domenica 29 settembre 2024

GLI ITALIANI CONTRARI A OGNI GUERRA PROVANO A RACCORDARSI

 Nel 2004 un nutrito gruppo di organizzazioni  (fra cui Arci, Acli, Mir, Movimento nonviolento…) hanno costituito la Rete Italiana per il Disarmo. La dicitura si presta ad equivoci: infatti può suggerire solo un rifiuto (no alle armi), mentre in realtà il coordinamento delle associazioni avanza molte proposte in positivo (tra cui l’istituzione di una struttura statale per la Difesa popolare nonviolenta).  Dieci anni dopo (nel 2014) alla costellazione precedente si è affiancata la Rete della Pace, anch’essa costituita da un considerevole numero di sigle (fra cui Agesci, Auser, Libera, Un ponte per…). Data l’affinità di intenti, le due reti nel 2020 hanno saggiamente deciso di confluire nella Rete Italiana Pace e Disarmo, nel cui sito web ( https://retepacedisarmo.org/) è possibile attingere tutte le informazioni, le documentazioni e i chiarimenti che si possano desiderare.

La breve premessa ‘storica’ per precisare che non tutti i cittadini procedono da emergenza a emergenza, da allarme ad allarme, ma ci sono anche delle minoranze che si intestano delle cause meritevoli di attenzione (come il contrasto alla mafia o alla violenza sulle donne o, appunto, alle guerre) e le perseguono caparbiamente, metodicamente, anche negli intervalli in cui l’opinione pubblica si occupa di altro.

Ad esempio l’appello che da pochi giorni è stato lanciato dalla Rete Italiana Pace e Disarmo, pur legato alla contingenza degli attuali conflitti bellici, si configura non come  un fungo isolato bensì come una tappa di un percorso che parte da lontano. Nel manifesto si dà voce a quella che, secondo i sondaggi, sarebbe l’opinione maggioritaria nel Paese, anche se i partiti presenti in Parlamento (in qualche caso perfino all’opposizione del Governo) fanno finta di non accorgersene: “Stati e Governi europei hanno scommesso sul riarmo per mantenere la supremazia ‘occidentale’ sul mondo attraverso il rafforzamento dell’Alleanza Atlantica, anziché investire sulla diplomazia, sul dialogo, sul diritto internazionale e sulle Nazioni Unite per affermare un mondo di pace e collaborazione paritaria tra i popoli, anche di fronte a sfide globali come il riscaldamento climatico. Un percorso forzato che arriva addirittura a prospettare i bond comuni europei per l’investimento nelle armi, oppure la proposta di tenere fuori dal patto di stabilità le spese militari. Sembra proprio che l’Europa abbia smarrito la sua mission originaria (basti citare il Manifesto di Ventotene): mentre cresce l'idea di un'Europa come fortezza difensiva da un'umanità inerme che approda ai nostri confini fuggendo da guerre, fame, miseria e cambiamenti climatici, assistiamo attoniti al rafforzamento dei nazionalismi attraverso un miope e pericoloso militarismo, che storicamente nel nostro continente sono stati detonatori di guerre”.

Un riferimento specifico non poteva mancare al “grottesco doppio standard di scelte politiche rispetto alla tragedia che sta avvenendo in Palestina e che ha assunto da tempo proporzioni sconvolgenti e inaccettabili”: mentre si decidono “comprensibili sanzioni alla Federazione Russa”, si consente all’attuale governo israeliano di sterminare un popolo per colpire la banda di terroristi di cui la stragrande maggioranza di quella popolazione è la prima vittima.

L’appello del documento è rivolto, al di là degli schieramenti partitici, a quanti vogliano  

“costruire posizioni condivise, responsabili e coraggiose, a partire da preoccupazioni e domande condivise” quali, ad esempio: “Come rilanciare in Italia lo spirito e la lettera dell’art. 11 della Costituzione come barriera insormontabile contro ogni bellicismo? Come operare nei confronti dellUE per contrastare le posizioni belliciste oggi di gran lunga maggioritarie? A cosa ci porterà la scelta di proseguire il processo di allargamento della NATO, della deterrenza militare/nucleare? Come costruire un robusto pensiero pacifista e nonviolento, plurale e unitario, in grado di comprendere tutte le spinte di diversa matrice ideale, culturale e politica verso la pace, nella prospettiva di un nuovo pacifismo in grado di rappresentare e coinvolgere la grande maggioranza delle popolazioni? Siamo pronti a farlo in maniera strutturale, andando a colpire il cuore di un sistema di interessi militari-industriali-finanziari che con l'aumento delle spese militari e il rafforzamento del commercio di armi drena risorse economiche dall'ambito pubblico e sociale per favorire gli interessi di pochi, legati a doppio filo con i poteri politici globali che traggono profitto dalle guerre?”

Dopo il Sessantotto, con le sue ambiguità ma anche con le sue indubbie conquiste, l’umanità sembra aver spedito in soffitta ogni ideale ‘utopico’: ma se in ogni generazione, da millenni, non ci fosse stato qualcuno capace di pensare l’impensato, saremmo molto lontano dalle caverne e dalle clave?

 

Augusto Cavadi

 

Versione originale pubblicata il 25.9.2024 su:

https://www.girodivite.it/Gli-Italiani-contrari-a-ogni.html

giovedì 26 settembre 2024

INVECE DEI CATECHISMI PARROCCHIALI PIU’ DIFFUSI…

In un articolo di alcuni decenni fa Luigi Lombardi Vallauri – già docente di Filosofia del diritto alla Cattolica di Milano – sosteneva la necessità di vietare il catechismo  ai minori di 18 anni. La formulazione paradossale non era dettata esclusivamente da intenti ironici perché sintetizzava un articolato processo argomentativo che oggi potremmo riprendere con altri termini, ma senza tradirne l’esprit originario.

Cosa succede mediamente nelle parrocchie italiane quando si preparano bambini e bambine alla Prima eucarestia e/o alla Confermazione? A mia conoscenza si danno due scenari principali.

Nelle comunità ‘tradizionali’ si trasmettono, con strumenti didattici aggiornati, i contenuti del Catechismo della Chiesa Cattolica emanato nel 1992 da Giovanni Paolo II, che l’adolescente, man mano che crescerà in età e istruzione, o manterrà ufficialmente ma senza lasciarsene coinvolgere esistenzialmente o rinnegherà in blocco o (molto più raramente) sottoporrà a una faticosa cernita per separare il grano dal loglio.

Per evitare esiti del genere, non privi di rischi, nelle comunità ‘progressiste’ si  bypassa la proposta del catechismo canonico e ci si concentra su alcuni messaggi umanistici o sociali o ecologici che in varia misura sono collegabili con il vangelo. Questo secondo scenario presenta indubbi vantaggi, se non altro perché esime dal compito di destrutturare prima di ricostruire un proprio cammino di ricerca religiosa, ma non si può negare che comporti un difetto grave: si privano intere generazioni della possibilità di un confronto, sia pur critico, con lo specifico cristiano. Ad essere accettate o rifiutate saranno alcune linee di un’etica potenzialmente universale, ‘laica’, di certo necessaria e urgente; ma rimangono fuori dai riflettori – nei casi più felici, appena sullo sfondo - la declinazione e le motivazioni originali che di tale etica hanno dato Gesù di Nazareth  e le prime comunità dei discepoli.

Un’alternativa alle catechesi che rischiano il dogmatismo o, al contrario, il  filantropismo generico è stata più volte ricercata anche in Italia: ancora nel 2007 è stato pubblicato, a cura del Cipax,  Chi dite che io sia? Le ragazze e i ragazzi della Comunità di San Paolo si interrogano sulla storia di Gesù di Nazareth, Icone Edizioni, Roma. In queste settimane è in distribuzione la traduzione italiana di uno strumento preparato, e sperimentato a lungo, da un noto teologo della Liberazione, José Marìa Castillo: La buona notizia di Gesù (Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2024, a cura di D. Culot e L. Tommaselli). E’ il primo di tre volumi, o meglio quaderni, di “Teologia popolare” che l’autore, scomparso nel 2023, ha pubblicato in spagnolo nel 2012, dopo decenni di circolazione su fogli ciclostilati in tante comunità europee e soprattutto latinoamericane.

La prima parte del volume mira a due scopi: “prima di tutto è necessario renderci conto della situazione in cui ci troviamo” e, a tale scopo, “vedere cosa sta succedendo nella società nella quale viviamo” e “cosa capita con tutte queste cose della religione, che, a quanto pare, non funziona come dovrebbe funzionare”; “in secondo luogo, scopriremo quello che si deve fare per leggere e comprendere i vangeli, perché c’è molta gente che non capisce quello che dicono i vangeli” (p. 13).

A questo punto inizia la seconda parte del quaderno in cui ogni capitolo è scandito in tre momenti: si riporta un brano del vangelo, si offrono “alcuni chiarimenti che aiuteranno a capire meglio le cose raccontate” e “infine ci saranno alcune domande che servono perché ciascuno rifletta su ciò che questo vangelo vuol dire a ciascuno di noi” (p. 47).

“In definitiva” – asserisce in chiusura della sua Introduzione l’autore – “quello che questo libro sta a significare per noi è che il cristianesimo, la Chiesa, la religione devono umanizzarsi, devono essere più umani, devono essere più vicini a tutti gli esseri umani, devono essere in sintonia con tutto ciò che è veramente umano” (p. 9).

 

                                                                                              Augusto Cavadi

Per la versione originale (illustrata) cliccare qui: 

Come e perché attualizzare il cristianesimo - Zero Zero News

mercoledì 18 settembre 2024

DECOSTRUIRE OGNI IMMAGINE DI DIO FUNZIONALE AI POTERI MONDANI

 

Il Dio che non è “io”. Decostruire l’immaginario del potere

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 31 del 14/09/2024

Da Senofane di Colofone (VI-V sec. a. C.) a Feuerbach (e a Marx e a Nietsche), la filosofia ha spesso rilevato che, quando pensiamo Dio, tendiamo a proiettargli le nostre caratteristiche umane. Ciascuno di noi immagina Dio con le caratteristiche che sono proprie della propria cultura, del proprio vissuto, delle proprie proiezioni e aspettative. Ma poi c’è una istituzione, la Chiesa (sarebbe meglio dire, le religioni, ma alle nostre latitudini l’immagine di Dio è soprattutto il prodotto del magistero cattolico) che nei secoli ha contribuito in maniera decisiva alla formazione di un certo immaginario di Dio nel senso comune e nella cultura dominante.

Ecco perché, sosteneva il saggista e teologo Augusto Cavadi nel suo libro (2009) Il Dio dei mafiosi, non c’è nulla di strano che i mafiosi si rappresentino un Dio ‘padrino’ piuttosto che ‘padre’. O che, aggiungiamo noi, un dittatore se lo rappresenti come giudice feroce e implacabile; o un missionario come un padre buono e misericordioso.

In un convegno organizzato nel 2005 da Adista sul rapporto tra Chiesa e mafia, il magistrato Roberto Scarpinato (oggi senatore per i 5 Stelle), partiva dalla sua esperienza con assassini e mafiosi per domandarsi come essi potessero sentire le proprie azioni e il proprio modo di vivere in perfetta armonia con la propria fede, che era (o appariva) radicata e profonda. Del resto, chiosava Scarpinato, il dittatore Pinochet ha sempre dichiarato di essere un buon cattolico, di essere in pace con se stesso e con Dio e di aver operato per il bene della propria patria. Lo stesso i generali argentini, che perseguitarono e uccisero migliaia e migliaia di persone, con il consenso e il supporto di una buona parte della gerarchia cattolica del Paese.

Certo, rilevava Scarpinato «la storia insegna che le giunte militari argentine, brasiliane e cilene furono il braccio armato di borghesie latinoamericane che non hanno esitato a fare ricorso al genocidio di massa per difendere il sistema di privilegi che veniva messo in pericolo dalle rivendicazioni popolari». Per questo motivo non è stato possibile, o è stato molto difficile, processare questi efferati criminali, «perché processare loro è come processare un'intera parte della società latinoamericana». Resta però il fatto che tanto le vittime quanto i carnefici hanno sempre pregato e pregano Dio, e si sentano tutti in pace con se stessi.

Scarpinato arrivava a sanare questa contraddizione teorizzando che il cattolicesimo nascondesse un politeismo occulto. Ossia che vittime e carnefici non pregano effettivamente lo stesso Dio, anche se pensano di farlo. Pregano ciascuno un Dio diverso. E «questo “miracolo” della moltiplicazione di Dio, della coesistenza di più Dio nella stessa Chiesa, avviene grazie al fatto che nella Chiesa Cattolica il rapporto tra Dio e il fedele è gestito da un mediatore culturale: un sacerdote, un prelato. Ogni strato sociale, ogni segmento della società, ogni tribù sociale esprime dal proprio interno culturale, sociale, il proprio mediatore culturale con Dio, che dunque è portatore della stessa cultura, della stessa visione della vita dell'ambiente che lo ha espresso. Esiste così un Dio dei potenti, e un Dio degli impotenti. Un Dio dei mafiosi, e un Dio degli antimafiosi. Un Dio dei dittatori, e un Dio degli oppressi».

Su questa scia, nel 2012 Cavadi si interrogava (in un libro intitolato Il Dio dei leghisti) sull’immagine di Dio proposta dalla propaganda leghista. È si chiedeva se fosse stata la tradizione cattolica ad aver prodotto l’immaginario leghista o la Lega ad aver manipolato la dottrina cattolica. Più probabilmente, ipotizzava, era stato un mix prodotto dall’incontro del cattolicesimo mediterraneo tradizionalista con l’egoismo piccolo-borghese ipermoderno a costruire l’infernale miscela infernale catto-leghista.

Del resto, spiegava nel suo libro Cavadi, il codice culturale leghista – analizzato con rigore, dalla concezione antropologica “padana” alla concezione dello Stato e della società – e le idee portanti in materia religiosa sono «del tutto compatibili con una lettura istituzionale, moralistica, moderata e identitaria del cristianesimo».

Il nodo, in ultima analisi, è teologico. E sta nella convinzione, radicata nella Chiesa sin dal periodo costantiniano in maniera strutturale (ma anche precedentemente, nella fase degli apologeti cattolici che rivendicavano la propria visione “integrale” della vita e della storia, contrapposta a quella pagana), di essere depositari della verità integrale sull’uomo, sul cosmo e sulla storia e di avere il diritto e anzi il dovere di “convertire” alla propria dottrina, alla propria visione, alla propria organizzazione l’intera umanità. Proporre una certa immagine di Dio è funzionale a questo obiettivo.

Il rapporto della Chiesa con il potere sta dentro questo quadro. Questo “scandalo” ha portato la Chiesa a ostentare e propagandare in ogni forma la propria volontà di non scendere mai a compromessi con il mondo; di fatto però poi questi compromessi li ha sempre voluti, cercati e accettati quando si trattava di mantenere il proprio legame organico con il potere secolare. Per cui nei secoli la Chiesa è andata a braccetto con il potere schiavistico dell’impero romano, con il modo di produzione feudale, con la società borghese in tutte le sue espressioni, dal colonialismo all’imperialismo, passando per le guerra, la corruzione, la mafia, finanche le dittature e i fascismi, se era il caso. E a tutti questi sistemi ha proposto (più spesso, finché ha potuto, imposto) la propria idea di Dio funzionale alle necessità storiche del momento o a combattere i nemici della fede e della propria autorità ritenuti più perniciosi, come il comunismo o il laicismo.

Ma allora, qual è l’alternativa a questo Dio del potere, dell’oppressione, dell’ingiustizia sociale? Per alcuni, il Dio di Gesù, quello testimoniato, più che raccontato o definito, dal Gesù storico, piuttosto che dal Cristo insegnato dalla tradizione ecclesiastica. Il Dio di Gesù si configurerebbe come un Dio dei senza potere, tenero, accogliente e sollecito nei confronti di tutto ciò che realizza agape, relazione, fraternità, eguaglianza, pace, solidarietà, giustizia. In una parola, amore.

Per altri, teologia post-teista in primis, il processo da fare è ancora più radicale e – alla luce delle conoscenze scientifiche sulla fisica e il cosmo che vanno ormai necessariamente armonizzate con la fede – non c’è più bisogno di un Dio personale e creatore; è necessario pertanto superare le grandi narrazioni mitiche, la dottrina patriarcale che gli attribuisce tutte le qualità positive della “persona umana” elevate al massimo grado: onnipotente, onnisciente, onnipresente, sommo bene contrapposto al male intrinseco alla realtà. Insomma, per la teologia post-teista più che un Dio va teorizzata l’esistenza di un’energia divina; una forza-relazione, piuttosto che una persona. Questa posizione mette in crisi l’idea che vi sia qualcuno che ci ama e che dà vita, che precede e accompagna la nostra esistenza; per i critici del post teismo se perdiamo in Dio il carattere personale di un “Tu” con cui abbiamo relazione di conoscenza, sim-patia (sentire-soffrire insieme), dia-logo, ascolto ed espressione, perdiamo semplicemente Dio, tutto Dio. Se Dio non fosse persona, non avrebbe alcun senso l’atteggiamento umano di fede, l’affidamento a Lui, la fiducia nella sua possibilità di trasformare o riscattare il male. E se Dio non fosse persona, non avrebbe senso preghiera umana.

D’altra parte, secondo la fisica moderna (relatività ristretta e generale) lo spazio e il tempo sono una sola entità: lo spaziotempo. Dove le due dimensioni sono interconnesse e si influenzano reciprocamente. La fisica quantistica insegna che la realtà dell’infinitamente piccolo ci sfugge, che possiamo lavorare solo su modelli di realtà, i quali non sono la realtà.

Ma se ci sfugge a tal punto la realtà da rappresentarla secondo coordinate (spazio e tempo) così diverse dalla nostra quotidiana percezione, tanto più inafferrabile sarà la realtà divina. Il che non vuol dire affatto desistere nella ricerca teologica. Soltanto, ci rende consapevoli che necessariamente la “Verità” di Dio, posto che sia un obiettivo perseguibile, è inscindibilmente legata alla “Via” e alla “Vita”.

Insomma, de-costruito necessariamente e inderogabilmente il Dio che non è Dio di ogni sistema di potere classista, opprimente, patriarcale, funzionale al mantenimento di determinati rapporti sociali, resta aperto il problema di quale Dio debba sostituire l’immagine tradizionale di Dio che ci ha accompagnato per millenni. Dio non va abrogato, semplicemente bisogna rinunciare a ogni pretesa di definirlo secondo le categorie del nostro orizzonte mentale e culturale. E non è detto affatto che Dio sia un “Io” come lo abbiamo sempre concepito. In questo senso, non resta – riprendendo una celebre formula di Claudio Napoleoni – che «cercare ancora». 

lunedì 16 settembre 2024

DON PINO PUGLISI RICORDATO DA ROCCO GUMINA NEL TRENTUNESIMO ANNIVERARIO DELL'OMICIDIO MAFIOSO


Ieri, 15 settembre, c’è stata la ricorrenza del trentunesimo anniversario dell’uccisione per mano mafiosa di don Pino Puglisi. Come ogni anno, pensiamo che la Chiesa italiana sia invitata a riscoprire e a ripercorrere il martirio del presbitero siciliano per alimentare una pastorale in grado di annunciare la netta incompatibilità tra la mafia e l’annuncio cristiano.

Il recente libro di Augusto Cavadi e Cosimo Scordato (Padre Pino Puglisi. Un leone che ruggisce di disperazione, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2023, 18 euro) consente – oltre a tratteggiare il profilo teologico, culturale e pastorale del sacerdote palermitano – una riflessione su alcuni temi che riguardano la società e la Chiesa del recente passato e della stringente attualità. Per via di simile caratteristica diverse sono le sollecitazioni che provengono dal testo. Uno degli stimoli riguarda l’espressione “società cristiana” usata di solito dagli storici, dai sociologi e dai teologi.

La società cristiana era quel regime – presente in Italia grossomodo sino alla fine del secondo conflitto mondiale – nel quale il cattolicesimo si configurava non solo come la confessione cristiana a cui aderiva, in un modo o in un altro, quasi l’intera popolazione ma anche rappresentava l’asse portante sul quale era amalgamata l’intera infarinatura culturale del Paese. Nel corso dei secoli la società cristiana ha generato alcune positività alle quali, però, si associano una serie di devianze che in parte possiamo ancora rilevare nella nostra cultura e nella vicenda di Puglisi.

Il tema della società cristiana emerge indirettamente dalle parole degli autori che riflettono su come sia stato possibile che in una terra ricca di cattolici, di sacerdoti, di parrocchie e di vescovi sia stato ucciso un prete. Ciò è avvenuto poiché fra gli effetti degenerati di quel tipo di società vi era – e talvolta ancora vi è – una modalità d’intendere il ministero presbiterale, e in genere il vissuto cristiano, come dedito in modo esclusivo alle preghiere, ai riti, alle liturgie e alle processioni. Difatti tutto ciò che riguardava la politica, la vita della città e le ragioni delle ingiustizie non poteva configurare fra gli interessi dei credenti – o meglio della religione – e, a maggior ragione, dei presbiteri. Inoltre, in simile ambientazione culturale, la mafia assumeva dalla religione il linguaggio, le movenze e i rituali per costruirsi una sorta di teologia e di liturgia che rimandavano ad una soggettività divina distante dal Dio luce, amore e tenerezza rivelato da Gesù Cristo. Il Dio dei mafiosi, infatti, è tenebroso, inarrivabile e pone al centro la pratica sacrificale.

In una contestualizzazione di questo tipo la mafia ha inteso la Chiesa come uno spazio neutro, non oppositivo alla sua azione e talvolta addirittura fiancheggiatore. Quando, nel caso storico-concreto narrato dai due autori, don Pino Puglisi giunge a Brancaccio e avvia una pastorale sistematica di annuncio del Vangelo e perciò di promozione umana e di lotta all’illegalità organizzata, crolla tutto il costrutto culturale partorito dalla degenerazione di taluni aspetti della società cristiana. Da questo punto di vista la vicenda di padre Puglisi si delinea come quella di un novatore cioè di un facitore di storia in grado di trasformare le vicende di una piccola comunità periferica e, quindi, di cambiare rispetto al passato. Così il parroco siciliano ha esplicitato in modo netto l’incompatibilità tra la mafia, portatrice di morte, e il messaggio cristiano promotore di una cultura della vita. In quest’opera – un po’ come accade a tutti i novatori – padre Pino restò solo o quasi. A tal proposito gli autori scrivono del «silenzio degli onesti» e di «mandanti inconsapevoli» per registrare fra le altre cose che il mondo cattolico – ieri come oggi – non si rivela né migliore né peggiore del resto della comunità civile, ma semplicemente uguale a questa. In tale visione il Vangelo resta distante dalla quotidianità e pertanto il cristianesimo non permette quello scatto morale e civile che sembra richiesto chiaramente dalle istanze evangeliche e del magistero ecclesiale.

Come emerge bene dal volume, la vicenda di Puglisi manifesta uno stile di sequela evangelica capace di generare rilevanza sociale. Difatti don Pino non si limitava alle liturgie, alle preghiere, alle benedizioni e alle processioni ma si occupava di evasione scolastica, di disoccupazione, dei servizi sociali, dei diritti dei cittadini di Brancaccio. In tal modo mostrò come la Chiesa non possa restare neutra dinanzi alla mafia ma sia, invece, chiamata a optare per un impegno di formazione, di denuncia, di conversione e di responsabilità civica. Acutamente gli autori sottolineano che per interpretare al meglio simile opera non possiamo usare soltanto le categorie della sociologia, della pedagogia, della politologia e dell’antropologia perché Puglisi non fu un operatore del terzo settore o un educatore di comunità ma un cristiano che annunciava il Regno dei cieli. Allora la testimonianza del sacerdote siciliano va interpretata nell’orizzonte teologico, e specificatamente cristologico, per comprendere la radice e la finalità della sua attività. Così il messaggio cristiano non è destinato in modo prioritario al dominio e all’organizzazione della dimensione politica. Tuttavia dagli effetti dell’annuncio evangelico affiora una rilevanza sociale in grado di mutare i destini delle comunità umane. In questo orizzonte, l’impegno del parroco di Brancaccio teso verso una società più giusta non è un’aggiunta opzionale al suo ministero bensì una parte integrante dello stesso poiché tra Vangelo e promozione umana esiste una connessione inscindibile. Da ciò si evince che la mafia è un’organizzazione che impedisce lo sviluppo dell’uomo e delle comunità pertanto i credenti sono chiamati a lottare contro la sua presenza nei territori.

Sulla scia della testimonianza di Puglisi, a parere degli autori possiamo affermare che l’opzione connessa allo schierarsi contro la mafia deve condurre ad un progetto pedagogico-politico fondato sui valori costituzionali i quali sono un punto di riferimento per credenti e non. In questo percorso, i diversi approcci etici e religiosi presenti nelle nostre comunità possono realizzare insieme una lunga parte del cammino progettuale. Invece, al suo interno, la Chiesa è invitata a ripensare l’orizzonte formativo dei suoi gruppi e delle sue associazioni per offrire un servizio educativo e di cittadinanza attiva all’intera società. La rilettura del martirio di don Pino proposta dal volume di Augusto Cavadi e Cosimo Scordato invita la Chiesa a riflettere affinché siano generati nuovi spazi e stili di ministerialità liberante a servizio della promozione umana. Questo significa cominciare a interpretare l’impegno nella società e nella politica come mezzo ordinario per accogliere e vivere, nel nostro tempo, il dono della santità offerto dal Signore.

                                             Rocco Gumina

Link all'originale:

https://www.vinonuovo.it/comunita/esperienze-di-chiesa/don-puglisi-e-la-chiesa-che-verra/

 

venerdì 13 settembre 2024

NON HO PIU' TEMPO DA PERDERE PER SCIOCCHEZZE (Mario de Andrade)

 Questo testo, in cui mi ritrovo parola per parola, è attribuito al critico musicale, poeta e saggista Mário de Andrade (ma non sono riuscito a trovare la fonte e sospetto che la frase conclusiva non sia autentica perché già nota).

A. C. 

“LA MIA ANIMA HA FRETTA

Ho contato i miei anni ed ho scoperto che ho meno tempo da vivere rispetto a quanto ho vissuto finora.

Mi sento come quel bimbo cui regalano un pacchetto di dolci: i primi li mangia con piacere, 

ma quando si accorge che gliene rimangono pochi, comincia a gustarli intensamente.

Non ho più tempo per riunioni interminabili, in cui si discutono statuti, procedimenti e regolamenti interni, sapendo che alla fine non si concluderà nulla. 

Non ho più tempo per sopportare persone assurde che, oltre che per l’età anagrafica, non sono cresciute per nessun altro aspetto. 

Non ho più tempo da perdere per sciocchezze. 

Non voglio partecipare a riunioni in cui sfilano solo “Ego” gonfiati. Non ho più tempo per i manipolatori, gli arrivisti, gli approfittatori. 

Mi disturbano gli invidiosi.

 Ho poco tempo per discutere di beni materiali o posizioni sociali.

Amo l’essenziale, perché la mia anima ora ha fretta.

 Adesso voglio vivere tra esseri umani sensibili. 

Gente che sappia amare e burlarsi dei suoi errori. 

Gente che non si vanti dei suoi lussi e delle sue ricchezze.

 Gente che non sfugga alle sue responsabilità. 

Gente che difenda la dignità umana. 

Voglio circondarmi di gente che desideri vivere con onestà e rettitudine.

 Perché solo l’essenziale fa sì che la vita valga la pena viverla.

Ho fretta per vivere con l’intensità che solo la maturità ci può dare. 

Il mio obiettivo, é andar via in pace con i miei cari e con la mia coscienza. 

Abbiamo due vite e la seconda inizia quando ti rendi conto che ne hai solo una”.


domenica 8 settembre 2024

FRANCESCO AZZARELLO SULL'INTRECCIO FRA PENSARE E CREDERE NEL TEMPO POST-RELIGIONALE

 Francesco Azzarello ha scritto un interessante contributo sull'ultimo numero dei "Dialoghi mediterranei":https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/gerald-bronner-e-augusto-cavadi-pensare-e-non-credere-per-uno-spirito-critico/

Per chiarire ulteriormente alcuni passaggi del suo scritto mi ha gentilmente fornito una versione, da lui rivista e ritoccata, da destinare al mio blog:

GERALD BRONNER E AUGUSTO CAVADI: PENSARE E (NON) CREDERE? PER UNO SPIRITO CRITICO

 

1.       UNA LETTERA DI DIDEROT A VOLTAIRE 1749.

 Un giovane scrittore in cerca di notorietà, Denis Diderot, appena pubblicata la Lettre sur les aveugles à l’usage de ceux qui voient — opera in cui presenta una visione del mondo materialista ed empirista— ne invia una copia al più maturo e già affermato Voltaire (1) . Il testo piace all’autore di Candide o così afferma lui stesso nella lettera d’inizio giugno di quell’anno in cui ringrazia Diderot, tanto da mandare in controdono, oltre alle formule di rito, un libro (il suo Les éléments de la philosophie de Newton) accompagnato da un invito a un repas philosophique […] avec quelques sages. Nella missiva Voltaire esprime insieme al suo apprezzamento per lo spirito del testo anche un chiaro dissenso rispetto alla posizione atea manifestata da Diderot nella Lettre sostenendo piuttosto tesi deiste. Diderot, nella lettera datata 11 giugno cui si riferisce il titolo del paragrafo, ringrazia a propria volta Voltaire, ne incassa le critiche ma non rinuncia a replicare, osservando in modo discreto ma inequivocabile che anche ammettendo l’esistenza di qualcosa di non materiale che governa sia i rapporti fra le cose che il nostro poterli pensare, nella vita reale non scambiare la cicuta per il prezzemolo resta certamente più importante che credere o non credere in Dio.

 

2.       QUEL CHE SI CREDE IMPORTA?

 Sarei portato a credere che al di fuori di contesti religiosi — sempre più rari nella nostra società secolarizzata— molti di noi (anche i e le credenti meno critic* di un deista moderato come Voltaire) darebbero ragione a Diderot: persino un vescovo (mi sentirei di assumere) a casa sua se deve cambiare un rubinetto preferisce l’idraulico a Padre Pio. Come dargli torto? Le conseguenze di un cattivo ragionamento in ambito materiale, notoriamente, non tardano a manifestarsi. Nondimeno escluderei che nella vita pratica (tutta, non soltanto quella tecnica) credere o non credere a qualcosa — in generale, non necessariamente in ambito religioso— sia del tutto indifferente. Le opinioni contano. Diderot p.e., nemmeno due mesi dopo aver pubblicato la Lettre e aver scritto a Voltaire, verrà spedito in carcere (anche) per aver ridicolizzato la religione, ovvero ciò in cui il resto dei francesi e delle francesi affermava di credere. Altri tempi dirà qualcuno. Ma siamo sicur* di viverne veramente di diversi? La cronaca politica degli ultimi anni, contrassegnata dal ritorno di posizioni a dir poco retrograde e dominata dalla convinzione generale che siccome il mondo è complicato allora bisogna cominciare a fare a meno della democrazia e di un progetto più avanzato di convivenza pacifica transnazionale, suggerisce (almeno a me) che neppure la rivoluzione francese è riuscita a togliere di mezzo (per citare la lettera di Voltaire) les barbares stupides qui condamnent ce qu’ils n’entendent point, et les méchants qui se joignent aux imbéciles pour proscrire ce qui les éclaire. Di questa folta cerchia ognuno di noi ha certamente fatto esperienza in qualche fase della vita ma sarebbe sbagliato, come si è spesso tentat* di fare , ritenere chi via via ne fa parte (giacché può accadere a chiunque in qualche momento della vita di dare il peggio di sé senza averne coscienza) preda di un delirio disumano. ll guaio vero sta proprio nel fatto che delirare è umano, almeno quanto lo sono ragionare e credere (2) . Come afferma il sociologo Gérald Bronner in La pensée extrême. Comment des hommes ordinaires deviennent des fanatiques (saggio comparso nel 2009 ma riproposto in versione aumentata e aggiornata nel 2016, qui tr. mia) (3) l’estremismo isola l’individuo dal resto dell’umanità, non dalla sua umanità, ragion per cui piuttosto che limitarsi a esecrarlo va studiato nella sua peculiare razionalità: altrimenti come fare a liberarsene? L‘autore della prima lettera di Pietro (3, 15-17) invitava gli uomini e le donne a cui si rivolgeva a essere sempre pronti a dare ragioni della propria speranza a chi gliele chiedesse. E si vede che conosceva bene il genere umano, che quand’anche decide di credere a qualcosa non per questo smette di usare la testa. L’estremista, come il resto degli esseri umani, ha anche lui (o lei) bisogno di ragioni per credere nelle posizioni che assume. Non tanto per non delirare quanto per credere di aver ragione nel farlo. Ciò che caratterizza come sociopatici i contenuti aberranti che sostiene è, continua il sociologo, non la mancanza di ragioni (che sono lì e che lui o lei, delirando, assume per buone) quanto la capacità di questi contenuti di trasmettersi da una coscienza a un’altra comportando una supposta impossibilità per certe persone di vivere insieme a certe altre. Per delirare in modo estremista bisogna essere insomma almeno in tre: qualcuno (uomo o donna) deve cercare di convincere qualcun altro (uomo o donna) a escludere una terza persona o collettività (non importa se reale o fittizia) dallo spazio sociale o addirittura dalla dimensione della vita. È chiaro che essendo animali razionali per convincerci ad invicem abbiamo bisogno di una certa logica. Ma non dovrebbe essere proprio la logica a evitarci di delirare? Qui entra in gioco l’umano. Come scrisse Umberto Eco in una memorabile Bustina sulle Brigate rosse (“Un non-compagno che sbaglia” pubblicata su l’Espresso del 2 maggio 2008) agli esseri umani capita spessissimo di trarre conclusioni sbagliate da premesse accettabili. Accade continuamente (4). Le BR p.e., afferma Eco, partivano dall’idea (già nota) che gran parte della politica mondiale (guerra inclusa) non fosse più determinata dai singoli governi bensì da una rete di poteri economici transnazionali, infinitamente più potenti di governi e parlamenti di moltissimi stati. Da questa premessa accettabile concludevano però che per contrastare il capitalismo globale fosse (p.e.) necessario uccidere Aldo Moro e ferire e terrorizzare gli italiani e le italiane. Conclusione aberrante in cui credevano singolarmente, immagino, forse anche a giorni alterni ma come organizzazione in modo talmente fermo da tradurre questi ragionamenti in violenza vera. Una violenza, evidentemente, talmente capace di giustificazione ideologica (tanto che molti si lasciarono convincere) da sconfiggere dubbi o esitazioni.

3.       CREDERE E PENSARE: NON È UN AUT AUT

 Se, per dirla con Boris Cyrulink (2023), il delirio si accompagna volentieri alla ragione (e anche alla fede) (5), anche in contesti sani fra credere e ragionare fuori dai manuali di logica, nella vita vera non c’è né divisione né realistica opposizione (6). La nostra testa è stracolma di nozioni indimostrate (e indimostrabili) scientificamente che ci sono molto familiari e molto utili. Siamo esseri di grandissima memoria e se ogni volta che volessimo (che so) accendere la luce avessimo bisogno di riscoprire l’elettricità, la nostra quotidianità ipertecnica andrebbe immediatamente in stallo. Così accendiamo la luce, usiamo computer e telefoni fondamentalmente in una dimensione di fede, non a ragion veduta (da noi in prima persona). Ma anche oltre alla fiducia che regaliamo a chi ci fornisce tutti questi servizi (nella gratitudine che dobbiamo a chi li ha inventati o ne ha scoperto le leggi su sui si basano) c’è nella vita di tutti gli esseri umani un livello di cose credute per fede tutt’altro che marginale: dalle convenzioni sociali al sentito dire, dai personaggi finzionali alle astrazioni concettuali, dalle superstizioni ai dogmi religiosi, tutto ciò che crediamo (oltre a ciò che sappiamo e a ciò che proviamo interiormente) e diamo da credere si riflette nelle nostre decisioni e forma parte della nostra vita. Il progresso scientifico, al riguardo, non cambia veramente le carte in tavola (7) . Il diciannovesimo secolo p.e. aveva erroneamente creduto che il progresso della conoscenza avrebbe inesorabilmente ridimensionato l’universo delle credenze. Non avevano considerato bene la faccenda. In realtà l’aumento di informazione, anche scientifica, corrisponde a un aumento proporzionale delle credenze (lo vediamo oggi molto bene con quella sorta di cavallo imbizzarrito che è il web, dove teorie scientifiche e teorie del complotto compaiono sugli stessi schermi luminosi ) (8). Più informazioni implicano più complessità ed è proprio per eludere la complessità del reale che, se mi si passa l’espressione, siamo diventati maestr* nella gestione del falso. Salvo tendere a dimenticarlo, a ignorarlo a forza di viverci dentro, fino al paradosso e al patologico. Come osserva Bronner (2013a), Lucien Levy-Bruhl (a proposito di delirio) arrivò persino a sostenere che fra l‘Occidente e i popoli allora (era l’Ottocento) chiamati “primitivi” non ci fosse soltanto differenza a livello di evoluzione sociale ma addirittura di strutture mentali. La strabiliante rivoluzione tecnica ottocentesca (con le sue conseguenze economiche) aveva evidentemente fatto dimenticare anche agli spiriti migliori (Bronner menziona Auguste Comte, James George Frazer e Sigmund Freud, ma la lista di coloro i e le quali presero lucciole per lanterne potrebbe essere molto più lunga) la famosa metafora della sfera nell’oscurità di Pascal, che da sola avrebbe potuto rimettere le cose nella loro giusta proporzione: se si immagina la conoscenza come una sfera luminosa in un universo oscuro — riassume Bronner— ci si rende conto che ogni scoperta fa aumentare tanto la superficie della sfera che il proprio corrispettivo negativo. In altri termini: più si sa, più si è coscienti di quel che non si sa. La scienza, conclude giustamente il sociologo, piuttosto che ridurre il numero di superstizioni allarga il dominio del concepibile, uno spazio semi-illuminato in cui tutti i gatti sono bigi e le “superstizioni” proliferano, nella misura in cui ognuno di noi — salvo un rigoroso esercizio di sobrietà intellettuale che dovrebbe toccare tanto la memoria quanto quel che ancora non ne fa parte— è disposto a credere (o almeno a non potere o sapere escludere) tutto ciò che è a portata della propria (o altrui) immaginazione. Proprio non sappiamo fare di meglio? Spiega Bronner che da un lato la scienza moderna è talmente complessa e specialistica che la maggior parte di noi, in molti campi, non andiamo al di là di un, ormai superatissimo, abbiccì scolastico (salvo poi crederci espert* di qualunque cosa dopo aver visto un video su YouTube) e non siamo dunque in grado di applicare autonomamente gli strumenti teorici delle scienze che li elucidano; dall’altro siamo solit* (giustamente) giudicare la credibilità di un contenuto anche a partire da chi ce lo comunica. Il che, aggiungo, ha molto senso quando crediamo a quel che dice il medico (nel migliore dei casi), molto meno sulla rete, dove al culto degli e delle influencer si accompagna un disprezzo per chi ha studiato che non fa che peggiorare le cose.

4.       BIAS COGNITIVI E PRIMA CONCLUSIONE

In quanto fenomeno legato alla comunicazione, credere cose più o meno aberranti può accadere dunque a tutt* non soltanto agli e alle, estremist*, agli o alle ignorant* o agli e alle imbecill* . Ma come dice la stessa semantica del verbo (che può essere anche usato intransitivamente, focalizzandone interamente il significato sul soggetto) in fin dei conti aderire o meno a un contenuto possibile corrisponde a una decisione propria, interiore, che dobbiamo prendere con la nostra testa. In un bel libro del 2013 (La démocratie des crédules) (9) il solito Bronner spiega che la mente umana non solo non è esente ma è addirittura soggetta a bias cognitivi non indifferenti, come il bias di conferma (che ci spinge a notare e ricordare soltanto quel che collima con quel che già abbiamo in testa ignorando o svalutando quel che potrebbe mettere in crisi le nostre convinzioni) o il bias di disponibilità (che ci spinge a credere che il reiterarsi di un’ipotesi o di semplici ma frequenti argomenti a favore della stessa basti a trasformarla in tesi). Questi bias

 a) servono chiaramente ad accorciare le fasi amletiche di indecisione e, parzialmente, a prendere decisioni corrette (come nel tracciamento degli animali, dove il fattore tempo ha una grande importanza)

 b) ci aiutano dunque a non trarre conclusioni completamente al buio ma non sono strumenti perfetti: ci possono anche indurre (persino facilmente) in errore, tanto più che l’aumento oggettivo (e continuo) di informazioni regalatoci dalla rete ci provoca uno stato angoscioso di incertezza permanente da cui possiamo uscire soltanto sposando una o un’altra tesi. È il cosiddetto effetto Otello: un’ipotesi inizialmente suggeritaci e ritenuta molto improbabile viene resa attraverso una narrazione tendenziosa e ossessiva (genere di cui il web non scarseggia) sempre più credibile (senza mai venire provata) al punto che è il o la destinatari* stess* di quella narrazione a trasformare l’ipotesi in tesi. Se si tratta di ipotesi angoscianti (come sospetti d’infedeltà del(la) propri* partner o timore di catastrofi e invasioni imminenti) lo stress da incertezza aumenta e con lui la probabilità che il soggetto (esausto) prenda per buona qualunque stupidaggine. Se si considera

a) che sul web la lizza per la nostra attenzione è molto agguerrita

 b) che tendiamo a ricordare le cose più incredibili o impressionanti

 c) che, come osserva Bronner (2021), è la nostra stessa natura a portarci a sopravvalutare le probabilità minime, specie se sono associate a rischi (per esempio: tendiamo a percepire come più breve di quanto non sia la distanza che ci separa da un proiettile o da un corpo che si avvicina a noi volando; fra mille volti distinguiamo più rapidamente quelli in collera; fra gli animali siamo lestissimi a divisare serpenti e ragni (10)

d) che l’editorializzazione dei contenuti digitali è indicizzata sulle e dalle nostre pulsioni si comprenderà 1) quanto opaca e pericolosa sia in realtà la cosiddetta trasparenza promessaci dal digitale,

2) quanto urgente, come osserva ancora Bronner (2021), un’operazione meditata di ingegneria dell’intelligenza collettiva che permetta a tutt* (specie alle nuove generazioni) di distinguere la credibilità dei contenuti (p.e. stabilendo e rendendo visibili dei livelli standard di affidabilità di un contenuto, dal massimo della pubblicazione scientifica al minimo del contributo sui social network) (11) che contrasti la deriva di intere popolazioni nell’oscurantismo e nell’irrazionalità sfrenata (prodromo dell’estremismo),

3) e quanto, infine, con buona pace di Diderot, sommamente carico di conseguenze sia quel che finiamo per credere o non credere.

 

5.       CREDERE IN UNA RELIGIONE? NON È UNA QUESTIONE DI DOGMI

Convertirme a la religión de Ustedes? No se esfuerce. No creo ni siquiera en la mía. Y eso que es la verdadera!

(Anziana spagnola cattolica a un gruppo di Testimoni di Geova ) (12)

 

Credo in Dio soltanto dopo aver bevuto un po’.

(Giovane musulmano siriano alla fidanzata, anche lei musulmana, che gli chiede del suo rapporto con la religione)

 

E come la mettiamo con i credo di tipo religioso e soprattutto con le loro derive fondamentalistiche, ovvero con quel genere di contenuti che non potranno mai essere veri o falsi allo stesso modo del risultato di un calcolo razionale, quei tipi di contenuti su cui gli uni giurano e gli altri sbadigliano ma che, com’è come non è, anche nell’era digitale formano parte del mondo di entrambi, credenti e non credenti, e spesso a dispetto della loro stessa lettera (a volte talmente grottesca da risultare del tutto improbabile (13) motivano il nostro comportamento fino a farci compiere scelte radicali? Se negli ultimi due secoli il credito epistemologico della sfera religiosa è stato ampiamente ridimensionato dallo sviluppo tecnico e scientifico, non si può seriamente sostenere che gli attori sociali che ne gestiscono il capitale simbolico abbiano gettato la spugna. Anzi! Se ne sono addirittura ampliati tanto il numero che la tipologia: ai religiosi tradizionali (preti, suore…) si sono aggiunte nuove (e vecchie) figure come sciamani (e sciamane), cartomanti, specialisti di medicina alternativa e via dicendo. Segno che se l’aspetto dogmatico, dottrinario, contenutistico del religioso ha subito rivalutazioni radicali, da un punto di vista funzionale la sfera religiosa è ancora lì viva e vegeta. Anche se la pratica canonica dei riti religiosi in Europa occidentale si è drammaticamente assottigliata, la frequentazione di simboli religiosi di ogni tipo — dai santuari ai gadget, categoria moltiplicata dalla globalizzazione, dalla letteratura devozionale, specialistica o esoterica a ogni sorta di pratiche alternative (yoga, meditazione, e per chi vive nei paesi germanofoni anche la cosiddetta Seelsorge gestita da strutture ecclesiastiche tradizionali e non solo ecc.)— appare tutt’altro che infrequente. In effetti, allargando lo sguardo sul mondo (lasciando cioè fuori l’Europa occidentale secolarizzata) nemmeno le famigerate grandi confessioni monoteiste tradizionali sembrano seriamente in crisi. Almeno per quanto riguarda la pratica simbolica ma ancor di più relativamente alla funzione sociale (educazione, assistenza pratica e psicologica, sanità… ) (14)  : il credito sociale di persone che fondano la loro autorità attraverso il richiamo a nuove o vecchie forme di religione è molto alto. E non è meraviglia. Come osserva Bronner (2013) le scienze naturali non sono capaci di rispondere a questioni metafisiche (p.e la fede nell’esistenza dell’anima o nella realtà di Dio). Possono svalutare pratiche e argomentazioni legate a questi temi (e persino istituzioni: dalle chiese in genere ai cosiddetti testi sacri) ma tutto ciò che ha a che vedere col senso della vita (propria e dei propri cari e delle proprie care così come del proprio ecumene)(15) è sempre al di là del loro raggio di azione. L’antropologo Maurice Godelier (2007, p. 62 ) (16) non soltanto conferma dalla propria prospettiva disciplinare quel 16 che Bronner afferma da quella sociologica ma è anche più preciso nell’indicare le ragioni della longevità del religioso : « Dans toutes les sociétés […] à toutes les époques, les humains se sont interrogés sur ce qui signifie, pour un être humain, de nâitre, de vivre et de mourir, sur les formes de pouvoir qui sont légitimes et celles qui ne le sont pas […]». Dopo aver chiarito che questo carattere universale di dette questioni esistenziali non determina uniformità nelle risposte ma piuttosto testimonia della grande diversità di miti, religioni, forme di pensiero e regole di condotta che l’umanità ha prodotto (e siamo riuscit* a non distruggere o dimenticare), Godelier puntualizza (ivi): « En fait, ce qu’il y a de commun entre toutes ces questions et ces réponses ne tient pas à ce qu’elles disent — bien que bon nombre d’entre elles disent des choses très proches — mais à ce qu’elles visent » . Ovvero (ivi): « […] donner du sens à des réalités auxquelles les humains de toutes époques (et vivant dans toutes sortes de sociétés) sont confrontés : le fait justement de naître, de mourir, d’avoir à affronter les forces de la nature, de subir ou d’exercer diverses formes de violence sur les autres». Dare un senso a queste realtà serve cioè a costruire non tanto sistemi logici inattaccabili (uno dei vantaggi delle narrazioni religiose nella lizza per l’attenzione e contro l’oblio umani è quello di poter essere contraddittorie e miracolistiche, ovvero incredibili, impressionanti e dunque facilissime da ricordare) (17) quanto sillogismi pratici. Le cosiddette religioni, continua l’antropologo, sono delle rappresentazioni che aiutano a venire a capo “in qualche modo" dei sempiterni (e realissimi alla nostra coscienza) problemi di convivenza con gli altri e con la propria ecumene (18)  , che non trovando mai fine sono sempre gli stessi pur sembrando diversi e — con buona pace di dogmi, articoli di fede e via scrivendo— di tutte le religioni costituiscono il punto comune. Per dirla con Ludwig Wittgenstein: questi nodi problematici esistenziali universali sono la Lebensform che sta dietro ogni Sprachspiel religioso.

 

6.       IL FUTURO DELLE RELIGIONI? TUTTO DA TESTARE

Simile profondità di sguardo sul fenomeno religioso è riscontrabile nel volume O religione o ateismo? La spiritualità “laica” come fondamento comune del filosofo e teologo Augusto Cavadi (2021, p. 14 s.). Il problema affrontato da Cavadi (una riformulazione inconsapevole in gergo filosofico dell’approccio antropologico alla religione di Godelier) è infatti (ivi) «[…] [la] questione radicale di come l’essere umano, oggi, si possa legittimamente auto-interpretare nel contesto dell’universo in ebollizione.» Cosa intende per oggi Cavadi? La visione, per una persona non più giovanissima, nata e cresciuta all’interno della Chiesa cattolica romana, del vuoto lasciato dalla crisi delle grandi narrazioni e riempito (ivi): «[da una congerie] di «[…] saperi, ipotesi e scenari sempre più sconvolgenti che provengono dalle scienze naturali e umane […]» in cui (p. 9) «a sopravvivere è il sistema economico di cui il Liberalismo è stato l’ideologia inspiratrice […] », sistema che tiene in poco o nullo conto «“i sacri principi dell’Ottantanove”», caratteristico della globalizzazione. Quest’ultima, continua Cavadi parafrasando il biologo Stuart Kauffmann (p. 64): « “ […] ci impone di abbandonare ogni “fondamentalismo morale” (non meno dannoso di qualsiasi versione del “fondamentalismo religioso”) e “di ragionare insieme della nostra moralità” : cioè in “uno spazio spirituale non ostile, che potrà condividere chi crede in un Dio creatore e chi non crede”, a partire da quei “principi morali identici” (“ad esempio il rispetto per la sacralità della vita”) che “le persone appartenenti a civiltà sparse nel mondo condividono”. Una simile “etica globale” implicherebbe, almeno, tre aspetti: “un senso di unione con tutte le forme di vita”, la “responsabilità verso un pianeta sostenibile”, la prevenzione di ogni “scontro fra le culture a più stretto contatto nell’emergente civiltà globale”.» Si chiede quindi Cavadi: ce la faranno le religioni tradizionali a sostenere il confronto con un obiettivo come questo, radicalmente non-violento, progressivamente inclusivo (a prezzo ovviamente di una forte contaminazione culturale policentrica e di un’acculturazione di massa in una nuova identità post-religiosa ovvero della co-gestione intellettuale degli ultimi settori della cultura di competenza dei religiosi e delle religiose: dall’etica alla metafisica)? Kauffmann (come la grande maggioranza degli intellettuali che si esprimono nella parte secolarizzata del mondo) (p. 69) le dà per spacciate o da spacciare ma Cavadi, pur giudicando che anche in ambito filosofico-teologico ci troviamo in una fase innegabile di ripensamento decisivo (p. 69) che suggerirebbe di mandare in soffitta quella parte di religioni tradizionali che sono di stampo esclusivista, fondamentalista [e] proselitista, propone una via alternativa all’aut aut (p. 70) molto più realistica, meno violenta ma non meno chiara (19): «Più che impegnarsi nel tentativo (vano) di azzerarle tutte, sarebbe preferibile favorire la graduale prevalenza di religioni (nuove o antiche ma rinnovate) che non si interpretino come vie esclusive di relazione col Divino; che siano in continua ricerca del discernimento dei propri fondamenti, enfatizzandone i costruttivi e rinnegandone i distruttivi; che non pretendano di occupare l’intera vita dell’individuo e delle società, ma rispettino l’autonomia delle dimensioni laiche (scientifica, filosofica, artistica, politica); che puntino sulla forza dei propri simboli e della propria testimonianza piuttosto che su strategie propagandistiche più o meno aggressive.» E siccome Cavadi, già nelle prime pagine, aveva affermato che è giunta ormai l’ora sia di dirsi la verità che di farla (p. 13) suggerisce un test di verifica, provvisoriamente regolato su sette criteri, che attesti se (p. 76) «[…] una religione del futuro sia davvero, essenzialmente, una redenzione/guarigione [qui Cavadi si rifà al teologo e psicoterapeuta Eugen Drewermann (20) ] degli uomini e delle donne del pianeta […].». Qui una mia parafrasi fedele nel focus variabile scelto dall’autore ma fortemente abbreviata nell’argomentazione rispetto all’originale (v. p. 76-80) di questi sette criteri (in corsivo quel che c’è nella mia riformulazione di letterale):

1. Una religione merita di scomparire se usa Dio per alienare l’umanità dai suoi diritti e dalle sue responsabilità carnali.

 2. Una religione va considerata autentica se riesce a toccare non solo la volontà e la ragione degli esseri umani ma arriva dove la scienza e la filosofia non bastano più ovvero ai sentimenti e all’inconscio.

 3. Se è capace di dialogare con l’inconscio, una religione da salvare deve anche sapervi agire per estirpare le pulsioni di dominio e convertire chi ne è affetto (Cavadi menziona maschilismo e patriarcato)

4. Accettabile è soltanto una religione disarmata, povera di amicizie potenti come di risorse in denaro. Solo così può guarire/salvare.

 5. Non si può considerare vera una religione che ignori gli scandali sistemici della società o che si limiti a denunziarli senza provare a correggerli sia a livello individuale-quotidiano che collettivo-progettuale. 6. Una religione è superflua se non addirittura dannosa se è incapace di far trascendere i confini individuali ed etnici ai propri e alle proprie praticanti.

7. Una religione è autentica se detronizza l’essere umano dal ruolo illusorio di méta dell’evoluzione e di centro dell’universo.

Il test proposto da Cavadi non le manda a dire: anche se è kantianamente declinato alla terza persona è costituito in parte dal lessico veemente di chi cerca la chiarezza di un modello utopico (p. 72) e non può ovviamente essere condotto altrimenti che in prima persona. Chi conduce il test, idealmente, è chiamat* a prendere una decisione carica di conseguenze… pratiche: una volta terminate le proprie riflessioni questa persona, infatti, cosa dovrebbe/potrebbe farne dei risultati cui è pervenuta se non valutarli? I valori di riferimento del test mi sembrano l’uguaglianza, l’universalismo, la benevolenza, l’impegno sociale, l’olismo psicologico. Ammesso che una persona giudichi che uno o più contenuti religiosi non soddisfi(no) (già) tutti questi criteri, questa conclusione l’autorizzerebbe a squalificare l’intero portato (non solo semantico) di quella religione? Possibile ma, realisticamente, improbabile: se la persona si trovasse nell’area secolarizzata del pianeta — dove la religione e la politica sono effettivamente separate (fra loro e/o entrambe) dall’etnia di appartenenza e ogni persona gode di uno status reale di laic* individualista— l’interruzione di condivisione (e quindi, forse, di trasmissione) culturale cui mira l’esercizio sarebbe tutto sommato socialmente pacifica e relativamente indolore, nella misura in cui la persona dovrebbe probabilmente limitarsi a interrompere alcuni rapporti sociali e forse familiari senza rinunciare al resto della sua ecumene immediata. Nel resto del pianeta tuttavia questo tipo di scelte o non sono veramente articolabili o, se lo sono, sono talmente costose in termini sociali e affettivi da risultare altamente improbabili (e fra questi due estremi ci sono sicuramente una miriade di posizioni intermedie). Questa persona, peraltro, nell’esperimento mentale che sto conducendo, finora ha sottoposto al test soltanto la propria di religione. Dovesse bocciarne una altrui o addirittura tutte: davvero quella religione — per riprendere la veemenza del lessico del test— non sarebbe autentica, non sarebbe vera e meriterebbe di scomparire? Certamente no: se è vero che tutte le religioni interpretano in maniera diversa l’identica funzione che assolvono (21), nessuna può in modo storicamente, antropologicamente e sociologicamente  serio essere giudicata una fucina di male tout court. È legittimo allora prendersela con “i pastori” (usando questo termine cristiano per tutte le altre figure di autorità di tutte le religioni sul globo terraqueo) o, per lo meno, con i propagatori (laici, religiosi con la patente o senza, eretici, ortodossi, con o senza padrone, ubriachi e sobri, in buona o in cattiva fede e via poetando giacché essi sono, secondo la promessa divina, più numerosi che le stelle del firmamento e si intendano sostantivi e aggettivi tutti quanti, di grazia, anche al femminile) di contenuti non soddisfacenti i criteri del test? Dopo un test che fondamentalmente saggia la “disponibilità a non istigare alla violenza” di latori di contenuti che possono essere oggettivamente violentissimi (p.e. i versetti 8 e 9 del noto salmo 137), non credo (e non mi sembra che Cavadi suggerisca altro) si possa né si debba fare altro che smettere di ascoltarne i e le più violent* e quindi farsi ascoltare da chi li ha ascoltat* (22) . Il test va inteso come preludio alla costruzione di nuove comunità (cf. Cavadi, 2021: p. 89-123) e nuove identità. E nella misura in cui qualcuno non ritenga questo stesso fatto una minaccia (23 ) non credo che, lessico nonostante, il test vada interpretato come istigazione a una caccia alle streghe al rovescio o come licenza maoista di rottamazione culturale e censura sociale pesante. Nel “mirino” di Cavadi non mi sembrano esserci né i pastori che servono il loro gregge senza disprezzare il resto della creazione (e chi non ne conosce in ogni luogo, di ogni credo e colore), né le loro bibbie (anche qui un testo —o meglio un ipertesto— per tutti) piuttosto quel che di peggio bibbie e pastori di tutti i tempi, luoghi e tradizioni possono fare con il loro carisma: fortificare la propria posizione all’interno del gruppo talmente tanto da mantenere il proprio gruppo in uno stato di perenne ingiustizia (anche a prezzo di promettere ricompense ultraterrene che ripagheranno sofferenze terrene spacciate per inevitabili o addirittura auspicabili) (24) o pastori e interpretazioni religiose, echeggiando Bronner, impegnati a diffondere contenuti sociopatici: sociopatici nella misura in cui con il loro fondamentalismo di fatto, convincono le pecore di tutti i continenti di non poter convivere con i propri simili d’oltreconfine o di altro colore neanche se (per un “miracolo” che la storia del mondo ha già più volte registrato) ne avessero voglia.

 

7.       SECONDA CONCLUSIONE

Ho presentato questo test a sette criteri perché mi sembra costituire in ambito religioso un’applicazione (inconsapevole quanto efficace) di quel lavoro di ingegneria dell’intelligenza collettiva auspicato da Bronner per tutti gli ambiti comunicativi. Si può essere d’accordo su tutto, per niente o in parte con questo test: in ogni caso costituisce una forma di anticorpo ermeneutico utile a individuare alcuni tipi di patogeni circolanti nella realtà comunicativa religiosa: svalutazione del corpo e delle sue esigenze, della vita sociale intesa come responsabilità, giustificazione di ingiuste disuguaglianze, potenziamento estremo del gruppo fino alla svalutazione ontologica di chi e cosa non ne fa parte. Ora: probabilmente a qualcuno questa lista tutto sembrerà fuorché patogena, o forse lo sembrerà solo in parte. Cavadi, in effetti, risponde all’universalità della Lebensform che si nasconde dietro a ogni Sprachspiel religioso massimizzando il valore della cooperazione e della benevolenza (la non-violenza) laddove molte religioni (se non nei loro dogmi almeno nella loro pratica) hanno dato prova

 a) o di privilegiare radicalmente rispetto a ogni spinta universalista la sicurezza del gruppo o

 b) di deradicalizzarne la capacità di apertura sdoganandone quella di esercitare violenza sul resto del vivente. Il mondo abitato dall’umanità, la storia e la preistoria hanno dato senso a tutte e due le posizioni, facendole registrare entrambe. Cavadi ritiene che sulla base di un fondo comune di spiritualità sia possibile per ogni essere umano trascendere i confini etici della propria religione storica (e anche quelli della fede in qualche forma di sacro o di divino) (25 per rendere possibile la sopravvivenza del pianeta e la convivenza dei popoli che  lo abitano. Non considera però che quest’operazione di superamento dei propri limiti (anche la compassione è un limite che può essere fatto trascendere) può avvenire sia in un senso che nell’altro e che lo stesso universalismo può essere violento e portare alla distruzione di intere culture (dalle conversioni forzate del medioevo alla barbarie culturale del colonialismo). La sua scelta a favore di una sola delle due direzioni è più religiosa che filosofica? Difficile affermarlo con sicurezza ma difficile anche rimproverarlo a un autore che

 a) distingue la spiritualità (vita interiore ricca che porta a gesti limpidi) dalla religione (credenza in, appartenenza a, e pratica di una religione storica) ma

 b) non distingue la spiritualità dalla filosofia (2015) e

 c) ha vissuto buona parte della propria vita praticando tanto la religione che la filosofia, prima di prendere le distanze dalla prima, con serietà e coerenza.

Peraltro, visto che antropologicamente la sfera religiosa determina quella (teologico-)politica e venendo l’esperienza prima di ogni divisione teorica quel che vale per la biografia di Cavadi mi sembra valere anche per quelle degli altri. In altri termini: vada anche il fondo comune di spiritualità ma anche chi si professa ateo o non-praticante e tenta un approccio universale lo fa a partire da un retroterra esperienziale connotato religiosamente in modo preciso (nel senso inteso da Cavadi) che se non avesse o percepisse intorno a sé difficilmente potrebbe (invitare a) trascendere.

Queste critiche nonostante, il test che Cavadi propone appare assolutamente irrinunciabile nella santabarbara che ormai abitiamo, considerando e l’universalità del fenomeno religioso (nei termini di Godelier) e la sua estrema efficacia a livello identitario (livello interessato esplicitamente dai criteri 5 e 6 di Cavadi). Non perché i conflitti in corso e quelli che purtroppo verranno sono o saranno di tipo religioso (in senso dottrinario). Non ci si ammazza certo per un filioque ma, come osserva Vauclair (2021), la transnazionalità delle identità e delle strutture religiose rende la comunicazione religiosa un efficacissimo strumento di mobilitazione ovvero di facilitazione della cooperazione collettiva (offrendo giustificazioni ideologiche farlocche ma efficacissime), specie in un’epoca in cui le identità nazionali hanno per lo più perso i vantaggi che potevano offrire in passato a chi ne partecipasse, in termini di sicurezza e di mobilità sociale. Senza una pratica personale di esercizio critico a funzionare da antidoto anche (e certamente non solo) in campo religioso (26) , non credo che l’umanità possa uscire indenne dal futuro prossimo venturo. Anche perché, facendo una previsione sulla base della continuità valoriale proposta da Schwartz (2012), con ogni probabilità la crescita dell’ansia produrrà strategie di prevenzione di ulteriori perdite (come la crescita dei partiti nazionalisti ed estremisti di destra che già stiamo vivendo in Europa) e di protezione contro minacce presenti e future (aumento delle spese militari). Tutte misure che se dànno al singolo e alla singola la sensazione di aver raggiunto una nuova posizione di potere, sul piano sociale stimolano in genere conformismo, tradizionalismo e ossessione per la propria sicurezza. Tutti atteggiamenti che in genere ostacolano la capacità di trascendere i propri interessi in considerazione di quelli altrui finendo per inibire nella capacità di giudizio (ovvero nel decidere a cosa credere) la disponibilità a usare un criterio universalista, un criterio affine quindi alla dimensione in cui in fin dei conti si determina ogni motivo di ansia rilevante in questo contesto.

 

Francesco Azzarello

“Dialoghi mediterranei”, 1 settembre 2024

 

 

Reference List

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 ZINK, Jörg. 2009. Gotteswahrnehmung. Wege religiöser Erfahrung (Gütersloher Verlagshaus: München).

 

 

NOTE IN CALCE AL TESTO:

(1  1) Si può trovare la corrispondenza su Wikisource (https://fr.wikisource.org/wiki/ 1 Correspondance_de_Voltaire/1749/Lettre_1979) che trascrive dalle opere complete di Voltaire, ed. da Louis Moland per Garnier, nel 1883.

(       2) V. Cyrulnik (2023).

(     3) Consulto il libro in edizione elettronica. Pertanto non posso fornire il numero di pagina relativo alla parafrasi. Nel prosieguo dell’articolo sarò costretto a procedere allo stesso modo ogni volta che mi riferirò a una pubblicazione cui ho avuto accesso solo elettronicamente. Valga questo avviso per tutti i casi seguenti ove manchi un’indicazione precisa di pagina.

(4   4) Giustamente celebre il decimo capitolo de Il pendolo di Foucault.

(      5) Cyrulink (2017). V. Petrovic (10.06.2024).

(6    6) Nei casi come quello riferito da Eco parlerei, al massimo, di concorso di colpa. E gli scivoloni (anche i più terribili) possono capitare a tutt* , inclus* i e le intellettuali.

(    7) Al massimo le rimescola un po’: se prima leggevamo romanzi adesso guardiamo fiction, se prima chiedevamo la strada a qualcuno adesso usiamo il telefono, se prima leggevamo il Genesi adesso consultiamo Wikipedia. Che non dice cose folli o racconta storie (come accadeva agli autori del Genesi, salvo che chi in altre epoche lesse i loro testi li prese per un racconto letterale), dice cose che la maggior parte di noi possono solo prendere per buone (non saperle vere).

(8    8) Bronner (2019) osserva che l’aumento di informazione, anche scientifica, permesso dal web corrisponde a un aumento proporzionale delle credenze. Più informazioni implicano più complessità ed è proprio per eludere la complessità che, se mi si passa l’espressione, siamo diventati maestri nella gestione del falso.

(9   9) Bronner (2007) tratta dello stesso tema in modo ancora più dettagliato.

       10)  P.e. i telegiornali normalmente abbondano in brutte notizie e scarseggiano di buone.

(      11) Cf. il rapporto omonimo della commissione Les lumières à l'ère numérique, voluta dal Presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron e presieduta dallo stesso Gerald Bronner, pubblicato dalla Presidenza della Repubblica francese in data 11.01.2022. Il rapporto contiene trenta raccomandazioni che responsabilizzano il settore pubblico (nazionale e internazionale), quello privato e quello civile motivandolo a una serie di buone pratiche atte a costruire e facilitare l’esercizio personale dello spirito critico per il mantenimento di una corretta convivenza democratica.

(    12)  Convertirmi alla Sua religione? Non si sforzi. Io non credo nemmeno nella mia. E si figuri che dicono che è quella vera!

(      13) V. Petrovic (10.06.2024).

(1   14) Per cifre, mappe, reti di connessione e altre utilissime informazioni che attestano l’insignificanza numerica della prospettiva europea sulle religioni tradizionali v. Vauclair (2021).

(      15) Mi convince molto meno la cosiddetta preoccupazione per il tutto. Su come sia problematico intendersi quando si parla di “tutto” ho discusso in un mio articolo indicato in bibliografia. Uso il termine ecumene qui non in senso teologico ma geografico ovvero “spazio terrestre abitato da una o più società in comunicazione fra loro, spazio in cui si articolano tutti i tipi di rapporti tecnici che riguardano una o più società”.

(    16) Maurice Godelier riprende questa tematica anche in altri testi (p.e. 2019 e in numerose altre 16 pubblicazioni posteriori al 2007 che non indico in bibliografia ma che sono facilmente reperibili).

(      17) Cf. Boyer (2001) e Gottschall (2013).

(     18) Sulle differenti mondiazioni, per usare un termine di Philippe Descola, ovvero sul rapporto tutt’altro che trasparente fra ciò che a noi sembra chiaro (la separazione per interiorità e/o esteriorità fra umano e non-umano che qui Godelier a fini di chiarezza appiattisce sul nostro modo occidentale attuale di vedere il mondo) troverà chi legge una sintesi (e varie indicazioni bibliografiche) che spero comprensibile, fra altri miei scritti, nell’articolo a mio nome indicato in bibliografia.

(      19) Non si pone quest’ultima questione (ed è infinitamente più moderato oltre che sostanzialmente, anche se inconsapevolmente, d’accordo con Cavadi) Bernhard Uhde, prof. di scienze religiose alla facoltà di teologia cattolica di Friburgo i. Br. Convinto che i tempi per una cogestione della sfera religiosa fra varie confessioni siano già maturi Uhde chiarisce anche le premesse teoretiche di detta cogestione in Warum sie glauben, was sie glauben. Weltreligionen für Andersgläubige und Nachdenkende (2013, pp. 17-46). In modo assolutamente pratico mi sembra da anni già operare sulle stesse premesse anche l’islamologo Ahmad Milad Karimi, prof. di Kalam, filosofia e mistica islamiche all’Università di Münster: v. Warum es Gott nicht gibt und er doch da ist (2018).

(2  20)Segnalo che senza alcuna pretesa in ambito teologico il già citato neuropsichiatra Boris Cyrulink (2017) ha sottolineato e sottoposto a scrutinio scientifico la funzione terapeutica del religioso in pazienti di diverse confessioni. Su alcuni pazienti musulmani ha riferito Hofmann (2018).

(     21) V. Schwartz (1995).

(    22)  L’unico modo di evitare il proselitismo sarebbe quello di mantenere vicino a quella nuova anche le vecchie identità. Sul punto v. anche Zink (2009).

(  23) Mirando la proposta a scardinare sussistenti rapporti assiologici (anche se non necessariamente per costruirne altri), mi sorprenderebbe un esito differente.

(    24) V. Lohlker (2016).

(   25) Per le definizioni di quel che Cavadi considera tre cilindri di diametro decrescente disposti a piramide ovvero (dal basso in alto) spiritualità, religiosità (la fede in qualche forma di sacro o di divino) e religione v. Cavadi 2021, pp. 26-35 e 49.

(   26) Sull’educazione allo spirito critico come requisito per la democrazia e come strumento di prevenzione della disinformazione nell’era digitale insiste moltissimo il rapporto della Commissione presieduta da Bronner. V. n. 11.