un unico, affollato, chiassoso neg-otium. Invece di interpretarsi come coscienza critica della società, la scuola si configura come una palestra che prepara ad entrarvi.

Miccione vede in questa degradazione l’effetto di un disegno politico perverso, ma non ne sarei così sicuro. I politici di professione che ho conosciuto un po’ più da vicino – tranne rarissimi casi -  non mi sembrano attrezzati per un’impresa così impegnativa: infatti, anche quando non mancano le doti intellettuali, difetta in loro  l’attitudine alla riflessione, alla ponderazione, al vaglio dei pareri degli esperti (per la quale sono  necessari silenzio e tempo). Più che progettare strategicamente, mi pare che i ministri sinora avvicendatisi in viale Trastevere abbiano assecondato il vento delle mode pedagogico-didattiche. D’altronde è lo stesso Miccione, in altra parte del libro, a notare come “un parlamentare, un sottosegretario, un ministro non decidono nulla. Accordi, trattati, commissioni europee, authority e organismi internazionali hanno già deciso la direzione politica da seguire” (p. 140).

Naturalmente nelle nuove proposte non tutto è da buttare come non era tutta aurea la scuola che abbiamo frequentato negli anni 50-60 del secolo scorso: il taglio pamphlettistico del libro ha probabilmente dissuaso l’autore dal sottolineare il positivo del nuovo e il negativo dell’antico, come sarebbe avvenuto in un’analisi più scientificamente asettica.

Il cuore del sistema è comunque nella classe docente che viene preparata, selezionata, assunta e mantenuta in servizio sino alla quiescenza in nome di un patto tacito: vi paghiamo poco, ma – dal punto di vista qualitativo - non pretenderemo nulla in più di ciò che ognuno/a vorrà dare. Con il risultato macchiettistico che solo a chi è estraneo al mondo della scuola può risultare inverosimile: “Il professore di filosofia a disagio con i testi di filosofia o il professore di lettere che non legge mai un libro o quello di latino che il poco latino che aveva lo ha visto arrugginirsi irrimediabilmente, sono figure più diffuse di quanto si pensi. Ovviamente si trovano in un sistema che chiede loro di rinnovare la didattica in senso tecnologico e orizzontale, oppure di occuparsi di monitoraggi, test, burocrazia, sicurezza e inclusione e mai di letteratura o filosofia o latino” (p. 88).

La situazione non è meno grave se il cannocchiale si sposta dalle scuole medie all’università dove – per un complesso convergente di cause – neppure i docenti (e, di conseguenza, gli studenti) riescono a costituire un’eccezione rispetto a quel “popolo di frenetici informatissimi idioti” di cui Franco Ferrarotti ha offerto la sociologia (p. 135).

La conclusione del volume non invita all’ottimismo, ma forse solo la durezza delle diagnosi può indurre a cercare con solerzia le ipotesi terapeutiche: “A meno di non essere già stati contagiati dal morbo idiocratico non si può far finta di ignorare che ogni anno che passa muoiono uomini formati da altri uomini e diventano adulti individui che sono stati formati alla vita e all’interazione umana da realtà artificiali e non da altri esseri umani; che hanno fissato uno schermo ben più di quanto abbiano guardato il volto di un altro (…). Quale livello di malafede o di integrazione al sistema o di stupidità si deve raggiungere per pensare che un cambiamento simile non produca nulla di radicalmente diverso e forse mostruoso?” (p. 160).

Se saggi come questo dovessero trovare accoglienza pletorica, proprio l’eventuale successo editoriale rischierebbe di costituire una smentita della denunzia in essi contenuta. Ma sarebbe triste se non entrassero a far parte della biblioteca privata di quanti – forse con presunzione, certo con sconforto – sono convinti che i drammi della storia che stiamo attraversando dipendono non da troppa teoria, bensì da teoria troppo poco critica.

Augusto Cavadi

* Per la versione originale, corredata iconograficamente, cliccare qui:

https://www.zerozeronews.it/lespansione-dellignoranza/

venerdì 1 novembre 2024

GESU’ DI NAZARETH: COSA RESTA DOPO LA CRITICA BIBLICA?

 Negli ambienti cristiani, soprattutto cattolici, lo studio scientifico dei testi biblici è stato ostacolato in tutti i modi. E a ragione. Se si ritorna alle fonti con gli attrezzi della critica moderna (come l’umanesimo rinascimentale aveva provato con intellettuali del calibro di Lorenzo Valla, Tommaso Moro ed Erasmo da Rotterdam) tutto l’impianto dogmatico e sacramentale delle Chiese così come si sono configurate - almeno dal IV secolo in poi – crolla.  Bisogna scegliere: o ci si aggrappa al cristianesimo della catechesi tradizionale perché suona confortevole, rinunziando a indagarne le radici storiche, o si è disposti a ricominciare dall’inizio con l’entusiasmo e la totale incertezza di chi sa che sta aprendo cammini inediti.

I fedeli del primo orientamento proveranno solo fastidio a leggere Il volume Gesù, questo sconosciuto. Cosa sapere prima di credergli o di rifiutarlo (Edizioni Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2024, pp. 322, euro 28,00), scritto dal magistrato di Cassazione, ora in quiescenza, Dario Culot. Per chi è già incamminato nella direzione alternativa di una rifondazione del cristianesimo a partire dal Gesù del Secondo Testamento, invece, vi troverà preziose indicazioni sia dal punto di vista destruens  che, soprattutto, dal punto di vista construens.

 

L’ottica della de-costruzione

Sin dalla Presentazione l’autore chiarisce, con il tono colloquiale ma non banale che caratterizza queste pagine, il primo dei suoi due obiettivi:

 

“Quello che qui cercherò allora di fare è togliere a Gesù quel mantello dorato che il magistero cattolico gli ha messo addosso, facendo vedere che neanche la Chiesa-istituzione è in grado di dire con certezza: «io so chi tu sei! Tu sei vero Dio e vero uomo». Immaginiamo cioè, per un attimo, che Gesù arrivi oggi in mezzo a un gruppo di vescovi a Roma, e riproponga la stessa domanda che aveva fatto a Pietro: «Chi dite che io sia?» (Mt 16,15). Tutti questi vescovi all’unisono risponderebbero, in coro, (…) : «Tu sei la seconda persona della Trinità, l’unione ipostatica della divinità e dell’umanità, tu incarni due nature nella tua unica persona (divina)». Ma siamo poi così sicuri che Gesù non resterebbe sbigottito davanti a questi astratti discorsi teologici che lo riguardano, e magari replicherebbe:  « Ma cosa state dicendo? Non capisco». Non vi sfiora mail il dubbio che, a volte, non sia stata proprio la teologia, nel corso dei secoli, a deformare il Vangelo? ” (p. 9).

 

Ogni esplorazione dell’identità dell’uomo Gesù dovrebbe partire dai “pochi dati di fatto assodati” che si riscontrano nei vangeli (canonici ed extra-canonici) pervenutici:

 

“Gesù non ha mai detto chi è, non ha mai dato definizioni di se stesso (…). Quindi l’affermazione che Gesù Cristo è figlio di Dio, nel senso che ha la stessa natura di Dio, è una professione di fede imposta dalla Chiesa, ma non c’è prova alcuna che lo possa dimostrare” (p. 21).

 

Paolo sostiene che l’uomo Gesù è costituito “messia” (o nella traduzione greca “signore”) (cfr. p. 57) dopo la morte; Marco e Giovanni anticipano questa consacrazione al momento del battesimo sul Giordano per mano di Giovanni Battista; Matteo e Luca addirittura prima della sua nascita (cfr. p. 58). E’ ragionevole supporre che in queste differenti modalità si sia espressa la convinzione della Chiesa primitiva sul fatto che “un uomo di nome Gesù ha raggiunto la pienezza della condizione umana e per questo è entrato nella sfera della condizione divina” (p. 57).

 

 

L’ottica della ri-costruzione

Ma se Il Gesù della cristologia pre-nicena (=  anteriore al Concilio di Nicea del 325 d.C.) non è Dio in senso ontologico, che ha da dirci ancora oggi? Passiamo così all’obiettivo construens propostosi dall’autore con questo intrigante volume.

 

a)     La religione – la sua religione di appartenenza anagrafica e, per analogia, ogni religione in quanto tale – va sostituita con una proposta alternativa:

 

“Dobbiamo renderci conto che il progetto di Gesù da una parte, e il progetto della religione dall’altra, sono due progetti che non hanno potuto conciliarsi né armonizzarsi. Questo vuol dire che si tratta di due progetti incompatibili. E sono incompatibili perché nel progetto della religione il centro determinante di tutto sta nel sacro, con la sua dignità, il suo potere, le sue norme, le sue proibizioni; invece nel progetto di Gesù il centro di tutto sta nell’umano, nel rispetto verso tutti, siano o non siano religiosi, abbiano o non abbiano credenze, siano persone buone o cattive, siano ortodossi o eterodossi, siano ebrei, musulmani o cristiani. Ed è anche un progetto che ha il suo centro nella dignità e felicità delle persone, nella gioia di vivere, nel piacere e nel godere di tutto il bello e il buono che Dio ha messo nella vita. Invece, grazie all’insegnamento che abbiamo ricevuto, quando si parla di Dio, per la gente è più facile associare Dio al dolore, alla sofferenza, alla penitenza piuttosto che associarlo alla felicità, alla gioia, all’allegria. Associare Dio al piacere sembra  quasi una bestemmia” (p. 195).

 

b)     E’ nota l’obiezione a questa prima notazione cristologica: così non si “riduce” il vangelo a mera filantropia ?

Si potrebbe rispondere che se una proposta di vita non è “almeno” filantropica non è degna di essere accolta ragionevolmente. Il cristianesimo dogmatico-istituzionale non è stato certamente contrassegnato da univoco filantropismo e sino ai nostri tempi assistiamo a conflitti di matrice teologica (o almeno sbandierati come tali) fra confessioni cristiane diverse (ad esempio cattolici e protestanti in Irlanda) o addirittura all’interno della stessa confessione (ad esempio fra ortodossi russi e ortodossi ucraini).

Ma anche nell’ottica delle fede tradizionale, a partire dal Secondo Testamento, l’amore “orizzontale” verso il prossimo è stato considerato segno autenticatore dell’amore “verticale” verso l’Invisibile: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Giov. 13, 34 – 35).

Culot, però, sulla scia di alcuni predecessori, va oltre. L’amore per l’umanità non è solo il presupposto minimo di qualsiasi eventuale proposta teologica né soltanto il banco di prova dell’autenticità di ogni eventuale unione mistica con il Divino: egli sostiene che è proprio in quanto essere-per-l’altro che Gesù rivela il massimo del pochissimo che possiamo conoscere di Dio. Insisto un po’ su questo passaggio che mi risulta particolarmente originale.

c)      La “regola d’oro” di tantissime etiche è di fare agli altri ciò che si vorrebbe da loro, dunque del bene in tutte le modalità necessarie e opportune. Ma secondo i vangeli la prassi amorevole di Cristo possiede un significato originale, peculiare: essa allude, esprime, rende  percepibile qualcosa dell’atteggiamento di Dio stesso verso l’umanità. Essa veicola il messaggio che

 

“non è vero che Dio discrimina le persone e allontana da sé gli impuri e i peccatori, ma l’amore di Dio è rivolto a tutti” (p. 56).

 

d)     Troppo poco questo sull’identità divina? Indubbiamente meno di quanto la Chiesa abbia avuto la pretesa di raccontare:

 

“Quando si parla di Dio, sembra che la Chiesa sappia tutto: è l’Essere Spirituale Perfettissimo, Soprannaturale (cioè collocato su un piano superiore), Trinitario, Onnipotente, Maschile, Creatore del cielo e della terra, Salvatore, Redentore, Liberatore, Giudice severo ma giusto. Io preferisco la definizione di Dio tratta dalle Upanishad vediche indiane: Non questo, non quello, perché non si può prendere, non si può legarlo, non si può trattenerlo.

L’antica India da millenni c’insegna che, se arriviamo ad avere un concetto preciso e definitivo di Dio, se lo definiamo, questo non è più Dio. E’ solo una rappresentazione di Dio che noi ci siamo costruiti nella nostra mente, perché  Dio resta misterioso” (p. 7).

 

e)      Questo “poco” assomiglia a quel che un animale domestico di compagnia, o anche un neonato, sa (o meglio sente) di un adulto umano che lo abbia preso in carico: di essere in buone mani.

 

“Probabilmente anche noi dovremmo fermarci qui nel nostro rapporto uomo-Dio: Gesù, divulgando la Buona notizia, ci ha fatto sapere che Dio ci ama e che ci si può fidare di Lui; non molto altro ci ha detto Gesù di Dio in tutta la sua vita. Tutto il resto ce l’ha detto il magistero. A questo punto sarebbe forse meglio fare come aveva ammonito Ludwig Wittgenstein: «Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere» ” (pp. 7 – 8).

 

Obiezioni a Dario Culot

Poiché il discorso di Culot è indubbiamente di grande rigore logico e di altrettanto grande onestà intellettuale invita il lettore a reagire con proporzionale senso critico e a formulare delle domande.

Molte obiezioni, perplessità, vere e proprie aggressioni egli le ha effettivamente registrate negli incontri pubblici e nella corrispondenza privata durante gli anni precedenti alla pubblicazione di questo testo. Alcune di queste osservazioni critiche sono state raccolte nella Parte II del volume (pp. 197 – 320): ad esempio, dal momento che “la formula Gesù è vero Dio e vero uomo è dogmatica, e non è lecito mettere in discussione un dogma”, “come fa a mettere in dubbio un dogma ?” (p. 228); oppure: “Lei dice che Dio si manifesta in Gesù, senza che Gesù sia Dio, e che Gesù non ha mai detto di essere Dio. Ma come è venuta allora fuori, fra i cristiani, l’idea della divinità di Gesù che Lei nega?” (p. 299).

Le domande riportate nel libro, a cui l’autore risponde con molte pagine in maniera sempre pacatamente argomentativa, provengono tutte da un pubblico di cattolici credenti e praticanti. Evidentemente ne sono possibili altre da versanti ‘esterni’ all’ambito cattolico[1] e, in particolare, mi pare se ne imponga una centrale. Per Culot del Mistero che chiamiamo Dio non sappiamo nulla, tranne quel pochissimo/moltissimo che ce ne ha raccontato Gesù di Nazareth: che non è un Principio antropomorficamente raffigurabile come sovrano giusto e implacabile, ma una Fonte inesauribile di tenerezza, cura, misericordia. Questa “buona notizia” (evangelo) è frutto non di un’autorivelazione di Dio (come si affermava quando si vedeva in Cristo l’incarnazione della Parola stessa divina) bensì dell’intuizione teologica di un rabbi palestinese (dalla vita interiore intensa e certamente informato del filone profetico biblico): dunque, la si può accogliere o meno, ma non senza sottoporla al setaccio della ragionevolezza.  Il che, nel XXI secolo, significa chiedersi se si possa credere in un Dio amorevole nonostante l’oceano di sofferenze in cui siamo immersi. Non si tratta solo, o principalmente, dei mali evitabili che l’umanità è così brava nell’infliggersi o nel non saper evitare, ma di quelle sofferenze inevitabili a cui tutti i viventi senzienti siamo esposti nel nostro pianeta (non sappiamo altrove) dalle tremende leggi dell’evoluzione. Per quanta ammirazione, simpatia, devozione si possa provare per il Maestro, come fare a condividere la sua fede in un Padre attento e benevolo che si occuperebbe di ciascun essere umano, anzi di ciascun uccello del cielo e di ciascun giglio dei campi? Tante volte ho ascoltato la risposta a questi dubbi laceranti (e talora geni sommi come Dostoevskij l’hanno saputa formulare in parole di fuoco): se Gesù si sbaglia, se l’Assoluto non è come lo presenta egli, l’alternativa logica è il nichilismo. Se a Fondamento dell’universo non c’è nessun principio Intelligente né ancor meno Amorevole, che senso ha per ciascuno di noi (ma prima ancora per la grande famiglia dei viventi senzienti di cui siamo parte) venire alla luce e, tra difficoltà e travagli d’ogni genere, trascinare un’esistenza precaria che troppo presto s’interrompe con la morte? Che valore hanno i nostri pensieri, le nostre scelte, i nostri slanci di eroismi, le nostre colpe imperdonabili… se siamo dentro un flusso senza Alfa e senza Omega? E’ certo che un tempo non esisteva l’homo sapiens, anzi neppure la vita biologica, anzi neppure il pianeta Terra; ed è altrettanto certo che tra un certo tempo non esisterà più né l’umanità né altri viventi né la stessa Terra. Tra l’inizio e la fine la somma delle sofferenze più strazianti sarà compensata dalla somma delle ore gioiose, o per lo meno serene, vissute da noi animali senzienti?

Se l’opzione è tra la “buona notizia” di Gesù e la “cattiva notizia” di Morin (“Tutti i viventi sono gettati nella vita senza averlo chiesto, sono promessi alla morte senza averlo desiderato. Vivono tra nulla e nulla, il nulla prima, il nulla dopo, circondati dal nulla durante”[2]), come negare che la seconda ha dalla sua la conferma dell’esperienza (per lo meno scientifica e collettiva se non individuale)?  Si può accogliere il vangelo solo per evitare la disperazione, il senso di angoscia e di frustrazione all’idea sartriana che “ogni esistenza nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione”[3]? Per me filosofo sarebbe il rinnegamento radicale della tensione verso la verità.  Perciò sono convinto che - dal punto di vista teoretico, cognitivo - l’annunzio cristiano  sia irricevibile: non si può accettare una teoria dell’universo solo perché non si avrebbe la forza di vivere secondo quanto l’intelligenza – debitamente coltivata – ci attesta. L’uomo adulto del XXI secolo potrà far sua l’intuizione stupenda e incoraggiante di Gesù solo quando essa sarà integrata e supportata da un contesto dimostrativo (o per lo meno di un apparato di contro-obiezioni) che, sinora, a mia conoscenza, nessuno ha saputo offrire. Gesù per primo non ha dato, non ha voluto dare e probabilmente (estraneo com’era alla mentalità speculativa greca) non avrebbe potuto dare nessuna argomentazione razionale/ragionevole su come conciliare  l’idea di un Dio Amorevole con i disastri dolorosi che si registrano nel piccolo, nel medio e nel grande ogni volta che apriamo gli occhi sull’universo. Intesa come via verso la Verità, la fiducia esistenziale nel vangelo non solo non esclude ma – in linea di diritto – esige un lavoro intellettuale immenso e incessante (a tutt’oggi lontano dall’essere compiuto) affinché la si possa esercitare al di là della logica, non contro la logica[4]. A mio avviso, il vangelo non va ellenizzato, metafisicizzato; ma accoglierlo e provare a viverlo rientra nella sfera esistenziale, fuori della quale permangono domande ontologiche e cosmologiche cui solo la filosofia, in stretto dialogo con le scienze, può tentare di offrire risposte (ovviamente parziali e provvisorie).

 

Una possibile prospettiva interpretativa

Ma allora il cristianesimo è, ab ovo, tutto un inganno (o comunque una proposta che può risultare tanto veridica quanto ingannevole)? Nelle pagine del suo volume Culot non affronta, esplicitamente e frontalmente, questo dubbio cruciale. Però, se non erro, apparecchia tutti gli elementi per inquadrarlo da una prospettiva diversa, molto più fedele all’ottica dei primi cristiani. Infatti, finché restiamo nella mentalità critica dei figli di Atene, il nodo (almeno sino ad oggi) appare insolubile . Ma pur avendo il diritto – anzi, prima ancora il dovere – di rispettare le esigenze della ragione, possiamo anche ammettere che nelle varie culture dell’umanità sono possibili altri orizzonti, altri paradigmi. Nella mentalità ebraica di Gesù e dei discepoli, ad esempio, la preoccupazione prevalente non è di ordine intellettuale, bensì operativo. Per i figli di Gerusalemme non si tratta di convincere (se stessi e gli altri) della tesi filosofico-teologica che all’origine del tutto vi sia un Principio vitale generoso, bensì di ‘vivere’ secondo questa convinzione: di testimoniarla, di metterla a frutto nella concretezza della visibilità storica.

            Infatti,

 

“il cristianesimo non è un sistema di nozioni, bensì una via da seguire, tracciata da una persona in carne ed ossa. Ecco perché ho detto che il centro del cristianesimo è la sequela dell’uomo Gesù. Gesù, su questa terra, ci ha fatto conoscere Dio, non rivelando la vera natura del suo essere, ma vivendo in un certo modo. Quella di Gesù non è sta perciò una lezione magistrale sui concetti filosofici di ousia, physis, prosopon, hypostasis ecc., ma una storia nella quale quel modesto galileo, povero di mezzi ma ricco di umanità, ha presentato per l’appunto un progetto di umanità, è vissuto in un modo ben preciso, si è relazionato con la gente in maniera tale da attrarre alcuni e respingere altri, ha espresso con chiarezza le sue preferenze e i suoi valori ecc. In questo modo Gesù ci ha rivelato Dio, senza mai analizzare categorie metafisiche od ontologiche” (p. 62).

 

           Il Secondo Testamento vacilla quando, condizionato dalle influenze greche, vuole spiegare l’inspiegabile: come sia possibile che un Dio infintamente buono abbia potuto creare un universo dove non c’è divenire senza scarti, non c’è evoluzione senza vittime, non c’è progresso senza tragedie. Molto più convincente quando testimonia, con gesti, azioni, opere che Dio è dalla stessa parte degli esseri umani nella lotta contro il male in tutte le sue molteplici forme, senza sbilanciarsi nel (vano) tentativo di spiegare l’origine e il senso di questa lotta millenaria. Se Dio è il Creatore dell’universo, se “esso è suo possesso assoluto ed egli ne è il Signore assoluto” (p. 59), ci è debitore di molte risposte sulla inesauribile miniera di dolore da cui l’universo sembra attingere il combustibile per vivere e progredire. Con Gesù queste risposte non arrivano, ma “questo concetto di Dio cambia, perché egli ci presenta Dio in modo completamente nuovo: Dio non è più il padrone assoluto, ma è il servitore, o meglio il diacono della vita: «Io sono venuto per servire e non per essere servito» (Mc 10,45)” (p. 59). Gesù si fa – o per lo meno viene interpretato dai primi discepoli – come icona, plastica e vivente, del Mistero invisibile,

 

“non inculcando dogmi, non imponendo di credere al catechismo, non imponendo pratiche religiose. L’ha fatto, da vero servitore della vita, chiamando alla vita, mostrandosi più umano e rendendo anche gli altri non più religiosi, ma più umani, perché quando siamo pienamente umani diventiamo anche noi – come lui – un canale di ciò che è pienamente divino, di quell’amore misterioso che diffonde la vita” (pp. 63 – 64).

 

Essere cristiano oggi

Se essere cristiano oggi non significa appartenere necessariamente a una determinata Chiesa (in senso istituzionale) né condividere un’idea chiara e distinta del Mistero divino né avere ragioni a supporto della fede nella Bontà divina (poiché, se tali ragioni ci sono, è in quanto pensatore che può trovarle, non in quanto credente), cosa resta di specifico?

In un certo senso, nulla. Il cristiano non è un tipo particolare di essere umano: è uno di quei  “laici” (= membro del popolo, della grande famiglia terrestre) che vogliono capire se la vita ha un senso e, sul versante etico, liberarsi e liberare i simili da ogni dis-umanità.

In un altro senso, il cristiano è caratterizzato in maniera peculiare, se non addirittura esclusiva. Egli si auto-interpreta come uno che, sulle orme di Gesù, nel perseguire la pienezza umana, in sé e negli altri, ritiene di rendere visibile e tangibile nella storia l’Amore originario che chiamiamo anche “Dio”. Egli dà un’interpretazione specifica e speciale alla sua prassi (che, in quanto prassi agapica, è potenzialmente condivisibile da ogni altro essere umano), ma sapendo che a costituire il fattore basilare e prevalente sia la prassi, non certo l’interpretazione che di essa ne dà:

 

“La comunità cristiana non può e non deve essere un circolo intellettuale, dove si discute di argomenti teologici astratti, magari anche molto profondi e interessanti, disancorati però dal Vangelo che, lungi dall’essere una dottrina, è una testimonianza di una comunità che si è vista trasformata dalla sequela di Gesù, cioè da un’esperienza che ha vissuto stando accanto a Gesù, attraverso la quale ha scoperto che Gesù è il Messia atteso, il Figlio di Dio (Gv 20, 31) in senso messianico. Da questa esperienza nasce la volontà di continuare su quella strada” (pp.55 – 58).

 

Una strada che può portarci molto più in là dell’essere “servi fedeli” di Dio, ma “amici”, anzi “figli” del Padre (Gv 15,15):

 

“Sequela significa voler assumere la forma di Gesù, che vediamo come la miglior forma di uomo possibile. Sequela è allora credere non ai dogmi, ma che il Dio di Gesù è al nostro fianco – se uno lo vuole – per aiutarci a raggiungere quella forma che ha assunto il figlio. (…) Il progetto della sequela di Gesù è il progetto della libertà al servizio della misericordia. In questa formula si trovano il cuore stesso del Vangelo e la sua sorprendente attualità” (p. 56 con rimando a un commento di J. M. Castillo a Lc 9, 51 – 62).

 

“Senza sequela non si è discepoli. Gesù chiede adesione alla sua persona, non a dottrine, sì che la conoscenza di Gesù è pratica quotidiana, è farsi plasmare dai suoi comportamenti, non è conoscere la dottrina cristiana insegnata dalla Chiesa e poi credere che questa conoscenza ci salvi” (p. 64).

 

Più di una volta ho ascoltato da parte di cattolici istruiti (per la verità più nelle discipline professionali che in teologia) che questo identikit del cristiano sarebbe d’impronta irrazionalistica e basato su una visione riduttiva e fuorviante del Gesù storico. In effetti egli era anche un rabbi, un conoscitore delle Scritture e un predicatore efficace né abbiamo prova alcuna di una sua postura anti-intellettuale. Chi si appella ai vangeli per attaccare il dono e la responsabilità della ricerca teoretica, del pensiero metodico, o è poco informato o è in cattiva fede. Solo che – in sintonia con la mentalità ebraica – egli ha giocato un altro gioco ed ha scelto di essere (o per lo meno così è stato recepito) uno che parla facendo, che annunzia attraverso gesti concreti, che predilige la testimonianza rispetto all’insegnamento. E’ per questo che un fisico nucleare o un compositore musicale, un filosofo o un politologo possono benissimo essere bravi cristiani, ma non grazie alla musica che producono o alle scoperte che realizzano: la loro “fede” sarà valutabile sul metro dell’agape, della donazione costante, della generosità nell’impegno per il bene comune. Dunque non necessariamente sarà nota ai contemporanei, prossimi o lontani. Don Cosimo Scordato, un amico che ha insegnato per decenni teologia sistematica, adesso che come noi coetanei sta tirando un po’ le somme di una lunga e appassionata ricerca, è pervenuto alla conclusione che, dal punto di vista biblico, sarebbe preferibile sostituire alla dicotomia credente/non credente il binomio amante/non amante.

In ogni caso la sequela cordiale e pro-attiva non può identificarsi, come per secoli ha insegnato la Chiesa cattolica, con una separazione fisica dal contesto sociale (per esempio scegliendo l’eremitaggio o entrando in un ordine cenobitico)[5]:

 

“Il vero dilemma posto da Gesù non consiste nello scegliere tra l’amore a Dio e l’odio per il mondo terreno []. Il vero dilemma è scegliere fra la nostra «umanità disumanizzata o l’umanità piena» sempre presente in Gesù. In questo punto stiamo toccando il nocciolo stesso della sequela di Gesù. Seguace di Gesù è solo chi è pienamente umano così da superare e vincere ogni possibile disumanizzazione (Lc 14, 25). Nulla dunque di astrattamente religioso, ma tutto concretamente terreno e profano” (p. 66).

 

Un’ultima annotazione mi pare opportuno aggiungere per restituire l’affresco di Culot in misura meno incompleta.

Per chi si ritiene cristiano, il rapporto con il Divino passa, anche e soprattutto, attraverso la partecipazione alla prassi di Gesù e dei suoi più fedeli seguaci nei secoli: ma questa fede attiva, operativa, non ha nessuna pretesa di esclusività[6], dal momento che ogni essere umano può trovare i suoi canali per unirsi all’Assoluto (o per prendere consapevolezza del suo esser-già-da-sempre in rapporto con l’Assoluto). Questa apertura mentale, opposta a ogni tendenza fondamentalista, il cristiano la adotta non per cedimento alle mode relativistiche che tanto preoccupavano papa Benedetto XVI (come se fosse “irragionevole affermare che tutto nella storia è relativo, tranne Dio”, p. 41), quanto per fedeltà al magistero gesuano che, stando ai testi evangelici,

 

“rifiuta ogni assolutismo che cerca di monopolizzare come l’unica via di accesso a Dio la propria: ecco perché Dio non va adorato né nel monte Garizim come facevano i samaritani, né a Gerusalemme come facevano i giudei, essendo invece entrambi sicuri di essere gli unici adoratori del vero Dio (Gv 4,21). L’importante è essere aperti e pronti ad accogliere lo Spirito, come fanno la donna siro-fenicia (Mc 7, 26 ss) o il centurione pagano (Mt 8, 5 ss). La fede può essere grande anche senza profonde comprensioni teologiche e senza grandiose celebrazioni. E agli apostoli, che non avendo capito nulla di Gesù vogliono proteggere il monopolio di essere solo essi gli unici veri seguaci di questo maestro, Gesù dirà: «Chi non è contro di voi è con voi » (Mc 9, 40) (p. 54).

Augusto Cavadi

La versione originaria, con apparato iconografico, a questo link:
https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/gesu-di-nazareth-cosa-resta-dopo-la-critica-biblica/

[1] Ad esempio ci sarebbe da discutere a fondo se davvero si possa prevedere/auspicare la fine di ogni religione in quanto tale o se non sia più realistico concentrarsi sulla revisione radicale delle religioni storiche dal momento che, ogni volta che si è tentato di cancellarle (come nei regimi totalitari di Destra e di Sinistra nel XX secolo), sono state sostituite da nuove strutture religionali ancora più dogmatiche, disumane e intolleranti delle antiche.

[2] E. Morin – A.B. Kern, Terra – patria, Cortina, Milano 1994, p. 104.

[3] J. P. Sarte, La nausea, Mondadori, Milano 1965, p. 191.

[4] Culot stesso, che pur denuncia più di una volta (con ragione) l’ellenizzazione metafisica del cristianesimo, ogni tanto avverte la necessità di supportare il kerigma evangelico con delle considerazioni filosofiche: “Dobbiamo convincerci che Dio, come creatore, offre possibilità, ma non si sostituisce alle creature. E tutte le cose create sono limitate: non solo l’uomo, ma tutta la natura è limitata, per cui la materia in sé non può esistere per sempre, e anche il male della natura (terremoti, frane) si spiega con questa limitazione” (p. 101). Purtroppo queste considerazioni mi sembrano sufficienti per conciliare l’idea di un Dio-Amore con i limiti fisici delle “creature”, ma non con le atrocità che da milioni di anni accompagnano l’evoluzione degli esseri senzienti, sino alle malformazioni genetiche dei neonati odierni. Sulla scia di Tertulliano o di Kierkegaard si potrebbe dire che la visione del mondo cristiana va accettata nonostante sia assurda, anzi proprio perché assurda: ma è un “sacrificio” dell’intelletto che molti (Culot compreso) non riteniamo di poter consumare per rispetto della nostra dignità e dell’eventuale Creatore che – attraverso le vie dell’evoluzione – ce ne avrebbe fatto dono.

[5] Vedi in proposito la lettura critica della vicenda di Tommaso Moro in H. Küng, Libertà nel mondo, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2014.

[6] Culot cita in proposito una poesia di Tagore (pp. 69 – 70) e un detto attribuito al celebre monaco buddhista Thich Nhat Hanh: “Il vero miracolo non è camminare sull’acqua o camminare nell’aria, ma semplicemente camminare su questa terra e farla fiorire dove sei passato” (p. 69).