sabato 12 ottobre 2024

UN GESTO CONCRETO CONTRO OGNI GUERRA IMMINENTE


Dopo la Seconda guerra mondiale la mia generazione ha avuto il privilegio di essere la prima nella storia dell’umanità a non sperimentare personalmente la tragedia della guerra, ma è stato un privilegio riservato solo alla popolazione di alcune nazioni come l’Italia: fuori da queste oasi il pianeta, quasi nella sua totalità, è stato devastato da centinaia di conflitti bellici (sia interni agli Stati che tra gli Stati). Anzi lo stesso esercito italiano ha partecipato a operazioni di guerra in varie zone del mondo, compreso il Kossovo a poche centinaia di chilometri: solo che le ha travestite da operazioni di pace…

Questa onnipresenza costante della guerra nella storia è da sola un ostacolo quasi insormontabile verso la pace: infatti nella mentalità dominante prevale la convinzione che la guerra sia fisiologica, non patologica. “C’è sempre stata: dunque, ci sarà sempre” – è il ritornello più insistente.

Allora le donne di Palermo che, dal 2022, ogni mese si riuniscono in una piazza con lo striscione ”Fuori la guerra dalla storia” sono delle ingenue utopiste? Dipende se intendiamo utopia come sogno irrealizzabile o come progetto realizzabile progressivamente e forse mia del tutto compiutamente. Solo due secoli fa affermare che la schiavitù era da estromettere dalla storia suonava come utopia in senso negativo; oggi sappiamo che non lo è, anche se è vero che essa non è stato eliminata né completamente (rimane di fatto, anche se non di diritto) né definitivamente (un potere politico totalitario la potrebbe ripristinare con buone probabilità di consenso maggioritario).

Uno dei pensatori italiani più saggi del Novecento, Norberto Bobbio, ha sostenuto (nel suo più volte riedito Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna 2022) che ci sono tre vie principali per la pace mondiale e che possiamo sperare di raggiungere l’obiettivo se le pratichiamo convergentemente, non alternativamente.

La prima è la via militare-diplomatica basata sugli equilibri delle potenze: se ogni Stato, o comunque gli Stati-guida, posseggono su per giù gli stessi armamenti (tra cui le bombe atomiche) è probabile che a nessuno di essi convenga  scatenare la guerra.

Questa via ha due difetti: non può escludere in assoluto che l’improbabile accada (e che la quarta guerra mondiale venga combattuta, secondo l’espressione di Einstein, a colpi di clava) e, soprattutto, che la guerra venga scatenata con tutte le armi possibili tranne le atomiche.

La seconda via è giuridico-istituzionale. Questa forma di pacifismo è figlia di una lunga tradizione: lo si fa spesso cominciare col trattato di Kant  Per la pace perpetua (1795), ma in realtà affonda le sue radici nei primi autori del giusnaturalismo moderno e ne ritroviamo delle interessanti anticipazioni in Erasmo da Rotterdam. “L’idea di fondo di questa tradizione è che il modo più efficace per garantire la pace tra due o più parti confliggenti sia costruire istituzioni giuridiche capaci – cioè aventi l’autorità – di decidere sulle ragioni del conflitto stesso” (T. Greco, Bobbio e la pace necessaria,           www.rivistailmulino.it, 5.3.2022). Una soluzione di questo tipo richiede che i soggetti coinvolti rinuncino ad una parte importante della propria sovranità e siano disposti ad entrare con gli altri in una unione sovrastatuale, come è avvenuto negli Stati Uniti d’America e come avevano proposto i padri dell’Unione europea fin dal Manifesto di Ventotene. Bobbio è convinto sin da giovane che «il federalismo è il principio più profondamente innovatore dell’età contemporanea»: solo  un patto federativo tra le nazioni può autorizzare il Terzo a intervenire, allo stesso modo in cui lo Stato interviene all’interno di un territorio definito.

Sappiamo che l’Onu, pur segnando un progresso rispetto alla Società delle Nazioni, costituisce un abbozzo di ciò che si dovrebbe realizzare per arrivare a istituzioni autenticamente efficaci. Da qui la necessità di una terza via, “etico-finalistica”, fondata sulla capacità umana di evolversi moralmente sino ad arrivare a ritenere universalmente ripugnante ciò che in ere anteriori era praticato abitualmente: ad esempio il cannibalismo. Qui la parola deve passare da Bobbio a un suo caro amico e collega, Aldo Capitini, teorico e operatore della “nonviolenza”. Il filosofo perugino – in sintonia con altri grandi esponenti della nonviolenza – chiarisce alcuni equivoci semantici: primo fra tutti l’identificazione di “conflitto” (inevitabile e talora trasformativo) e “guerra”, che è “la patologia del conflitto, la sua degenerazione violenta” (V. Bartolucci, Costruire la pace, www.rivistailmulino.it , 11.6.2022).  Inoltre

vanno distinte “forza” (che non è necessariamente violenta)  e “violenza” (che spesso non è indice di forza). “Anche l’aggressività, spesso confusa con la violenza, in realtà va distinta da essa. Come ci insegnano gli psicologi, si può essere aggressivi senza essere al contempo violenti. Se non controllata, l’aggressività può certamente sfociare in violenza, ma, se gestita può trasformarsi in determinazione. La distruttività, insomma, è solo uno degli esiti dell’aggressività che, opportunamente incanalata, può essere vitale, creativa e funzionale” (ivi).

Solo alla luce di queste delucidazioni concettuali e linguistiche si possono leggere vari episodi storici, come la resistenza nonviolenta dei danesi all’invasione nazista, che attestano come, “se è indubbiamente vero che la nonviolenza non sempre funziona (…) è altrettanto vero che riesce a conseguire la maggior parte degli obiettivi prefissati più spesso di quanto non faccia la violenza” (ivi). Essa può essere vista come “un ponte immaginario tra il passato definito dalla guerra, che non dovrebbe esserci più ma che c’è ancora, e il futuro, la nuova società che non c’è ancora ma a cui tendiamo” (ivi).

Non è facile, quando già si è immersi nella piena di una guerra, indicare strategie concrete per uscirne: ma è sicuro che non si troveranno se non si cercheranno, convinti che non ci siano alternative tra uccidere e arrendersi. Invece, “i grandi maestri della nonviolenza ci hanno insegnato che la nonviolenza non è semplice rifiuto o mera astensione dalla violenza, né resistenza passiva. Al contrario, è qualcosa di positivo, un fare”, un “trattare l’altro come un essere umano” allo scopo di “riuscire a spostare l’equilibrio morale e, con esso, l’equilibrio di potere” (ivi). Coloro che la praticano “sono spesso tacciati di essere ingenui, pericolosi o addirittura codardi”, laddove forse adottano “l’unica risposta razionale, lungimirante e possibile per una società veramente pacifica. Certo, le numerosissime pratiche di pace, portate avanti ogni giorno e necessarie anche a creare una cultura di pace, rimangono ancora ai margini, oscurate dal fracasso della chiamata alle armi. Sta a ognuno di noi dare loro una voce” (ivi).

In un’ottica preventiva, oggi gli uomini italiani tra i 18 e i 40 anni (la cui leva militare obbligatoria è stata ‘sospesa’ non ‘abolita’) possono compiere un gesto concreto: dichiararsi obiettori di coscienza in caso di chiamata alle armi. Sul sito del Movimento Nonviolento c’è già un modulo predisposto da compilare e spedire con un clic: https://www.azionenonviolenta.it/obiezione-alla-guerra-2/

 

Augusto Cavadi

Centro palermitano del Movimento Nonviolento

 

Versione originaria qui: https://www.girodivite.it/Un-piccolo-gesto-concreto-contro.html

 

1 commento:

Maria D'Asaro ha detto...

Grazie di queste preziose riflessioni.