martedì 8 ottobre 2024

L'INGRATITUDINE: UN PONTE DAL DONO AL PER-DONO


La cultura del sospetto non ha risparmiato neppure uno dei gesti che compensano la tristezza del vivere: il donare. Gesto che, di primo acchito, colleghiamo mentalmente con un oggetto che passa da una mano all’altra, ma che – se ci riflettiamo anche solo un po’ – implica, o può implicare, il coinvolgimento di un soggetto che si offre. L’ombra del sospetto si estende sia sull’atto del donare qualcosa che sull’atto del donare se stessi.

 

Qualche volta il dono è gratuito

Nel dono di qualcosa, infatti, gli antropologi individuano – al di sotto di un’apparenza di gratuità -  un’intenzionalità interessata: un regalo sarebbe sempre il ricambio di un dono ricevuto nel passato o il pegno di un dono atteso nel futuro. Nella maggioranza statistica dei casi essi hanno ragione e solo un ottimismo antropologico miope può negarlo: il dono gratuito è raro, più spesso è restituzione o garanzia. Tuttavia, parafrasando un motto che si attribuisce a Freud (“In certi casi fumare un sigaro significa fumare un sigaro”), il realismo impone di essere realisti sino in fondo e di accettare che, ogni tanto, inaspettatamente, regalare qualcosa significhi…regalare qualcosa (gratuitamente). Forse, in questo caso, il mantello dell’anonimato nasconde il volto del donante agli occhi del donatario e, nel caso della più pura delle gratuità, il volto del donatario agli occhi del donante. Derrida è arrivato ad affermare,

“paradossalmente e provocatoriamente, che se il dono è possibile, lo è nella forma della sua impossibilità, ovvero il dono può esistere solo non apparendo, non presentandosi come dono, lasciandosi dimenticare, scomparendo nell’inconsapevolezza”[1] .

 Prevedere i benefici per sé non significa perseguirli come fine

Ma, perfino nel dono più disinteressato, non si cela – talora ai propri stessi occhi – il desiderio di provare una gratificazione psicologica ? Non cova il proposito – anche solo inconscio – di regalare qualcosa a qualcuno (fosse persino ignoto) per regalare un momento di gioia, o perlomeno di soddisfazione, a se stessi?

Questa obiezione si configura a maggior ragione quando il donatore offre, più che oggetti, qualcosa della sua soggettività: tempo, attenzione, ascolto, affetto, competenze, solidarietà, cura…Tipico il caso del volontariato: “Ti occupi di doposcuola nei rioni popolari o di animare i pomeriggi negli ospizi per anziani perché sei  soffocato dai sensi di colpa per i tuoi privilegi borghesi…perché muori di noia quando non sei in ufficio…per sentirti moralmente migliore di quelli che, a differenza di te, si possono godere la vita tra i lussi e gli sprechi…”.

Che si doni qualcosa o sé stessi, un vantaggio di ritorno è inevitabile. E’ per una dinamica fisiologica (direi ontologica) che chi dà, o si dà, riceve. Secondo qualcuno, addirittura, è solo dando che si riceve davvero. Ma una cosa è prevedere un effetto, un’altra cosa perseguirlo come fine. Non c’è nulla di patologico nel prevedere che un’esistenza pro-attiva significhi un’esistenza più gratificante, più serena, talora più lieta, comunque più resistente ai colpi del destino. Il donare viene stravolto, snaturato, quando viene attivato in vista dei benefici (psicologici, sociali o addirittura materiali) che possiamo trarne.  In questi casi esso viene ridotto alla misera caricatura di se stesso.

Come distinguere, se è possibile distinguerle, l’(auto)-donazione gratuita dall’ (auto)- donazione pervertita o invertita? Risponderei: per fortuna, se ne occupa la vita. E se ne occupa servendosi dei destinatari dei nostri doni. Più precisamente: servendosi della loro ingratitudine. La letteratura di tutto il mondo, e prima ancora l’esperienza quotidiana, ci attestano come sia rara la magnanimità di chi accoglie un dono senza avvertire risentimento nei confronti del donatore. Di solito è più facile che si risani la ferita infertaci da un’offesa che da un beneficio. Infatti accogliere qualcosa o qualcuno rivela che avevamo uno spazio, un vuoto, un bisogno da colmare: che, almeno per un certo aspetto e in un certo momento, eravamo indigenti.

 

Dal dono all’iper-dono

L’ingratitudine ci spiazza, ci disorienta, ma può anche fungere da test.

 Mi amareggia al punto da farmi pentire del dono offerto? Molto probabilmente la mia era una generosità pelosa.

Mi amareggia, ma non mi convince di aver sbagliato né mi induce alla chiusura in occasioni simili nel futuro? Molto probabilmente la mia era una generosità autentica. Al punto che il dono iniziale si è reduplicato: è diventato bis-dono. Iper-dono. Per-dono. E’ proprio nella misura in cui sappiamo sperimentare, con fatica ma senza forzature, l’esercizio del per/dono che possiamo pesare la nostra effettiva capacità di dono.

Se il dono autentico è già segno e frutto dell’agape – dell’amore davvero gratuito perché privo di qualsiasi forma di ricambio -, l’agape si esprime pienamente nel perdono. Lo nota anche un pensatore ‘laico’ come Salvatore Natoli:

“La virtù, alla fine, nonostante tutto, non può mai essere privata, ma deve essere mossa da un grande, infinito amore per l’umanità. La virtù, per essere efficace, non può non perdonare. Deve saper amare. E, forse, già in questo mondo, si possono generare sementi che possono produrre un’autenticità dei soggetti e uno spazio vero, autentico, non giuridico, di libertà”[2].

Anche qui – contro ogni retorica ‘buonista’ – bisogna ammettere che il per/dono, proprio come il dono, comporta una liberazione del perdonante pari, se non superiore, al sollievo sperimentato dal perdonato (quando questi ne venga a conoscenza e lo accetti sinceramente). Vari studi psicoterapeutici confermano che il perdono è

“lo strumento che la vittima ha per liberarsi dal passato, una risorsa per spezzare quella forma di ‘dipendenza’ che ancora la lega al torto subito e alla persona che lo ha commesso, e favorire così un atteggiamento di compassione, accettazione e armonia nelle relazioni umane”[3] .

 

Ma – contro ogni retorica ‘cattivista’ (se posso coniare un neologismo) – bisogna rassicurarsi: non si può perdonare solo per interesse proprio, principalmente per soccorrere se stessi. Il perdono libera chi lo pratica solo se lo pratica cordialmente: il finto perdono non è solo ipocrita, ma prima ancora inutile. Solo il perdono maturato con autenticità risulta efficace psicologicamente e moralmente per il perdonante.

Qui s’impone una parentesi.

“Perdonare non vuol dire dimenticare, non si tratta di rimuovere dalla propria memoria tutto quello che è accaduto. Al contrario, significa tenere bene a mente quanto è successo, comprendendone gli insegnamenti. (…) Perdonare non è, appunto, giustificare o condonare. E non è neanche una strategia di fuga superficiale motivata dalla fretta di risolvere un conflitto; non si tratta di falsa cortesia e buone maniere che nascondono accuse velate; non è sicuramente un atto di umiliazione, denigrazione di se stessi o perdita di dignità, nella vana speranza di impietosire e provocare senso di colpa”[4].

Se tutto questo è vero, se ne evince che solo chi ha subito personalmente un torto ha il diritto (se vuole, se può) di perdonare – un diritto che non può mai intendersi come dovere di dimenticare, di cancellare gli orrori perpetrati. Lo ricorda tra gli altri il filosofo ebreo Jankélévitch:

 “Come possono i sopravvissuti perdonare al posto delle vittime o in nome dei reduci, dei loro genitori, dei loro familiari? No, non spetta a noi perdonare per i bambini che i bruti si divertivano a suppliziare. Bisognerebbe che fossero i bambini stessi a perdonare”[5].

Chiusa la parentesi, riprendiamo il filo della riflessione: perdonare gli altri per i torti che ci hanno inflitto – ad esempio per la loro ingratitudine - è difficile. Ma ancora più difficile è perdonare se stessi. Anche chi ritiene di assolversi facilmente da errori e sviste, può avvertire un senso radicale di rancore: e, se scava, scopre di provare risentimento verso il proprio io. Troppe occasioni perdute, troppe energie sprecate. Non mi riferisco al “senso di colpa” che è un meccanismo inconscio da curare, di cui liberarci, in quanto riferito a “colpe” immaginarie di cui non siamo oggettivamente responsabili; ma del “senso della colpa” – meglio: “senso delle colpe” – che non ha nulla di patologico perché è consapevolezza, forse irriflessa e confusa, di “colpe” effettivamente commesse da noi.

Tipico, in proposito, il caso dei veterani di guerre (specie se combattute con motivazioni imperialistiche e contro eserciti popolari poco armati, come nel caso delle operazioni belliche degli USA in Vietnam nella seconda metà del XX secolo): persone che, tornate alla vita precedente, non riescono a concedersi quiete, distruggono le relazioni familiari e amicali, sperimentano la depressione sino al suicidio[6].

Secondo qualcuno il vertice del perdono non si tocca quando si concede il perdono ad altri o a sé, ma quando lo si chiede a chi ha commesso il male:

“Perdonare chi ci ha fatto del male e i dolori del passato sembra una sfida estrema riservata a pochi. E se invece osassimo molto di più? Se provassimo a guardare in faccia il peggiore dei nostri nemici, un assassino, un pedofilo, un pluriomicida ergastolano e, occhi negli occhi, avessimo il coraggio di pronunciare quattro semplici parole: <<Io ti chiedo perdono>>? Quattro semplici parole: <<Io ti chiedo perdono>>. Probabilmente anche solo immaginarlo scatenerebbe nella maggior parte delle persone senso di rifiuto e di rabbia. Eppure è proprio quello che faccio con i detenuti che incontro nelle carceri. Ho chiesto perdono a ognuno di loro. Sinceramente. Le lacrime che sono scese dai loro occhi e dai miei raccontano senza finzione quanto ancora lontani siamo, come società, dalla possibilità di comprendere la radice del disagio e del dolore altrui. Un’assoluta mancanza di consapevolezza che emerge ogni qualvolta qualcuno dice: <<Gettiamolo in cella e buttiamo via la chiave>>. E così facendo condanna all’ignoranza se stesso e le persone che ama”[7] .

Anch’io frequento le carceri, ma sinceramente non ho mai sperimentato (per difetto di generosità o forse per senso di opportunità) ciò che Daniel Lumera, ideatore della International School of Forgiveness e della “Giornata Internazionale del Perdono”, racconta. Accolgo con rispetto la sua testimonianza, ma ritengo che essenziale sia non tanto replicarla letteralmente quanto coglierne lo spirito. Che si potrebbe individuare almeno a quattro livelli di profondità.

Innanzitutto significa aver consapevolezza che, a livello ontologico, siamo tutti e tutte legati/e da una comune solidarietà ‘oggettiva’ che ci rende responsabili vicendevolmente. Nessuno è totalmente innocente del male della storia come nessuno ne è in esclusiva l’autore. “L’idea che il male sono gli altri impedisce all’umanità di considerare la propria barbarie interiore” [8]afferma Patrick Viveret. Il che non significa azzerare le differenze di responsabilità nei confronti degli errori storici e delle sofferenze da essi derivate, ma solo che - sino a quando i ‘buoni’ si relazioneranno ai ‘cattivi’ dall’alto di uno scranno di tribunale - non sarà possibile fare spazio alla verità delle cose né, conseguentemente, a una pace durevole.

A livello etico,  viene rivelata la compassione verso il criminale che non sarebbe diventato tale se non avesse sperimentato forti sofferenze. Tale, almeno, la convinzione di Kierkegaard, rilanciata ai nostri giorni anche da Eugen Drewermann, che non si è infelici perché si è peccatori, ma si è peccatori perché infelici: non soffriamo perché ci siamo comportati male in alcune circostanze, ma ci comportiamo male in alcune (o in molte) circostanze perché soffriamo il vuoto di senso, di gratificazione interiore.

A livello etico-politico suggerisce un atteggiamento nonviolento nei confronti dei nostri avversari, anche quando non sono nemici ‘personali’ ma delle nostre comunità civiche: dunque un atteggiamento che non coltiva l’odio come antidoto all’odio; che neppure si limita a tagliare ogni relazione con il colpevole di reato, ma che cerca – attivamente, costruttivamente - il confronto sincero alla ricerca di una evoluzione di entrambi i contendenti verso punti di vista più saggi e più equi[9].  

A livello politico-giuridico rivela la convinzione che nessuna società può pretendere l’osservanza dei doveri da quei cittadini a cui non ha garantito il rispetto dei diritti fondamentali. La legalità è sacra solo quando è giusta. Ed essa è ingiusta quando è “buona solo a imporre doveri senza costruire diritti”; quando è

 “espressione di uno Stato e di una società che non si fanno carico di certe situazioni sociali, che non le seguono per come sono, ma per affermare soltanto come devono essere”[10] .

 

                                                                        Augusto Cavadi



[1] Un’esposizione critica del pensiero di Derrida, in (relativa) contrapposizione a Marcel Mauss, nel capitolo La gratuità e il dono: può il dono essere davvero gratuito?  del volume di F. Giardina, La gratuità. Piacevole agli altri, ma senza un perché e senza uno scopo, Diogene Multimedia, Bologna s.d., pp. 23 – 40.  

[2] S. Natoli, Aver cura di sé in F. Nodari (a cura di), Vizi e virtù, La Compagnia della stampa Massetti Rodella Editori, Roccafranca 2008, p. 54, cit. in A. Cavadi, La filosofia come terapia dell’anima. Linee essenziali per una spiritualità filosofica, Diogene Multimedia, Bologna 2019, pp. 116 – 117.

[3] I. De Vivo – D. Lumera, La scienza del perdono e della gratitudine in I. De Vivo – D. Lumera, Biologia della gentilezza. Le 6 scelte quotidiane per Salute, Benessere e Longevità, Mondadori, Milano 2020, p.103.

[4] D. Lumera, Perdono e gratitudine in I. De Vivo – D. Lumera, Biologia della gentilezza, cit., p. 85.

[5] V.  Jankélévitch,  Perdonare?  , Giuntina, Firenze 2004,  p. 44, cit. in A. Cavadi, La filosofia come terapia, cit., pp. 165 – 166.

[6] “Qualunque sia la causa del rimorso, è il perdono verso se stessi la chiave dei percorsi terapeutici più efficaci. Gli studi condotti spiegano che questa strada può non essere sufficiente di per sé a guarire le ferite interiori, ma si è dimostrata molto utile nell’agevolare tale processo, aiutando le persone a ritrovare una serenità sulla quale costruire una guarigione più duratura e un rapporto più sano con se stessi e con gli altri” (I. De Vivo – D. Lumera, La scienza del perdono, cit., p. 101).

[7] D. Lumera, Perdono e gratitudine in I. De Vivo – D. Lumera, Biologia della gentilezza, cit., p. 82.

[8] P. Viveret, Che cosa faremo della nostra vita? In E. Morin – P. Viveret, Come vivere in tempi di crisi?, Book Time, Milano 2011, p. 57, cit. in A. Cavadi, La filosofia come terapia, cit., p. 168.

[9] Su questa tematica sterminata vedere, per orientarsi, le pagine 39 – 47 (dedicate alla mediazione familiare, penale, scolastica e comunitaria) in A. Cozzo, La nonviolenza oltre i pregiudizi. Cose da sapere prima di condividerla o rifiutarla, Di Girolamo, Trapani 2023 ed anche M. Pignatti Morano, La prospettiva della giustizia rigenerativa in V. Sanfilippo (ed.), Nonviolenza e mafia. Idee ed esperienze per un superamento del sistema mafioso, Di Girolamo, Trapani 2005, pp.47 – 52.

[10] S. Margara, Sul confine del deserto in “Rivista del volontariato”, 5 (2002) X, pp. 10- 11, cit. in A. Cavadi, Legalità, Di Girolamo, Trapani 2013, pp. 26 - 27.

 * Edizione originaria sulla rivista cartacea "Le frontiere della scuola" (n. 64).

3 commenti:

Bruno Vergani ha detto...

Esempio plastico di quanto scritto da Augusto è il percorso di Giustizia Riparativa che Agnese Moro ha condotto con i brigatisti, per chi avesse tempo e interesse consiglio la visione dei video che linko sotto, dove le parti raggiungono “punti di vista più saggi e più equi” per certi versi misteriosi, nel senso che raggiungono territori che stanno oltre la logica i sentimenti umani.

https://www.youtube.com/watch?v=uPa1FmS-sDM

https://www.youtube.com/watch?v=iqzNGmy12j8

https://www.youtube.com/watch?v=BcpGUq9Qq-8

Alberto Genovese ha detto...

Splendido articolo. Quasi un classico per sintesi, chiarezza, profondità di pensiero. Lo stampo e lo conservo. Grazie Augusto!

Augusto Cavadi ha detto...

Alberto caro, ti sono molto grato per il tuo commento (troppo generoso!) perché so che viene da una persona competente e sincera.