Sabato 26 ottobre in 7 grandi città italiane si sono snodati altrettanti cortei per la pace. Secondo le stime su cui si registra maggiore convergenza si sono lasciate coinvolgere circa 80.000 persone: poco più di una ogni mille. Perché 998 e mezza sono rimaste a casa?
Le
domande impegnative non ammettono risposte facili. Si possono sono cucire
ipotesi parziali per tentare di avvicinarsi alla spiegazione più vera.
Parzialità
per parzialità, cominciamo dal dato locale della nostra città: a Palermo,
contando anche chi è arrivato dopo l’inizio e chi è andato via prima della
fine, saremo stati tra 2000 e 2500 partecipanti. Dunque, in rapporto al numero
degli abitanti, al di sotto della media
delle altre città. Come mai?
a)
Una prima
considerazione riguarda l’overdose di cortei nel giro di tre giorni: il 25
contro il disegno di legge sull’ordine pubblico, il 26 appunto contro le
guerre, il 27 contro la legge che sanziona la gravidanza per altri. A meno che
uno non sia un manifestante di professione, sceglie per uno o due cortei al
massimo; non certo per l’en plein.
b)
Una seconda
considerazione riguarda l’opportunismo di cui siamo affetti a ogni età sin da
giovani: per gli studenti delle scuole medie superiori, aderire al corteo di
venerdì 25 significava risparmiarsi 5/6 ore di lezioni, mentre sabato 26 si
sarebbe dovuto sfilare gratis et amore pacis. Per carità, niente
moralismi: ma, per lo meno, evitiamo l’illusione della retorica giovanilistica.
Gli adolescenti non sono né peggiori né migliori degli adulti e vedere in loro “la
speranza del mondo di domani” significa condannarsi alla delusione.
c)
Giovani o adulti,
siamo abbastanza svegli da sapere che un corteo in più non modifica le
decisioni del Parlamento e del Governo (tanto meno quando queste istituzioni
sono state consegnate dalla maggioranza degli elettori a politici non
particolarmente inclini alle dinamiche della democrazia). Personalmente sono
andato, come vado altre volte, senza molta convinzione: più per evitare il
fallimento della manifestazione che in previsione di effetti concreti. Ma se si
vuole evitare l’effetto boomerang (chi è d’accordo con l’andazzo attuale
della Nato e della Commissione Europea in giù potrà gongolare puntando sulla
stragrande maggioranza della popolazione rimasta in poltrona) bisogna
centellinare strategicamente l’indizione di manifestazioni di questo genere:
poche, pochissime all’anno – e solo quando si riesce a trovare un accordo
preventivo fra la quasi totalità delle grandi organizzazioni popolari (non
accontentandosi del pur preziosissimo apporto di un sindacato su tre). Mille
cortei da mille persone non equivalgono a un corteo di un milione di persone,
ma costituiscono mille assist per
chi tifa sugli spalti opposti.
d)
Questi conteggi
aritmetici vanno fatti, ma a patto di non monopolizzare l’attenzione
sull’aspetto quantitativo: prioritariamente – anche in funzione di eventuali
espansioni numeriche future – c’è una questione qualitativa. Detto
schematicamente: quale livello di consapevolezza culturale, etica e politica sul
tema della guerra, della pace, della nonviolenza si può ragionevolmente
supporre nella media dei partecipanti a questo genere di cortei ? “Vogliamo la
pace” è uno slogan insidioso: può essere gridato da punti di vista non solo
diversi (che sarebbe un bene), ma addirittura opposti. Se poi si aggiungesse la
richiesta di proporre alcuni mezzi per raggiungere il fine comune, si
registrerebbe la babele delle lingue. Ma senza questo minimo di chiarezza
teorica e di conseguente convergenza operativa (a cominciare dal proprio ambito
di vita: la relazione con il proprio partner o con i membri della propria
organizzazione) non si può prevedere il rivolgimento radicale di cui c’è
assoluta esigenza. Per ciò che risulta a quanti di noi si impegnano, tra una
manifestazione e l’altra, nella informazione e nella formazione delle coscienze
– anche in nome delle associazioni pacifiste e nonviolente nazionali e
internazionali di cui facciamo parte – la domanda di consapevolezza, di
conoscenza, di approfondimento critico da parte delle scuole, dei sindacati,
dell’associazionismo laico e cattolico è quasi inesistente. Ma le case si
costruiscono dalle fondamenta, non dalle tegole e dai caminetti: se dirigenti
di partiti e di sindacati, animatori di associazioni e di movimenti,
giornalisti e artisti, insegnanti e preti… non avvertono l’urgenza
dell’auto-formazione e della formazione delle persone che gravitano intorno a
loro, c’è poco da sperare in un incremento della partecipazione popolare.
Augusto Cavadi
Co-direttore, con Adriana Saieva, della “Casa
dell’equità e della bellezza” di Palermo
Versione originale qui:
https://www.girodivite.it/Perche-ai-cortei-per-la-pace-non.html
30.10.2024
4 commenti:
Bellissimo articolo. condivido in toto: a mio parere, hai detto TUTTE le parole essenziali (in particolare, quelle su NATO, su impegno nelle relazioni della vita quotidiana e su formazione). Grazie, grazie, grazie.😍
Condivido precedente commento di Andrea. Grazie!
Perfettamente condivisibile, Augusto. Lo sto girando alla mia comunità.
Condivido tutta l'analisi. In particolare vorrei focalizzare l'attenzione sulla "babele di lingue" che verrebbe fuori se si cercasse di capire cosa vuole dire per ognuno di noi "volere la pace". Forse è importante partire proprio da questo in ogni contesto locale
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