Dopo
la Seconda guerra mondiale la mia generazione ha avuto il privilegio di essere
la prima nella storia dell’umanità a non sperimentare personalmente la tragedia
della guerra, ma è stato un privilegio riservato solo alla popolazione di
alcune nazioni come l’Italia: fuori da queste oasi il pianeta, quasi nella sua
totalità, è stato devastato da centinaia di conflitti bellici (sia interni agli
Stati che tra gli Stati). Anzi lo stesso esercito italiano ha partecipato a
operazioni di guerra in varie zone del mondo, compreso il Kossovo a poche
centinaia di chilometri: solo che le ha travestite da operazioni di pace…
Questa
onnipresenza costante della guerra nella storia è da sola un ostacolo quasi
insormontabile verso la pace: infatti nella mentalità dominante prevale la
convinzione che la guerra sia fisiologica, non patologica. “C’è sempre stata:
dunque, ci sarà sempre” – è il ritornello più insistente.
Allora
le donne di Palermo che, dal 2022, ogni mese si riuniscono in una piazza con lo
striscione ”Fuori la guerra dalla storia” sono delle ingenue utopiste? Dipende
se intendiamo utopia come sogno irrealizzabile o come progetto realizzabile
progressivamente e forse mia del tutto compiutamente. Solo due secoli fa
affermare che la schiavitù era da estromettere dalla storia suonava come utopia
in senso negativo; oggi sappiamo che non lo è, anche se è vero che essa non è
stato eliminata né completamente (rimane di fatto, anche se non di diritto) né
definitivamente (un potere politico totalitario la potrebbe ripristinare con
buone probabilità di consenso maggioritario).
Uno
dei pensatori italiani più saggi del Novecento, Norberto Bobbio, ha sostenuto
(nel suo più volte riedito Il problema della guerra e le vie della pace,
Il Mulino, Bologna 2022) che ci sono tre vie principali per la pace mondiale e
che possiamo sperare di raggiungere l’obiettivo se le pratichiamo
convergentemente, non alternativamente.
La
prima è la via militare-diplomatica basata sugli equilibri delle potenze: se
ogni Stato, o comunque gli Stati-guida, posseggono su per giù gli stessi
armamenti (tra cui le bombe atomiche) è probabile che a nessuno di essi
convenga scatenare la guerra.
Questa
via ha due difetti: non può escludere in assoluto che l’improbabile accada (e
che la quarta guerra mondiale venga combattuta, secondo l’espressione di
Einstein, a colpi di clava) e, soprattutto, che la guerra venga scatenata con
tutte le armi possibili tranne le atomiche.
La
seconda via è giuridico-istituzionale. Questa forma di pacifismo è figlia di
una lunga tradizione: lo si fa spesso cominciare col trattato di Kant Per
la pace perpetua (1795), ma in realtà affonda le sue radici nei primi
autori del giusnaturalismo moderno e ne ritroviamo delle interessanti
anticipazioni in Erasmo da Rotterdam. “L’idea di fondo di questa tradizione è
che il modo più efficace per garantire la pace tra due o più parti
confliggenti sia costruire istituzioni giuridiche capaci – cioè
aventi l’autorità – di decidere sulle ragioni del conflitto stesso” (T. Greco, Bobbio
e la pace necessaria, www.rivistailmulino.it, 5.3.2022). Una soluzione di questo tipo richiede che
i soggetti coinvolti rinuncino ad una parte importante della propria sovranità
e siano disposti ad entrare con gli altri in una unione sovrastatuale, come è
avvenuto negli Stati Uniti d’America e come avevano proposto i padri
dell’Unione europea fin dal Manifesto di Ventotene. Bobbio è
convinto sin da giovane che «il federalismo è il principio più profondamente
innovatore dell’età contemporanea»: solo
un patto federativo tra le nazioni può autorizzare il Terzo a
intervenire, allo stesso modo in cui lo Stato interviene all’interno di un
territorio definito.
Sappiamo
che l’Onu, pur segnando un progresso rispetto alla Società delle Nazioni,
costituisce un abbozzo di ciò che si dovrebbe realizzare per arrivare a
istituzioni autenticamente efficaci. Da qui la necessità di una terza via,
“etico-finalistica”, fondata sulla capacità umana di evolversi moralmente sino
ad arrivare a ritenere universalmente ripugnante ciò che in ere anteriori era
praticato abitualmente: ad esempio il cannibalismo. Qui la parola deve passare
da Bobbio a un suo caro amico e collega, Aldo Capitini, teorico e operatore
della “nonviolenza”. Il filosofo perugino – in sintonia con altri grandi
esponenti della nonviolenza – chiarisce alcuni equivoci semantici: primo fra
tutti l’identificazione di “conflitto” (inevitabile e talora trasformativo) e
“guerra”, che è “la patologia del conflitto, la sua degenerazione violenta” (V.
Bartolucci, Costruire la pace, www.rivistailmulino.it , 11.6.2022). Inoltre
vanno
distinte “forza” (che non è necessariamente violenta) e “violenza” (che spesso non è indice di
forza). “Anche l’aggressività, spesso confusa con la violenza, in realtà va
distinta da essa. Come ci insegnano gli psicologi, si può essere aggressivi
senza essere al contempo violenti. Se non controllata, l’aggressività può
certamente sfociare in violenza, ma, se gestita può trasformarsi in
determinazione. La distruttività, insomma, è solo uno degli esiti dell’aggressività
che, opportunamente incanalata, può essere vitale, creativa e funzionale”
(ivi).
Solo
alla luce di queste delucidazioni concettuali e linguistiche si possono leggere
vari episodi storici, come la resistenza nonviolenta dei danesi all’invasione
nazista, che attestano come, “se è indubbiamente vero che la nonviolenza non
sempre funziona (…) è altrettanto vero che riesce a conseguire la maggior parte
degli obiettivi prefissati più spesso di quanto non faccia la violenza” (ivi).
Essa può essere vista come “un ponte immaginario tra il passato definito dalla
guerra, che non dovrebbe esserci più ma che c’è ancora, e il futuro, la nuova
società che non c’è ancora ma a cui tendiamo” (ivi).
Non
è facile, quando già si è immersi nella piena di una guerra, indicare strategie
concrete per uscirne: ma è sicuro che non si troveranno se non si cercheranno,
convinti che non ci siano alternative tra uccidere e arrendersi. Invece, “i
grandi maestri della nonviolenza ci hanno insegnato che la nonviolenza non è
semplice rifiuto o mera astensione dalla violenza, né resistenza passiva. Al
contrario, è qualcosa di positivo, un fare”, un “trattare l’altro come un
essere umano” allo scopo di “riuscire a spostare l’equilibrio morale e, con
esso, l’equilibrio di potere” (ivi). Coloro che la praticano “sono spesso
tacciati di essere ingenui, pericolosi o addirittura codardi”, laddove forse
adottano “l’unica risposta razionale, lungimirante e possibile per una società
veramente pacifica. Certo, le numerosissime pratiche di pace, portate avanti
ogni giorno e necessarie anche a creare una cultura di pace, rimangono ancora
ai margini, oscurate dal fracasso della chiamata alle armi. Sta a ognuno di noi
dare loro una voce” (ivi).
In
un’ottica preventiva, oggi gli uomini italiani tra i 18 e i 40 anni (la cui
leva militare obbligatoria è stata ‘sospesa’ non ‘abolita’) possono compiere un
gesto concreto: dichiararsi obiettori di coscienza in caso di chiamata alle
armi. Sul sito del Movimento Nonviolento c’è già un modulo predisposto da
compilare e spedire con un clic: https://www.azionenonviolenta.it/obiezione-alla-guerra-2/
Augusto
Cavadi
Centro
palermitano del Movimento Nonviolento
Versione
originaria qui: https://www.girodivite.it/Un-piccolo-gesto-concreto-contro.html
1 commento:
Grazie di queste preziose riflessioni.
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