La cultura
del sospetto non ha risparmiato neppure uno dei gesti che compensano la
tristezza del vivere: il donare. Gesto che, di primo acchito, colleghiamo
mentalmente con un oggetto che passa da una mano all’altra, ma che – se
ci riflettiamo anche solo un po’ – implica, o può implicare, il coinvolgimento
di un soggetto che si offre. L’ombra del sospetto si estende sia sull’atto
del donare qualcosa che sull’atto del donare se stessi.
Qualche
volta il dono è gratuito
Nel dono di
qualcosa, infatti, gli antropologi individuano – al di sotto di un’apparenza di
gratuità - un’intenzionalità
interessata: un regalo sarebbe sempre il ricambio di un dono ricevuto
nel passato o il pegno di un dono atteso nel futuro. Nella maggioranza
statistica dei casi essi hanno ragione e solo un ottimismo antropologico miope
può negarlo: il dono gratuito è raro, più spesso è restituzione o garanzia.
Tuttavia, parafrasando un motto che si attribuisce a Freud (“In certi casi
fumare un sigaro significa fumare un sigaro”), il realismo impone di essere
realisti sino in fondo e di accettare che, ogni tanto, inaspettatamente,
regalare qualcosa significhi…regalare qualcosa (gratuitamente). Forse, in
questo caso, il mantello dell’anonimato nasconde il volto del donante agli
occhi del donatario e, nel caso della più pura delle gratuità, il volto del
donatario agli occhi del donante. Derrida è arrivato ad affermare,
“paradossalmente
e provocatoriamente, che se il dono è possibile, lo è nella forma della sua
impossibilità, ovvero il dono può esistere solo non apparendo, non
presentandosi come dono, lasciandosi dimenticare, scomparendo
nell’inconsapevolezza”
.
Prevedere i benefici per sé non significa
perseguirli come fine
Ma, perfino nel dono più
disinteressato, non si cela – talora ai propri stessi occhi – il desiderio di
provare una gratificazione psicologica ? Non cova il proposito – anche solo
inconscio – di regalare qualcosa a qualcuno (fosse persino ignoto) per
regalare un momento di gioia, o perlomeno di soddisfazione, a se stessi?
Questa obiezione si configura a
maggior ragione quando il donatore offre, più che oggetti, qualcosa della sua
soggettività: tempo, attenzione, ascolto, affetto, competenze, solidarietà,
cura…Tipico il caso del volontariato: “Ti occupi di doposcuola nei rioni
popolari o di animare i pomeriggi negli ospizi per anziani perché sei soffocato dai sensi di colpa per i tuoi
privilegi borghesi…perché muori di noia quando non sei in ufficio…per sentirti
moralmente migliore di quelli che, a differenza di te, si possono godere la
vita tra i lussi e gli sprechi…”.
Che si doni qualcosa o sé stessi, un
vantaggio di ritorno è inevitabile. E’ per una dinamica fisiologica (direi
ontologica) che chi dà, o si dà, riceve. Secondo qualcuno, addirittura, è solo
dando che si riceve davvero. Ma una cosa è prevedere un effetto,
un’altra cosa perseguirlo come fine. Non c’è nulla di patologico nel
prevedere che un’esistenza pro-attiva significhi un’esistenza più gratificante,
più serena, talora più lieta, comunque più resistente ai colpi del destino. Il
donare viene stravolto, snaturato, quando viene attivato in vista dei benefici
(psicologici, sociali o addirittura materiali) che possiamo trarne. In questi casi esso viene ridotto alla misera
caricatura di se stesso.
Come distinguere, se è possibile
distinguerle, l’(auto)-donazione gratuita dall’ (auto)- donazione pervertita o
invertita? Risponderei: per fortuna, se ne occupa la vita. E se ne occupa
servendosi dei destinatari dei nostri doni. Più precisamente: servendosi della
loro ingratitudine. La letteratura di tutto il mondo, e prima ancora
l’esperienza quotidiana, ci attestano come sia rara la magnanimità di chi
accoglie un dono senza avvertire risentimento nei confronti del donatore. Di
solito è più facile che si risani la ferita infertaci da un’offesa che da un
beneficio. Infatti accogliere qualcosa o qualcuno rivela che avevamo uno
spazio, un vuoto, un bisogno da colmare: che, almeno per un certo aspetto e in
un certo momento, eravamo indigenti.
Dal dono
all’iper-dono
L’ingratitudine ci spiazza, ci
disorienta, ma può anche fungere da test.
Mi amareggia al punto da farmi pentire del
dono offerto? Molto probabilmente la mia era una generosità pelosa.
Mi amareggia, ma non mi convince di
aver sbagliato né mi induce alla chiusura in occasioni simili nel futuro? Molto
probabilmente la mia era una generosità autentica. Al punto che il dono
iniziale si è reduplicato: è diventato bis-dono. Iper-dono. Per-dono. E’
proprio nella misura in cui sappiamo sperimentare, con fatica ma senza
forzature, l’esercizio del per/dono che possiamo pesare la nostra
effettiva capacità di dono.
Se il dono autentico è già segno e frutto dell’agape – dell’amore davvero gratuito
perché privo di qualsiasi forma di ricambio -, l’agape si esprime
pienamente nel perdono. Lo nota anche un pensatore ‘laico’ come Salvatore
Natoli:
“La virtù,
alla fine, nonostante tutto, non può mai essere privata, ma deve essere mossa
da un grande, infinito amore per l’umanità. La virtù, per essere efficace, non
può non perdonare. Deve saper amare. E, forse, già in questo mondo, si possono
generare sementi che possono produrre un’autenticità dei soggetti e uno spazio
vero, autentico, non giuridico, di libertà”.
Anche qui –
contro ogni retorica ‘buonista’ – bisogna ammettere che il per/dono, proprio
come il dono, comporta una liberazione del perdonante pari, se non superiore,
al sollievo sperimentato dal perdonato (quando questi ne venga a conoscenza e
lo accetti sinceramente). Vari studi psicoterapeutici confermano che il perdono
è
“lo
strumento che la vittima ha per liberarsi dal passato, una risorsa per spezzare
quella forma di ‘dipendenza’ che ancora la lega al torto subito e alla persona
che lo ha commesso, e favorire così un atteggiamento di compassione,
accettazione e armonia nelle relazioni umane”
.
Ma – contro
ogni retorica ‘cattivista’ (se posso coniare un neologismo) – bisogna
rassicurarsi: non si può perdonare solo per interesse proprio, principalmente per
soccorrere se stessi. Il perdono libera chi lo pratica solo se lo pratica
cordialmente: il finto perdono non è solo ipocrita, ma prima ancora inutile.
Solo il perdono maturato con autenticità risulta efficace psicologicamente e
moralmente per il perdonante.
Qui s’impone
una parentesi.
“Perdonare
non vuol dire dimenticare, non si tratta di rimuovere dalla propria memoria
tutto quello che è accaduto. Al contrario, significa tenere bene a mente quanto
è successo, comprendendone gli insegnamenti. (…) Perdonare non è, appunto,
giustificare o condonare. E non è neanche una strategia di fuga superficiale
motivata dalla fretta di risolvere un conflitto; non si tratta di falsa cortesia
e buone maniere che nascondono accuse velate; non è sicuramente un atto di
umiliazione, denigrazione di se stessi o perdita di dignità, nella vana
speranza di impietosire e provocare senso di colpa”.
Se tutto
questo è vero, se ne evince che solo chi ha subito personalmente un torto ha il
diritto (se vuole, se può) di perdonare – un diritto che non può mai intendersi
come dovere di dimenticare, di cancellare gli orrori perpetrati. Lo ricorda tra
gli altri il filosofo ebreo Jankélévitch:
“Come possono i sopravvissuti perdonare al
posto delle vittime o in nome dei reduci, dei loro genitori, dei loro
familiari? No, non spetta a noi perdonare per i bambini che i bruti si
divertivano a suppliziare. Bisognerebbe che fossero i bambini stessi a
perdonare”.
Chiusa la parentesi,
riprendiamo il filo della riflessione: perdonare gli altri per i torti che ci
hanno inflitto – ad esempio per la loro ingratitudine - è difficile. Ma ancora
più difficile è perdonare se stessi. Anche chi ritiene di assolversi facilmente
da errori e sviste, può avvertire un senso radicale di rancore: e, se scava,
scopre di provare risentimento verso il proprio io. Troppe occasioni perdute,
troppe energie sprecate. Non mi riferisco al “senso di colpa” che è un
meccanismo inconscio da curare, di cui liberarci, in quanto riferito a “colpe”
immaginarie di cui non siamo oggettivamente responsabili; ma del “senso della
colpa” – meglio: “senso delle colpe” – che non ha nulla di patologico perché è
consapevolezza, forse irriflessa e confusa, di “colpe” effettivamente commesse
da noi.
Tipico, in proposito, il
caso dei veterani di guerre (specie se combattute con motivazioni
imperialistiche e contro eserciti popolari poco armati, come nel caso delle
operazioni belliche degli USA in Vietnam nella seconda metà del XX secolo):
persone che, tornate alla vita precedente, non riescono a concedersi quiete,
distruggono le relazioni familiari e amicali, sperimentano la depressione sino
al suicidio.
Secondo
qualcuno il vertice del perdono non si tocca quando si concede il
perdono ad altri o a sé, ma quando lo si chiede a chi ha commesso il
male:
“Perdonare
chi ci ha fatto del male e i dolori del passato sembra una sfida estrema
riservata a pochi. E se invece osassimo molto di più? Se provassimo a guardare
in faccia il peggiore dei nostri nemici, un assassino, un pedofilo, un
pluriomicida ergastolano e, occhi negli occhi, avessimo il coraggio di
pronunciare quattro semplici parole: <<Io ti chiedo perdono>>?
Quattro semplici parole: <<Io ti chiedo perdono>>. Probabilmente
anche solo immaginarlo scatenerebbe nella maggior parte delle persone senso di rifiuto
e di rabbia. Eppure è proprio quello che faccio con i detenuti che incontro
nelle carceri. Ho chiesto perdono a ognuno di loro. Sinceramente. Le lacrime
che sono scese dai loro occhi e dai miei raccontano senza finzione quanto
ancora lontani siamo, come società, dalla possibilità di comprendere la radice
del disagio e del dolore altrui. Un’assoluta mancanza di consapevolezza che
emerge ogni qualvolta qualcuno dice: <<Gettiamolo in cella e buttiamo via
la chiave>>. E così facendo condanna all’ignoranza se stesso e le persone
che ama”
.
Anch’io frequento le carceri, ma
sinceramente non ho mai sperimentato (per difetto di generosità o forse per
senso di opportunità) ciò che Daniel Lumera, ideatore della International
School of Forgiveness e della “Giornata Internazionale del Perdono”,
racconta. Accolgo con rispetto la sua testimonianza, ma ritengo che essenziale
sia non tanto replicarla letteralmente quanto coglierne lo spirito. Che si
potrebbe individuare almeno a quattro livelli di profondità.
Innanzitutto significa aver
consapevolezza che, a livello ontologico, siamo tutti e tutte legati/e da una
comune solidarietà ‘oggettiva’ che ci rende responsabili vicendevolmente.
Nessuno è totalmente innocente del male della storia come nessuno ne è in esclusiva
l’autore. “L’idea che il male sono gli altri impedisce all’umanità di
considerare la propria barbarie interiore” afferma
Patrick Viveret. Il che non significa azzerare le differenze di responsabilità
nei confronti degli errori storici e delle sofferenze da essi derivate, ma solo
che - sino a quando i ‘buoni’ si relazioneranno ai ‘cattivi’ dall’alto di uno
scranno di tribunale - non sarà possibile fare spazio alla verità delle cose
né, conseguentemente, a una pace durevole.
A livello etico, viene rivelata la compassione verso il
criminale che non sarebbe diventato tale se non avesse sperimentato forti
sofferenze. Tale, almeno, la convinzione di Kierkegaard, rilanciata ai nostri
giorni anche da Eugen Drewermann, che non si è infelici perché si è peccatori,
ma si è peccatori perché infelici: non soffriamo perché ci siamo comportati
male in alcune circostanze, ma ci comportiamo male in alcune (o in molte)
circostanze perché soffriamo il vuoto di senso, di gratificazione interiore.
A livello etico-politico suggerisce
un atteggiamento nonviolento nei confronti dei nostri avversari, anche quando
non sono nemici ‘personali’ ma delle nostre comunità civiche: dunque un
atteggiamento che non coltiva l’odio come antidoto all’odio; che neppure si
limita a tagliare ogni relazione con il colpevole di reato, ma che cerca –
attivamente, costruttivamente - il confronto sincero alla ricerca di una
evoluzione di entrambi i contendenti verso punti di vista più saggi e più equi.
A livello
politico-giuridico rivela la convinzione che nessuna società può pretendere
l’osservanza dei doveri da quei cittadini a cui non ha garantito il rispetto
dei diritti fondamentali. La legalità è sacra solo quando è giusta. Ed essa è
ingiusta quando è “buona solo a imporre doveri senza costruire diritti”; quando
è
“espressione di uno Stato e di una società che
non si fanno carico di certe situazioni sociali, che non le seguono per come
sono, ma per affermare soltanto come devono essere”
.
Augusto Cavadi
D. Lumera, Perdono e gratitudine
in I. De Vivo – D. Lumera, Biologia della gentilezza, cit., p. 82.
S. Margara, Sul confine del
deserto in “Rivista del volontariato”, 5 (2002) X, pp. 10- 11, cit. in A.
Cavadi, Legalità, Di Girolamo, Trapani 2013, pp. 26 - 27.