mercoledì 30 ottobre 2024

PERCHE' AI CORTEI PER LA PACE NON SIAMO MAI ABBASTANZA ?

 Sabato 26 ottobre in 7 grandi città italiane si sono snodati altrettanti cortei per la pace. Secondo le stime su cui si registra maggiore convergenza si sono lasciate coinvolgere circa 80.000 persone: poco più di una ogni mille. Perché 998 e mezza sono rimaste a casa?

Le domande impegnative non ammettono risposte facili. Si possono solo cucire ipotesi parziali per tentare di avvicinarsi alla spiegazione più vera.

Parzialità per parzialità, cominciamo dal dato locale della nostra città: a Palermo, contando anche chi è arrivato dopo l’inizio e chi è andato via prima della fine, saremo stati tra 2000 e 2500 partecipanti. Dunque, in rapporto al numero degli abitanti,  al di sotto della media delle altre città. Come mai?

a)     Una prima considerazione riguarda l’overdose di cortei nel giro di tre giorni: il 25 contro il disegno di legge sull’ordine pubblico, il 26 appunto contro le guerre, il 27 contro la legge che sanziona la gravidanza per altri. A meno che uno non sia un manifestante di professione, sceglie per uno o due cortei al massimo; non certo per l’en plein.

b)     Una seconda considerazione riguarda l’opportunismo di cui siamo affetti a ogni età sin da giovani: per gli studenti delle scuole medie superiori, aderire al corteo di venerdì 25 significava risparmiarsi 5/6 ore di lezioni, mentre sabato 26 si sarebbe dovuto sfilare gratis et amore pacis. Per carità, niente moralismi: ma, per lo meno, evitiamo l’illusione della retorica giovanilistica. Gli adolescenti non sono né peggiori né migliori degli adulti e vedere in loro “la speranza del mondo di domani” significa condannarsi alla delusione.

c)      Giovani o adulti, siamo abbastanza svegli da sapere che un corteo in più non modifica le decisioni del Parlamento e del Governo (tanto meno quando queste istituzioni sono state consegnate dalla maggioranza degli elettori a politici non particolarmente inclini alle dinamiche della democrazia). Personalmente sono andato, come vado altre volte, senza molta convinzione: più per evitare il fallimento della manifestazione che in previsione di effetti concreti. Ma se si vuole evitare l’effetto boomerang (chi è d’accordo con l’andazzo attuale della Nato e della Commissione Europea in giù potrà gongolare puntando sulla stragrande maggioranza della popolazione rimasta in poltrona) bisogna centellinare strategicamente l’indizione di manifestazioni di questo genere: poche, pochissime all’anno – e solo quando si riesce a trovare un accordo preventivo fra la quasi totalità delle grandi organizzazioni popolari (non accontentandosi del pur preziosissimo apporto di un sindacato su tre). Mille cortei da mille persone non equivalgono a un corteo di un milione di persone, ma costituiscono  mille assist per chi tifa sugli spalti opposti.

d)     Questi conteggi aritmetici vanno fatti, ma a patto di non monopolizzare l’attenzione sull’aspetto quantitativo: prioritariamente – anche in funzione di eventuali espansioni numeriche future – c’è una questione qualitativa. Detto schematicamente: quale livello di consapevolezza culturale, etica e politica sul tema della guerra, della pace, della nonviolenza si può ragionevolmente supporre nella media dei partecipanti a questo genere di cortei ? “Vogliamo la pace” è uno slogan insidioso: può essere gridato da punti di vista non solo diversi (che sarebbe un bene), ma addirittura opposti. Se poi si aggiungesse la richiesta di proporre alcuni mezzi per raggiungere il fine comune, si registrerebbe la babele delle lingue. Ma senza questo minimo di chiarezza teorica e di conseguente convergenza operativa (a cominciare dal proprio ambito di vita: la relazione con il proprio partner o con i membri della propria organizzazione) non si può prevedere il rivolgimento radicale di cui c’è assoluta esigenza. Per ciò che risulta a quanti di noi si impegnano, tra una manifestazione e l’altra, nella informazione e nella formazione delle coscienze – anche in nome delle associazioni pacifiste e nonviolente nazionali e internazionali di cui facciamo parte – la domanda di consapevolezza, di conoscenza, di approfondimento critico da parte delle scuole, dei sindacati, dell’associazionismo laico e cattolico è quasi inesistente. Ma le case si costruiscono dalle fondamenta, non dalle tegole e dai caminetti: se dirigenti di partiti e di sindacati, animatori di associazioni e di movimenti, giornalisti e artisti, insegnanti e preti… non avvertono l’urgenza dell’auto-formazione e della formazione delle persone che gravitano intorno a loro, c’è poco da sperare in un incremento della partecipazione popolare.

 

Augusto Cavadi

Co-direttore, con Adriana Saieva, della “Casa dell’equità e della bellezza” di Palermo

 

Versione originale qui:

https://www.girodivite.it/Perche-ai-cortei-per-la-pace-non.html

30.10.2024

lunedì 28 ottobre 2024

PER RISCOPRIRE L’ATTUALITA DELLA “DIVINA COMMEDIA”

 Dante Alighieri era un cristiano che ha composto la Commedia da cristiano per lettori cristiani. Eppure la geniale profondità dello sguardo ha fatto sì che egli abbia parlato, in questi sette secoli, a persone di ogni religione, cultura, etnia, orientamento politico: ad esempio  a Karl Marx che lo cita – in italiano ! – perfino nel Capitale. Ha da dire qualcosa anche alle donne e agli uomini del nostro  tempo? Maurizio Muraglia ne è convinto e, per dimostrarlo, ha pubblicato Cento finestre sull’umano. Parole dantesche tra passato e presente (Di Girolamo, Trapani 2024, pp. 138, euro 15,00): un’originale raccolta di terzine – una per ogni pagina, secondo il percorso dall’Inferno al Purgatorio sino al Paradiso – in ciascuna delle quali spicca una parola-chiave (“paura”, “desiderio”, “festa”, “donna”, “riso”, “luce”…). L’autore si assume, inoltre, il compito di ‘tradurre’ in italiano corrente i versi di Dante e di suggerirne un’interpretazione attualizzante.

Tra i molti esempi possibili, ne segnalo tre che mi son sembrati particolarmente eloquenti.

Ad  esempio, nel canto XII dell’Inferno, ai versi 49 – 51, leggiamo: “Oh cieca cupidigia e ira folle,/ che ci sproni ne la vita corta,/ e nell’etterna poi sì mal c’immolle!”. Muraglia parafrasa: “Oh cieca brama e ira folle, che tanto ci pungoli nella breve vita, e poi nella vita eterna ci tieni a mollo in modo così penoso!”. Infine aggiunge una quindicina di righe di commento che si concludono con il riferimento al contesto contemporaneo: “Ci si può adirare o indignare, dipende da come si guarda il mondo. Qui l’ira discende dallo sguardo che divora, perché l’altro è un ostacolo alla propria voracità per il solo fatto di esistere. Lo disse Sartre: l’inferno sono gli altri” (p. 27). Non è difficile, verrebbe da osservare, distinguere l’ira (che scatta per difendere il proprio io e le proprie cose) dall’indignazione (che esplode per difendere il Bene comune e la dignità di tutti).

Nel canto XIX del Paradiso, i versi 106 – 108 recitano:  “Ma vedi: molti gridan ‘Cristo, Cristo!’,/ che saranno in giudicio assai men prope/ a lui, che tal che non conosce Cristo”. Agevole la trasposizione nell’italiano dei nostri giorni: “Ma vedi: ci sono molti che gridano ‘Cristo, Cristo!’, e che nel giudizio saranno molto meno vicini a lui di altri che non conoscono Cristo”. Così, infine, le righe finali del breve commento: “Oggi il credente ed il non credente concordano nel giudizio positivo verso chi vive con vera e piena umanità, quale che sia il suo orientamento religioso. Qui, per bocca dell’aquila, il credente Dante azzarda con radicalità evangelica ancora di più: molti, che si riempiono la bocca di Cristo, in giudizio saranno molto meno vicini a Dio di chi Cristo neppure lo conosce” (p. 108). La mente va, spontaneamente, a quei politici di ieri e di oggi che esibiscono i simboli dell’appartenenza cattolica (pur vivendo in palese contraddizione con le norme ecclesiali) pur di rastrellare i consensi elettorali dei bigotti. 

In un momento storico in cui il pianeta è dilaniato da decine di conflitti bellici, alcuni dei quali (pensiamo a Russia e Ucraina o al governo di Israele contro il regime di  Hamas) particolarmente eclatanti, non si può restare colpiti dalla terzina 151- 153 del XXII canto del Paradiso: “L’aiuola che ci fa tanto feroci,/ volgendom’io con li etterni Gemelli,/ tutta m’apparve da’ colli a le foci” (“L’aiuola che ci rende così feroci, volgendomi con l’eterna costellazione dei Gemelli, mi apparve tutta intera dai monti alle estreme rive”): “Dante rivede tutti i cieli da una prospettiva di distanziamento, simboleggiata dalle stelle, in particolare dalla costellazione dei Gemelli, suo segno zodiacale e talento nativo. Riappropriandosi di se stesso nel purgatorio, e immerso nella totalità del cosmo, Dante vede la terra come un’aiuola, l’aiuola della ferocia e della disumanizzazione” (p. 111).

E’ forte la tentazione di moltiplicare le esemplificazioni, ma queste poche sono sufficienti – ritengo – per dare un’idea di quanto prezioso possa essere uno strumento come questo approntatoci da Muraglia, tanto accorto filologicamente quanto accessibile anche da parte di chi non si è mai accostato al mondo della Divina Commedia o l’ha “frequentato nelle aule scolastiche ma in modo nozionistico e non significativo” (p. 9).

 Augusto Cavadi

Per la versione originaria illustrata cliccare qui:

https://www.zerozeronews.it/lintramontabile-attualita-della-divina-commedia/

venerdì 25 ottobre 2024

SE NE E' ANDATO ANCHE GUSTAVO GUTIERREZ, PADRE DELLA "TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE"

 

Martedì 22 ottobre se ne è andato, alla rispettabile età di 96 anni, Gustavo Gutiérrez, il frate domenicano considerato unanimemente il padre della “Teologia della liberazione” latino-americana. Benché cattolico, la sua opera è stata influente oltre i confini della sua confessione religiosa: vi si sono riconosciuti, riprendendola e rilanciandola, pensatori e militanti di Chiese protestanti e di movimenti politico-culturali ‘laici’.

Per la mia generazione la “Teologia della liberazione” ha costituto una ventata d’aria fresca negli ambienti alquanto asfittici del mondo cattolico europeo: a Palermo l’abbiamo tradotta, in libri e iniziative sociali degli anni Ottanta, come “Teologia del risanamento” (formula proposta dal teologo don Cosimo Scordato). il Gesù della teologia dogmatica ellenistica, bizantineggiante, veniva deposto dalle nicchie più elevate dei templi e – grazie a una lettura esegeticamente aggiornata dei testi evangelici – restituito alla strada: alla verità storica di un Profeta nomade divorato dalla passione per l’avvento del “Regno di Dio”.

Ma cosa intendeva con questa formula un ebreo del I secolo dell’era volgare?

Che i regni dei potenti di questo mondo erano destinati a frantumarsi per fare spazio ai criteri di libertà, giustizia, fraternità del Dio annunziato da Cristo. La “buona notizia” non riguardava dunque principalmente le “anime” individuali, ma le “persone” (nella loro integrità psico-fisica) in quanto membri del “popolo” : e non il loro futuro escatologico, dopo la morte, bensì il loro presente storico.

Una rilettura così rivoluzionaria del vangelo interrogò papa Giovanni XXIII, i vescovi del mondo riuniti nel Concilio ecumenico Vaticano II (1962 – 63) e papa Paolo VI: ne suscitò perplessità e dubbi, ma ne stimolò anche la produzione di documenti epocali come le encicliche Pacem in terris e Populorum progressio  e la Costituzione conciliare Gaudium et spes.

Poi è arrivato il lungo inverno della repressione autoritaria di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI: a colpi di scomuniche e di ritiro dell’autorizzazione a insegnare nelle università cattoliche hanno contribuito alla crisi della “Teologia della liberazione”. Tramontato dunque per sempre il sogno di Gutierrez e dei suoi numerosi compagni e discepoli? Il cristianesimo torna ad essere, irrimediabilmente, l’ideologia che giustifica le sperequazioni fra pochi sempre più ricchi e molti sempre più poveri?

In molti lo hanno ritenuto, ora con sconforto ora con soddisfazione, sino al 13 marzo 2013 quando dal balcone di san Pietro si è affacciato un papa sud-americano chiamato “quasi dalla fine del mondo”. Con Francesco la “Teologia della liberazione” torna a zampillare a cielo aperto dopo un lungo periodo di scorrimento sotterraneo. Se non si tiene presente questo, non si capisce la radice dell’opposizione non solo dei governi degli Stati capitalistici, ma anche del clero e dei fedeli tradizionalisti, a papa Bergoglio.  Vincerà la dura battaglia? Difficilmente. Egli infatti è tanto aperto sulle questioni pastorali e sociali quanto conservatore in ambito teologico, etico e istituzionale (o almeno si mostra così per non moltiplicare a dismisura il fronte dei suoi avversari ‘interni): e questa timidezza gli aliena le simpatie delle frange progressiste del mondo cattolico che, altrimenti, sarebbero i suoi alleati naturali.

La partita è dunque aperta. Gutierrez non ha chiuso gli occhi a questa vita con la gioia piena di chi ha visto realizzato il suo impegno “con i poveri e contro la povertà” (come scrisse nel suo Bere al proprio pozzo. L’itinerario spirituale di un popolo  del 1983); ma neppure con disperazione. La crisi teorico-pratica del marxismo (nel quale i teologi della liberazione riconoscevano, insieme a molti difetti intollerabili,  istruttivi strumenti di analisi della società e interessanti indicazioni operative) ha certamente affievolito molti entusiasmi, ma non ha seppellito tanti esperimenti di partecipazione democratica ancora attivi qua e là sul pianeta. Come scriveva lo stesso teologo peruviano, “il popolo degli oppressi, durante la traversata del deserto conosce i fallimenti, la tentazione di tornare indietro, ma anche i successi e soprattutto la speranza nel Dio che libera e che dà la vita”.

Augusto Cavadi

* L'articolo originale con corredo fotografico qui:

https://www.zerozeronews.it/laddio-a-guitierrez-non-seppellisce-la-teologia-della-liberazione/

mercoledì 23 ottobre 2024

SULLE ORME DEGLI EROI, MA ANCHE DELLA BELLEZZA ARTISTICA

 

“Il Gattopardo / Sicilia”

Agosto 2024

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Andrea e la sua simpatica famigliola torinese mi hanno chiesto ospitalità per qualche giorno a Palermo. Prima di partire mi avevano espresso il desiderio di essere accompagnati nei luoghi dedicati ai martiri dell’antimafia: Palazzo di Giustizia, via Carini, Albero Falcone, via D’Amelio…

“Sì, Andrea, capisco il tuo senso civico. Ma per i tuoi due figli adolescenti un impatto così luttuoso con la città non può essere rattristante, addirittura respingente?” “No, ritengo di no. Da quando sono piccoli ho parlato di queste vicende come l’epica del XX secolo: forse, essendovi del tutto interni, voi siciliani non ne avete coscienza, ma i vostri eroi hanno scritto l’Iliade contemporanea. A Palermo avete difeso la democrazia italiana”.

Mi sono arreso, ma non senza un suggerimento confidato in tono quasi di supplica: “Sì, ma fa’ vedere anche la Cattedrale e Mondello, il Palazzo reale e l’Orto botanico…Che la memoria dei morti s’intrecci con lo splendore dell’arte e della natura”.

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

sabato 19 ottobre 2024

COS'E' UNA PASSEGGIATA FILOSOFICA? UN'ESPERIENZA A PIAZZA ARMERINA (ENNA)


 Lunedì 14 ottobre 2024 ho avuto la gioia di accompagnare un gruppo di studenti, insegnanti e genitori del Liceo E. Majorana - A. Cascino di Piazza Armerina per una breve "passeggiata filosofica" dal Chiostro della Chiesa di san Pietro all'adiacente Villa Comunale.

Intensi, perché autentici, gli interventi: in particolare le testimonianze dei più giovani partecipanti.

Ma cos'è una "passeggiata filosofica"?

Non c'è nessun protocollo ufficiale. Personalmente la intendo e la pratico, grosso modo, così:

https://www.filosofiaperlavita.it/2024/10/passeggiata-filosofica-pregi-e-limiti.html

(Approfitto di questo link per informare, chi ancora non lo sappia, che ci si può iscrivere gratuitamente agli aggiornamenti via email dei post che vengono pubblicati sul blog www.filosofiaperlavita.it attraverso semplicissime azioni sull'apposito tasto presente nel  portale).  

martedì 15 ottobre 2024

CARO PAPA FRANCESCO, DAVVERO AMIAMO TROPPO GLI ANIMALI ?

Papa Francesco mi è simpatico, anche quando va un po’ fuori di testa. Anzi, soprattutto quando comincia a sproloquiare. Per esempio mercoledì 25 settembre, all’incontro con alcuni giovani del convegno “Economy of Francesco”, ha detto: “«Coraggio, cari amici! Coraggio! Se sarete fedeli alla vostra vocazione, la vostra vita fiorirà, avrete storie meravigliose da raccontare ai figli e ai nipoti. Vedo che ci sono alcuni bambini lì: è bello questo, in una cultura dove si privilegia avere cagnolini o gatti e non bambini. Dobbiamo bastonare un po’ l’Italia!». Questa storia dell’amore per gli (altri) animali dev’essere un cruccio per il papa perché pochi giorni dopo ha ribadito la sua opinione in proposito durante il viaggio in Lussemburgo e Belgio.

Se per un caso del tutto improbabile dovessimo chiacchierare una decina di minuti al bar, restando sul registro ‘leggero’ in cui egli srotola le sue battute sull’argomento, gli obietterei innanzitutto che la sua enfatizzazione della paternità biologica mi fa sorridere perché mi evoca alla mente l’invito di un ipotetico presidente del club degli Astemi a non far mancare mai una bottiglia di buon vino sulla tavola di ogni famiglia.

Poi, trasferendomi su un piano meno divertente, gli chiederei se davvero l’umanità, con i miliardi di abitanti attuali, ha bisogno di incrementare le nascite o, piuttosto, di distribuire in maniera più equa le generazioni che si succedono anno dopo anno. Con mia moglie, ad esempio, abbiamo potuto accogliere nel nostro stato di famiglia una ragazzina africana arrivata in Sicilia su un barcone senza nessun parente: da anni vive con noi – che chiama ‘papi’ e ‘mami’ - nell’unica stanzetta disponibile in casa  (le altre due sono il soggiorno e la camera da letto) in quanto non occupata da prole. Questa esperienza – che abbiamo accettato di vivere  senza averla cercata intenzionalmente – ci consente di constatare in prima persona ciò che come insegnanti sapevamo de relato: quanto sia davvero difficile il mestiere di genitori. Allora, forse, piuttosto che a fare più figli bisognerebbe esortare a fare meglio i genitori dei figli che ci sono: se non altro per evitare o di ucciderli in momenti di esasperazione e di venirne uccisi in momenti di noia.

Non è la prima esperienza di ‘adozione’ morale del genere, con varie modalità di convivenza: qualche volta è andata bene, qualche altra è stato un disastro (ma, per fortuna, non al punto da scoraggiarci e desistere).  Ma c’è un genere di cuccioli che non ci hanno mai deluso, mai tradito: i vari gattini che si sono succeduti nelle nostre vite e i vari cagnolini che vi fanno, periodicamente, capolino. Non so se il buon Bergoglio ha mai avuto animali in casa, io posso testimoniare che non solo mi danno molto affetto ma che mi hanno educato ad esercitarlo verso di loro e verso i miei simili. Alla loro pacatezza, alla loro pazienza, alla loro sconfinata fiducia verso noi umani, alla loro serenità sulla soglia della morte devo moltissimo. Al catechismo le suore, settant’anni fa, mi insegnavano che Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo: solo da pochi anni ho capito che, conseguentemente, è anche in ogni essere vivente e senziente. E che è stata una cecità intellettuale e morale proibire, in una mostra di presepi di alcuni anni fa in una cittadina siciliana, un delizioso presepe in cui Giuseppe, Maria e il bambinello erano – come tutti gli altri protagonisti – dei cagnolini. Il divino è inimmaginabile, anzi inconcepibile: per questo noi mortali siamo autorizzati – anzi obbligati – a moltiplicare le nostre rappresentazioni, a patto di non dimenticare neppure per un momento che sono sempre e solo ‘nostre’. Dunque parziali, imperfette e non di rado fuorvianti, come quando abbiamo descritto l’Invisibile come Condottiero di eserciti, Giudice implacabile, Re irato (che solo il sangue del Figlio ha potuto rabbonire). Questo papa, meritoriamente, esorta senza posa a deporre la violenza e a stabilire relazioni di pace nel micro e nel macro. Vorrei suggerirgli, in tutta umiltà, di esaminare come ipotesi ciò che sempre più  persone sparse nel mondo andiamo faticosamente comprendendo: la madre di tutte le violenze – la palestra e la pista di decollo – è la violenza sistemica contro i fratellini più piccoli e più indifesi che alleviamo in condizioni disumane per poi ucciderli in maniera crudelissima. La cultura cristiana – in questo tremendamente identica all’ebraica e all’islamica – è spietata verso miliardi di creature che trattiamo come merce senza sentimenti. Che il papa, i vescovi, i preti, i teologi, i fedeli laici spendano qualche volta una parola di misericordia per le vittime dello specismo: sperimenteranno che la tenerezza verso gli animali inermi ci induce ad aprire gli occhi sulla nostra violenza sistemica verso la natura in genere, i nostri bambini, le nostre donne, quei nostri simili che solo per ignoranza possiamo bollare come “diversi” e inferiori.

Certo, anche la convivenza con gli animali domestici può dare adito ad esagerazioni tra il patetico e il ridicolo (ho visto acquistare ciotole in argento per i croccantini e vietare di fotografare il proprio felino per salvaguardarne la privacy); ma non è certo l’unico campo in cui diamo sfogo alle nostre nevrosi.  Anche verso i figli biologici si può sbagliare per eccesso di consumismo e di permissivismo e – in perfetta buona fede – allevare egoisti capricciosi. Ma se qualcuno usa il fuoco per incendiare boschi o villaggi non è un motivo sufficiente per farne a meno sempre e comunque.

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

Versione originale su “Adista/Segni Nuovi”, n. 36 del 19.10.2024

sabato 12 ottobre 2024

UN GESTO CONCRETO CONTRO OGNI GUERRA IMMINENTE


Dopo la Seconda guerra mondiale la mia generazione ha avuto il privilegio di essere la prima nella storia dell’umanità a non sperimentare personalmente la tragedia della guerra, ma è stato un privilegio riservato solo alla popolazione di alcune nazioni come l’Italia: fuori da queste oasi il pianeta, quasi nella sua totalità, è stato devastato da centinaia di conflitti bellici (sia interni agli Stati che tra gli Stati). Anzi lo stesso esercito italiano ha partecipato a operazioni di guerra in varie zone del mondo, compreso il Kossovo a poche centinaia di chilometri: solo che le ha travestite da operazioni di pace…

Questa onnipresenza costante della guerra nella storia è da sola un ostacolo quasi insormontabile verso la pace: infatti nella mentalità dominante prevale la convinzione che la guerra sia fisiologica, non patologica. “C’è sempre stata: dunque, ci sarà sempre” – è il ritornello più insistente.

Allora le donne di Palermo che, dal 2022, ogni mese si riuniscono in una piazza con lo striscione ”Fuori la guerra dalla storia” sono delle ingenue utopiste? Dipende se intendiamo utopia come sogno irrealizzabile o come progetto realizzabile progressivamente e forse mia del tutto compiutamente. Solo due secoli fa affermare che la schiavitù era da estromettere dalla storia suonava come utopia in senso negativo; oggi sappiamo che non lo è, anche se è vero che essa non è stato eliminata né completamente (rimane di fatto, anche se non di diritto) né definitivamente (un potere politico totalitario la potrebbe ripristinare con buone probabilità di consenso maggioritario).

Uno dei pensatori italiani più saggi del Novecento, Norberto Bobbio, ha sostenuto (nel suo più volte riedito Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna 2022) che ci sono tre vie principali per la pace mondiale e che possiamo sperare di raggiungere l’obiettivo se le pratichiamo convergentemente, non alternativamente.

La prima è la via militare-diplomatica basata sugli equilibri delle potenze: se ogni Stato, o comunque gli Stati-guida, posseggono su per giù gli stessi armamenti (tra cui le bombe atomiche) è probabile che a nessuno di essi convenga  scatenare la guerra.

Questa via ha due difetti: non può escludere in assoluto che l’improbabile accada (e che la quarta guerra mondiale venga combattuta, secondo l’espressione di Einstein, a colpi di clava) e, soprattutto, che la guerra venga scatenata con tutte le armi possibili tranne le atomiche.

La seconda via è giuridico-istituzionale. Questa forma di pacifismo è figlia di una lunga tradizione: lo si fa spesso cominciare col trattato di Kant  Per la pace perpetua (1795), ma in realtà affonda le sue radici nei primi autori del giusnaturalismo moderno e ne ritroviamo delle interessanti anticipazioni in Erasmo da Rotterdam. “L’idea di fondo di questa tradizione è che il modo più efficace per garantire la pace tra due o più parti confliggenti sia costruire istituzioni giuridiche capaci – cioè aventi l’autorità – di decidere sulle ragioni del conflitto stesso” (T. Greco, Bobbio e la pace necessaria,           www.rivistailmulino.it, 5.3.2022). Una soluzione di questo tipo richiede che i soggetti coinvolti rinuncino ad una parte importante della propria sovranità e siano disposti ad entrare con gli altri in una unione sovrastatuale, come è avvenuto negli Stati Uniti d’America e come avevano proposto i padri dell’Unione europea fin dal Manifesto di Ventotene. Bobbio è convinto sin da giovane che «il federalismo è il principio più profondamente innovatore dell’età contemporanea»: solo  un patto federativo tra le nazioni può autorizzare il Terzo a intervenire, allo stesso modo in cui lo Stato interviene all’interno di un territorio definito.

Sappiamo che l’Onu, pur segnando un progresso rispetto alla Società delle Nazioni, costituisce un abbozzo di ciò che si dovrebbe realizzare per arrivare a istituzioni autenticamente efficaci. Da qui la necessità di una terza via, “etico-finalistica”, fondata sulla capacità umana di evolversi moralmente sino ad arrivare a ritenere universalmente ripugnante ciò che in ere anteriori era praticato abitualmente: ad esempio il cannibalismo. Qui la parola deve passare da Bobbio a un suo caro amico e collega, Aldo Capitini, teorico e operatore della “nonviolenza”. Il filosofo perugino – in sintonia con altri grandi esponenti della nonviolenza – chiarisce alcuni equivoci semantici: primo fra tutti l’identificazione di “conflitto” (inevitabile e talora trasformativo) e “guerra”, che è “la patologia del conflitto, la sua degenerazione violenta” (V. Bartolucci, Costruire la pace, www.rivistailmulino.it , 11.6.2022).  Inoltre

vanno distinte “forza” (che non è necessariamente violenta)  e “violenza” (che spesso non è indice di forza). “Anche l’aggressività, spesso confusa con la violenza, in realtà va distinta da essa. Come ci insegnano gli psicologi, si può essere aggressivi senza essere al contempo violenti. Se non controllata, l’aggressività può certamente sfociare in violenza, ma, se gestita può trasformarsi in determinazione. La distruttività, insomma, è solo uno degli esiti dell’aggressività che, opportunamente incanalata, può essere vitale, creativa e funzionale” (ivi).

Solo alla luce di queste delucidazioni concettuali e linguistiche si possono leggere vari episodi storici, come la resistenza nonviolenta dei danesi all’invasione nazista, che attestano come, “se è indubbiamente vero che la nonviolenza non sempre funziona (…) è altrettanto vero che riesce a conseguire la maggior parte degli obiettivi prefissati più spesso di quanto non faccia la violenza” (ivi). Essa può essere vista come “un ponte immaginario tra il passato definito dalla guerra, che non dovrebbe esserci più ma che c’è ancora, e il futuro, la nuova società che non c’è ancora ma a cui tendiamo” (ivi).

Non è facile, quando già si è immersi nella piena di una guerra, indicare strategie concrete per uscirne: ma è sicuro che non si troveranno se non si cercheranno, convinti che non ci siano alternative tra uccidere e arrendersi. Invece, “i grandi maestri della nonviolenza ci hanno insegnato che la nonviolenza non è semplice rifiuto o mera astensione dalla violenza, né resistenza passiva. Al contrario, è qualcosa di positivo, un fare”, un “trattare l’altro come un essere umano” allo scopo di “riuscire a spostare l’equilibrio morale e, con esso, l’equilibrio di potere” (ivi). Coloro che la praticano “sono spesso tacciati di essere ingenui, pericolosi o addirittura codardi”, laddove forse adottano “l’unica risposta razionale, lungimirante e possibile per una società veramente pacifica. Certo, le numerosissime pratiche di pace, portate avanti ogni giorno e necessarie anche a creare una cultura di pace, rimangono ancora ai margini, oscurate dal fracasso della chiamata alle armi. Sta a ognuno di noi dare loro una voce” (ivi).

In un’ottica preventiva, oggi gli uomini italiani tra i 18 e i 40 anni (la cui leva militare obbligatoria è stata ‘sospesa’ non ‘abolita’) possono compiere un gesto concreto: dichiararsi obiettori di coscienza in caso di chiamata alle armi. Sul sito del Movimento Nonviolento c’è già un modulo predisposto da compilare e spedire con un clic: https://www.azionenonviolenta.it/obiezione-alla-guerra-2/

 

Augusto Cavadi

Centro palermitano del Movimento Nonviolento

 

Versione originaria qui: https://www.girodivite.it/Un-piccolo-gesto-concreto-contro.html

 

martedì 8 ottobre 2024

L'INGRATITUDINE: UN PONTE DAL DONO AL PER-DONO


La cultura del sospetto non ha risparmiato neppure uno dei gesti che compensano la tristezza del vivere: il donare. Gesto che, di primo acchito, colleghiamo mentalmente con un oggetto che passa da una mano all’altra, ma che – se ci riflettiamo anche solo un po’ – implica, o può implicare, il coinvolgimento di un soggetto che si offre. L’ombra del sospetto si estende sia sull’atto del donare qualcosa che sull’atto del donare se stessi.

 

Qualche volta il dono è gratuito

Nel dono di qualcosa, infatti, gli antropologi individuano – al di sotto di un’apparenza di gratuità -  un’intenzionalità interessata: un regalo sarebbe sempre il ricambio di un dono ricevuto nel passato o il pegno di un dono atteso nel futuro. Nella maggioranza statistica dei casi essi hanno ragione e solo un ottimismo antropologico miope può negarlo: il dono gratuito è raro, più spesso è restituzione o garanzia. Tuttavia, parafrasando un motto che si attribuisce a Freud (“In certi casi fumare un sigaro significa fumare un sigaro”), il realismo impone di essere realisti sino in fondo e di accettare che, ogni tanto, inaspettatamente, regalare qualcosa significhi…regalare qualcosa (gratuitamente). Forse, in questo caso, il mantello dell’anonimato nasconde il volto del donante agli occhi del donatario e, nel caso della più pura delle gratuità, il volto del donatario agli occhi del donante. Derrida è arrivato ad affermare,

“paradossalmente e provocatoriamente, che se il dono è possibile, lo è nella forma della sua impossibilità, ovvero il dono può esistere solo non apparendo, non presentandosi come dono, lasciandosi dimenticare, scomparendo nell’inconsapevolezza”[1] .

 Prevedere i benefici per sé non significa perseguirli come fine

Ma, perfino nel dono più disinteressato, non si cela – talora ai propri stessi occhi – il desiderio di provare una gratificazione psicologica ? Non cova il proposito – anche solo inconscio – di regalare qualcosa a qualcuno (fosse persino ignoto) per regalare un momento di gioia, o perlomeno di soddisfazione, a se stessi?

Questa obiezione si configura a maggior ragione quando il donatore offre, più che oggetti, qualcosa della sua soggettività: tempo, attenzione, ascolto, affetto, competenze, solidarietà, cura…Tipico il caso del volontariato: “Ti occupi di doposcuola nei rioni popolari o di animare i pomeriggi negli ospizi per anziani perché sei  soffocato dai sensi di colpa per i tuoi privilegi borghesi…perché muori di noia quando non sei in ufficio…per sentirti moralmente migliore di quelli che, a differenza di te, si possono godere la vita tra i lussi e gli sprechi…”.

Che si doni qualcosa o sé stessi, un vantaggio di ritorno è inevitabile. E’ per una dinamica fisiologica (direi ontologica) che chi dà, o si dà, riceve. Secondo qualcuno, addirittura, è solo dando che si riceve davvero. Ma una cosa è prevedere un effetto, un’altra cosa perseguirlo come fine. Non c’è nulla di patologico nel prevedere che un’esistenza pro-attiva significhi un’esistenza più gratificante, più serena, talora più lieta, comunque più resistente ai colpi del destino. Il donare viene stravolto, snaturato, quando viene attivato in vista dei benefici (psicologici, sociali o addirittura materiali) che possiamo trarne.  In questi casi esso viene ridotto alla misera caricatura di se stesso.

Come distinguere, se è possibile distinguerle, l’(auto)-donazione gratuita dall’ (auto)- donazione pervertita o invertita? Risponderei: per fortuna, se ne occupa la vita. E se ne occupa servendosi dei destinatari dei nostri doni. Più precisamente: servendosi della loro ingratitudine. La letteratura di tutto il mondo, e prima ancora l’esperienza quotidiana, ci attestano come sia rara la magnanimità di chi accoglie un dono senza avvertire risentimento nei confronti del donatore. Di solito è più facile che si risani la ferita infertaci da un’offesa che da un beneficio. Infatti accogliere qualcosa o qualcuno rivela che avevamo uno spazio, un vuoto, un bisogno da colmare: che, almeno per un certo aspetto e in un certo momento, eravamo indigenti.

 

Dal dono all’iper-dono

L’ingratitudine ci spiazza, ci disorienta, ma può anche fungere da test.

 Mi amareggia al punto da farmi pentire del dono offerto? Molto probabilmente la mia era una generosità pelosa.

Mi amareggia, ma non mi convince di aver sbagliato né mi induce alla chiusura in occasioni simili nel futuro? Molto probabilmente la mia era una generosità autentica. Al punto che il dono iniziale si è reduplicato: è diventato bis-dono. Iper-dono. Per-dono. E’ proprio nella misura in cui sappiamo sperimentare, con fatica ma senza forzature, l’esercizio del per/dono che possiamo pesare la nostra effettiva capacità di dono.

Se il dono autentico è già segno e frutto dell’agape – dell’amore davvero gratuito perché privo di qualsiasi forma di ricambio -, l’agape si esprime pienamente nel perdono. Lo nota anche un pensatore ‘laico’ come Salvatore Natoli:

“La virtù, alla fine, nonostante tutto, non può mai essere privata, ma deve essere mossa da un grande, infinito amore per l’umanità. La virtù, per essere efficace, non può non perdonare. Deve saper amare. E, forse, già in questo mondo, si possono generare sementi che possono produrre un’autenticità dei soggetti e uno spazio vero, autentico, non giuridico, di libertà”[2].

Anche qui – contro ogni retorica ‘buonista’ – bisogna ammettere che il per/dono, proprio come il dono, comporta una liberazione del perdonante pari, se non superiore, al sollievo sperimentato dal perdonato (quando questi ne venga a conoscenza e lo accetti sinceramente). Vari studi psicoterapeutici confermano che il perdono è

“lo strumento che la vittima ha per liberarsi dal passato, una risorsa per spezzare quella forma di ‘dipendenza’ che ancora la lega al torto subito e alla persona che lo ha commesso, e favorire così un atteggiamento di compassione, accettazione e armonia nelle relazioni umane”[3] .

 

Ma – contro ogni retorica ‘cattivista’ (se posso coniare un neologismo) – bisogna rassicurarsi: non si può perdonare solo per interesse proprio, principalmente per soccorrere se stessi. Il perdono libera chi lo pratica solo se lo pratica cordialmente: il finto perdono non è solo ipocrita, ma prima ancora inutile. Solo il perdono maturato con autenticità risulta efficace psicologicamente e moralmente per il perdonante.

Qui s’impone una parentesi.

“Perdonare non vuol dire dimenticare, non si tratta di rimuovere dalla propria memoria tutto quello che è accaduto. Al contrario, significa tenere bene a mente quanto è successo, comprendendone gli insegnamenti. (…) Perdonare non è, appunto, giustificare o condonare. E non è neanche una strategia di fuga superficiale motivata dalla fretta di risolvere un conflitto; non si tratta di falsa cortesia e buone maniere che nascondono accuse velate; non è sicuramente un atto di umiliazione, denigrazione di se stessi o perdita di dignità, nella vana speranza di impietosire e provocare senso di colpa”[4].

Se tutto questo è vero, se ne evince che solo chi ha subito personalmente un torto ha il diritto (se vuole, se può) di perdonare – un diritto che non può mai intendersi come dovere di dimenticare, di cancellare gli orrori perpetrati. Lo ricorda tra gli altri il filosofo ebreo Jankélévitch:

 “Come possono i sopravvissuti perdonare al posto delle vittime o in nome dei reduci, dei loro genitori, dei loro familiari? No, non spetta a noi perdonare per i bambini che i bruti si divertivano a suppliziare. Bisognerebbe che fossero i bambini stessi a perdonare”[5].

Chiusa la parentesi, riprendiamo il filo della riflessione: perdonare gli altri per i torti che ci hanno inflitto – ad esempio per la loro ingratitudine - è difficile. Ma ancora più difficile è perdonare se stessi. Anche chi ritiene di assolversi facilmente da errori e sviste, può avvertire un senso radicale di rancore: e, se scava, scopre di provare risentimento verso il proprio io. Troppe occasioni perdute, troppe energie sprecate. Non mi riferisco al “senso di colpa” che è un meccanismo inconscio da curare, di cui liberarci, in quanto riferito a “colpe” immaginarie di cui non siamo oggettivamente responsabili; ma del “senso della colpa” – meglio: “senso delle colpe” – che non ha nulla di patologico perché è consapevolezza, forse irriflessa e confusa, di “colpe” effettivamente commesse da noi.

Tipico, in proposito, il caso dei veterani di guerre (specie se combattute con motivazioni imperialistiche e contro eserciti popolari poco armati, come nel caso delle operazioni belliche degli USA in Vietnam nella seconda metà del XX secolo): persone che, tornate alla vita precedente, non riescono a concedersi quiete, distruggono le relazioni familiari e amicali, sperimentano la depressione sino al suicidio[6].

Secondo qualcuno il vertice del perdono non si tocca quando si concede il perdono ad altri o a sé, ma quando lo si chiede a chi ha commesso il male:

“Perdonare chi ci ha fatto del male e i dolori del passato sembra una sfida estrema riservata a pochi. E se invece osassimo molto di più? Se provassimo a guardare in faccia il peggiore dei nostri nemici, un assassino, un pedofilo, un pluriomicida ergastolano e, occhi negli occhi, avessimo il coraggio di pronunciare quattro semplici parole: <<Io ti chiedo perdono>>? Quattro semplici parole: <<Io ti chiedo perdono>>. Probabilmente anche solo immaginarlo scatenerebbe nella maggior parte delle persone senso di rifiuto e di rabbia. Eppure è proprio quello che faccio con i detenuti che incontro nelle carceri. Ho chiesto perdono a ognuno di loro. Sinceramente. Le lacrime che sono scese dai loro occhi e dai miei raccontano senza finzione quanto ancora lontani siamo, come società, dalla possibilità di comprendere la radice del disagio e del dolore altrui. Un’assoluta mancanza di consapevolezza che emerge ogni qualvolta qualcuno dice: <<Gettiamolo in cella e buttiamo via la chiave>>. E così facendo condanna all’ignoranza se stesso e le persone che ama”[7] .

Anch’io frequento le carceri, ma sinceramente non ho mai sperimentato (per difetto di generosità o forse per senso di opportunità) ciò che Daniel Lumera, ideatore della International School of Forgiveness e della “Giornata Internazionale del Perdono”, racconta. Accolgo con rispetto la sua testimonianza, ma ritengo che essenziale sia non tanto replicarla letteralmente quanto coglierne lo spirito. Che si potrebbe individuare almeno a quattro livelli di profondità.

Innanzitutto significa aver consapevolezza che, a livello ontologico, siamo tutti e tutte legati/e da una comune solidarietà ‘oggettiva’ che ci rende responsabili vicendevolmente. Nessuno è totalmente innocente del male della storia come nessuno ne è in esclusiva l’autore. “L’idea che il male sono gli altri impedisce all’umanità di considerare la propria barbarie interiore” [8]afferma Patrick Viveret. Il che non significa azzerare le differenze di responsabilità nei confronti degli errori storici e delle sofferenze da essi derivate, ma solo che - sino a quando i ‘buoni’ si relazioneranno ai ‘cattivi’ dall’alto di uno scranno di tribunale - non sarà possibile fare spazio alla verità delle cose né, conseguentemente, a una pace durevole.

A livello etico,  viene rivelata la compassione verso il criminale che non sarebbe diventato tale se non avesse sperimentato forti sofferenze. Tale, almeno, la convinzione di Kierkegaard, rilanciata ai nostri giorni anche da Eugen Drewermann, che non si è infelici perché si è peccatori, ma si è peccatori perché infelici: non soffriamo perché ci siamo comportati male in alcune circostanze, ma ci comportiamo male in alcune (o in molte) circostanze perché soffriamo il vuoto di senso, di gratificazione interiore.

A livello etico-politico suggerisce un atteggiamento nonviolento nei confronti dei nostri avversari, anche quando non sono nemici ‘personali’ ma delle nostre comunità civiche: dunque un atteggiamento che non coltiva l’odio come antidoto all’odio; che neppure si limita a tagliare ogni relazione con il colpevole di reato, ma che cerca – attivamente, costruttivamente - il confronto sincero alla ricerca di una evoluzione di entrambi i contendenti verso punti di vista più saggi e più equi[9].  

A livello politico-giuridico rivela la convinzione che nessuna società può pretendere l’osservanza dei doveri da quei cittadini a cui non ha garantito il rispetto dei diritti fondamentali. La legalità è sacra solo quando è giusta. Ed essa è ingiusta quando è “buona solo a imporre doveri senza costruire diritti”; quando è

 “espressione di uno Stato e di una società che non si fanno carico di certe situazioni sociali, che non le seguono per come sono, ma per affermare soltanto come devono essere”[10] .

 

                                                                        Augusto Cavadi



[1] Un’esposizione critica del pensiero di Derrida, in (relativa) contrapposizione a Marcel Mauss, nel capitolo La gratuità e il dono: può il dono essere davvero gratuito?  del volume di F. Giardina, La gratuità. Piacevole agli altri, ma senza un perché e senza uno scopo, Diogene Multimedia, Bologna s.d., pp. 23 – 40.  

[2] S. Natoli, Aver cura di sé in F. Nodari (a cura di), Vizi e virtù, La Compagnia della stampa Massetti Rodella Editori, Roccafranca 2008, p. 54, cit. in A. Cavadi, La filosofia come terapia dell’anima. Linee essenziali per una spiritualità filosofica, Diogene Multimedia, Bologna 2019, pp. 116 – 117.

[3] I. De Vivo – D. Lumera, La scienza del perdono e della gratitudine in I. De Vivo – D. Lumera, Biologia della gentilezza. Le 6 scelte quotidiane per Salute, Benessere e Longevità, Mondadori, Milano 2020, p.103.

[4] D. Lumera, Perdono e gratitudine in I. De Vivo – D. Lumera, Biologia della gentilezza, cit., p. 85.

[5] V.  Jankélévitch,  Perdonare?  , Giuntina, Firenze 2004,  p. 44, cit. in A. Cavadi, La filosofia come terapia, cit., pp. 165 – 166.

[6] “Qualunque sia la causa del rimorso, è il perdono verso se stessi la chiave dei percorsi terapeutici più efficaci. Gli studi condotti spiegano che questa strada può non essere sufficiente di per sé a guarire le ferite interiori, ma si è dimostrata molto utile nell’agevolare tale processo, aiutando le persone a ritrovare una serenità sulla quale costruire una guarigione più duratura e un rapporto più sano con se stessi e con gli altri” (I. De Vivo – D. Lumera, La scienza del perdono, cit., p. 101).

[7] D. Lumera, Perdono e gratitudine in I. De Vivo – D. Lumera, Biologia della gentilezza, cit., p. 82.

[8] P. Viveret, Che cosa faremo della nostra vita? In E. Morin – P. Viveret, Come vivere in tempi di crisi?, Book Time, Milano 2011, p. 57, cit. in A. Cavadi, La filosofia come terapia, cit., p. 168.

[9] Su questa tematica sterminata vedere, per orientarsi, le pagine 39 – 47 (dedicate alla mediazione familiare, penale, scolastica e comunitaria) in A. Cozzo, La nonviolenza oltre i pregiudizi. Cose da sapere prima di condividerla o rifiutarla, Di Girolamo, Trapani 2023 ed anche M. Pignatti Morano, La prospettiva della giustizia rigenerativa in V. Sanfilippo (ed.), Nonviolenza e mafia. Idee ed esperienze per un superamento del sistema mafioso, Di Girolamo, Trapani 2005, pp.47 – 52.

[10] S. Margara, Sul confine del deserto in “Rivista del volontariato”, 5 (2002) X, pp. 10- 11, cit. in A. Cavadi, Legalità, Di Girolamo, Trapani 2013, pp. 26 - 27.

 * Edizione originaria sulla rivista cartacea "Le frontiere della scuola" (n. 64).