Francesco Azzarello ha scritto un interessante contributo sull'ultimo numero dei "Dialoghi mediterranei":https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/gerald-bronner-e-augusto-cavadi-pensare-e-non-credere-per-uno-spirito-critico/
Per chiarire ulteriormente alcuni passaggi del suo scritto mi ha gentilmente fornito una versione, da lui rivista e ritoccata, da destinare al mio blog:
GERALD BRONNER E AUGUSTO
CAVADI: PENSARE E (NON) CREDERE? PER UNO SPIRITO CRITICO
1.
UNA LETTERA DI DIDEROT A VOLTAIRE 1749.
Un giovane
scrittore in cerca di notorietà, Denis Diderot, appena pubblicata la Lettre
sur les aveugles à l’usage de ceux qui voient — opera in cui presenta una
visione del mondo materialista ed empirista— ne invia una copia al più maturo e
già affermato Voltaire (1) . Il testo piace all’autore di Candide o così
afferma lui stesso nella lettera d’inizio giugno di quell’anno in cui ringrazia
Diderot, tanto da mandare in controdono, oltre alle formule di rito, un libro
(il suo Les éléments de la philosophie de Newton) accompagnato da un
invito a un repas philosophique […] avec quelques sages. Nella missiva
Voltaire esprime insieme al suo apprezzamento per lo spirito del testo anche un
chiaro dissenso rispetto alla posizione atea manifestata da Diderot nella Lettre
sostenendo piuttosto tesi deiste. Diderot, nella lettera datata 11 giugno cui
si riferisce il titolo del paragrafo, ringrazia a propria volta Voltaire, ne
incassa le critiche ma non rinuncia a replicare, osservando in modo discreto ma
inequivocabile che anche ammettendo l’esistenza di qualcosa di non materiale
che governa sia i rapporti fra le cose che il nostro poterli pensare, nella
vita reale non scambiare la cicuta per il prezzemolo resta certamente più
importante che credere o non credere in Dio.
2.
QUEL CHE SI CREDE IMPORTA?
Sarei portato a
credere che al di fuori di contesti religiosi — sempre più rari nella nostra
società secolarizzata— molti di noi (anche i e le credenti meno critic* di un
deista moderato come Voltaire) darebbero ragione a Diderot: persino un vescovo
(mi sentirei di assumere) a casa sua se deve cambiare un rubinetto preferisce
l’idraulico a Padre Pio. Come dargli torto? Le conseguenze di un cattivo
ragionamento in ambito materiale, notoriamente, non tardano a manifestarsi.
Nondimeno escluderei che nella vita pratica (tutta, non soltanto quella
tecnica) credere o non credere a qualcosa — in generale, non necessariamente in
ambito religioso— sia del tutto indifferente. Le opinioni contano. Diderot
p.e., nemmeno due mesi dopo aver pubblicato la Lettre e aver scritto a
Voltaire, verrà spedito in carcere (anche) per aver ridicolizzato la religione,
ovvero ciò in cui il resto dei francesi e delle francesi affermava di credere.
Altri tempi dirà qualcuno. Ma siamo sicur* di viverne veramente di diversi? La
cronaca politica degli ultimi anni, contrassegnata dal ritorno di posizioni a
dir poco retrograde e dominata dalla convinzione generale che siccome il mondo
è complicato allora bisogna cominciare a fare a meno della democrazia e di un
progetto più avanzato di convivenza pacifica transnazionale, suggerisce (almeno
a me) che neppure la rivoluzione francese è riuscita a togliere di mezzo (per
citare la lettera di Voltaire) les barbares stupides qui condamnent ce
qu’ils n’entendent point, et les méchants qui se joignent aux imbéciles pour
proscrire ce qui les éclaire. Di questa folta cerchia ognuno di noi ha
certamente fatto esperienza in qualche fase della vita ma sarebbe sbagliato,
come si è spesso tentat* di fare , ritenere chi via via ne fa parte (giacché
può accadere a chiunque in qualche momento della vita di dare il peggio di sé
senza averne coscienza) preda di un delirio disumano. ll guaio vero sta proprio
nel fatto che delirare è umano, almeno quanto lo sono ragionare e credere (2) .
Come afferma il sociologo Gérald Bronner in La pensée extrême. Comment des
hommes ordinaires deviennent des fanatiques (saggio comparso nel 2009 ma
riproposto in versione aumentata e aggiornata nel 2016, qui tr. mia) (3)
l’estremismo isola l’individuo dal resto dell’umanità, non dalla sua umanità,
ragion per cui piuttosto che limitarsi a esecrarlo va studiato nella sua
peculiare razionalità: altrimenti come fare a liberarsene? L‘autore della prima
lettera di Pietro (3, 15-17) invitava gli uomini e le donne a cui si rivolgeva
a essere sempre pronti a dare ragioni della propria speranza a chi gliele
chiedesse. E si vede che conosceva bene il genere umano, che quand’anche decide
di credere a qualcosa non per questo smette di usare la testa. L’estremista,
come il resto degli esseri umani, ha anche lui (o lei) bisogno di ragioni per
credere nelle posizioni che assume. Non tanto per non delirare quanto per
credere di aver ragione nel farlo. Ciò che caratterizza come sociopatici i
contenuti aberranti che sostiene è, continua il sociologo, non la mancanza di
ragioni (che sono lì e che lui o lei, delirando, assume per buone) quanto la
capacità di questi contenuti di trasmettersi da una coscienza a un’altra
comportando una supposta impossibilità per certe persone di vivere insieme a
certe altre. Per delirare in modo estremista bisogna essere insomma almeno in
tre: qualcuno (uomo o donna) deve cercare di convincere qualcun altro (uomo o
donna) a escludere una terza persona o collettività (non importa se reale o
fittizia) dallo spazio sociale o addirittura dalla dimensione della vita. È
chiaro che essendo animali razionali per convincerci ad invicem abbiamo bisogno
di una certa logica. Ma non dovrebbe essere proprio la logica a evitarci di
delirare? Qui entra in gioco l’umano. Come scrisse Umberto Eco in una
memorabile Bustina sulle Brigate rosse (“Un non-compagno che sbaglia”
pubblicata su l’Espresso del 2 maggio 2008) agli esseri umani capita
spessissimo di trarre conclusioni sbagliate da premesse accettabili. Accade
continuamente (4). Le BR p.e., afferma Eco, partivano dall’idea (già nota) che
gran parte della politica mondiale (guerra inclusa) non fosse più determinata
dai singoli governi bensì da una rete di poteri economici transnazionali,
infinitamente più potenti di governi e parlamenti di moltissimi stati. Da
questa premessa accettabile concludevano però che per contrastare il
capitalismo globale fosse (p.e.) necessario uccidere Aldo Moro e ferire e
terrorizzare gli italiani e le italiane. Conclusione aberrante in cui credevano
singolarmente, immagino, forse anche a giorni alterni ma come organizzazione in
modo talmente fermo da tradurre questi ragionamenti in violenza vera. Una
violenza, evidentemente, talmente capace di giustificazione ideologica (tanto
che molti si lasciarono convincere) da sconfiggere dubbi o esitazioni.
3.
CREDERE E PENSARE: NON È UN AUT AUT
Se, per dirla
con Boris Cyrulink (2023), il delirio si accompagna volentieri alla ragione (e
anche alla fede) (5), anche in contesti sani fra credere e ragionare fuori dai
manuali di logica, nella vita vera non c’è né divisione né realistica
opposizione (6). La nostra testa è stracolma di nozioni indimostrate (e
indimostrabili) scientificamente che ci sono molto familiari e molto utili.
Siamo esseri di grandissima memoria e se ogni volta che volessimo (che so)
accendere la luce avessimo bisogno di riscoprire l’elettricità, la nostra
quotidianità ipertecnica andrebbe immediatamente in stallo. Così accendiamo la
luce, usiamo computer e telefoni fondamentalmente in una dimensione di fede,
non a ragion veduta (da noi in prima persona). Ma anche oltre alla fiducia che
regaliamo a chi ci fornisce tutti questi servizi (nella gratitudine che
dobbiamo a chi li ha inventati o ne ha scoperto le leggi su sui si basano) c’è
nella vita di tutti gli esseri umani un livello di cose credute per fede
tutt’altro che marginale: dalle convenzioni sociali al sentito dire, dai
personaggi finzionali alle astrazioni concettuali, dalle superstizioni ai dogmi
religiosi, tutto ciò che crediamo (oltre a ciò che sappiamo e a ciò che
proviamo interiormente) e diamo da credere si riflette nelle nostre decisioni e
forma parte della nostra vita. Il progresso scientifico, al riguardo, non
cambia veramente le carte in tavola (7) . Il
diciannovesimo secolo p.e. aveva erroneamente creduto che il progresso della
conoscenza avrebbe inesorabilmente ridimensionato l’universo delle credenze.
Non avevano considerato bene la faccenda. In realtà l’aumento di informazione,
anche scientifica, corrisponde a un aumento proporzionale delle credenze (lo
vediamo oggi molto bene con quella sorta di cavallo imbizzarrito che è il web,
dove teorie scientifiche e teorie del complotto compaiono sugli stessi schermi
luminosi ) (8). Più informazioni implicano più complessità ed è proprio per
eludere la complessità del reale che, se mi si passa l’espressione, siamo
diventati maestr* nella gestione del falso. Salvo tendere a dimenticarlo, a
ignorarlo a forza di viverci dentro, fino al paradosso e al patologico. Come
osserva Bronner (2013a), Lucien Levy-Bruhl (a proposito di delirio) arrivò
persino a sostenere che fra l‘Occidente e i popoli allora (era l’Ottocento)
chiamati “primitivi” non ci fosse soltanto differenza a livello di evoluzione
sociale ma addirittura di strutture mentali. La strabiliante rivoluzione
tecnica ottocentesca (con le sue conseguenze economiche) aveva evidentemente
fatto dimenticare anche agli spiriti migliori (Bronner menziona Auguste Comte,
James George Frazer e Sigmund Freud, ma la lista di coloro i e le quali presero
lucciole per lanterne potrebbe essere molto più lunga) la famosa metafora della
sfera nell’oscurità di Pascal, che da sola avrebbe potuto rimettere le cose
nella loro giusta proporzione: se si immagina la conoscenza come una sfera
luminosa in un universo oscuro — riassume Bronner— ci si rende conto che ogni
scoperta fa aumentare tanto la superficie della sfera che il proprio
corrispettivo negativo. In altri termini: più si sa, più si è coscienti di quel
che non si sa. La scienza, conclude giustamente il sociologo, piuttosto che
ridurre il numero di superstizioni allarga il dominio del concepibile, uno
spazio semi-illuminato in cui tutti i gatti sono bigi e le “superstizioni”
proliferano, nella misura in cui ognuno di noi — salvo un rigoroso esercizio di
sobrietà intellettuale che dovrebbe toccare tanto la memoria quanto quel che
ancora non ne fa parte— è disposto a credere (o almeno a non potere o sapere
escludere) tutto ciò che è a portata della propria (o altrui) immaginazione.
Proprio non sappiamo fare di meglio? Spiega Bronner che da un lato la scienza
moderna è talmente complessa e specialistica che la maggior parte di noi, in
molti campi, non andiamo al di là di un, ormai superatissimo, abbiccì
scolastico (salvo poi crederci espert* di qualunque cosa dopo aver visto un
video su YouTube) e non siamo dunque in grado di applicare autonomamente gli
strumenti teorici delle scienze che li elucidano; dall’altro siamo solit*
(giustamente) giudicare la credibilità di un contenuto anche a partire da chi
ce lo comunica. Il che, aggiungo, ha molto senso quando crediamo a quel che
dice il medico (nel migliore dei casi), molto meno sulla rete, dove al culto
degli e delle influencer si accompagna un disprezzo per chi ha studiato che non
fa che peggiorare le cose.
4.
BIAS COGNITIVI E PRIMA CONCLUSIONE
In quanto fenomeno legato alla comunicazione, credere
cose più o meno aberranti può accadere dunque a tutt* non soltanto agli e alle,
estremist*, agli o alle ignorant* o agli e alle imbecill* . Ma come dice la
stessa semantica del verbo (che può essere anche usato intransitivamente,
focalizzandone interamente il significato sul soggetto) in fin dei conti
aderire o meno a un contenuto possibile corrisponde a una decisione propria,
interiore, che dobbiamo prendere con la nostra testa. In un bel libro del 2013
(La démocratie des crédules) (9) il solito Bronner spiega che la mente
umana non solo non è esente ma è addirittura soggetta a bias cognitivi non
indifferenti, come il bias di conferma (che ci spinge a notare e ricordare
soltanto quel che collima con quel che già abbiamo in testa ignorando o
svalutando quel che potrebbe mettere in crisi le nostre convinzioni) o il bias
di disponibilità (che ci spinge a credere che il reiterarsi di un’ipotesi o di
semplici ma frequenti argomenti a favore della stessa basti a trasformarla in
tesi). Questi bias
a) servono
chiaramente ad accorciare le fasi amletiche di indecisione e, parzialmente, a
prendere decisioni corrette (come nel tracciamento degli animali, dove il
fattore tempo ha una grande importanza)
b) ci aiutano
dunque a non trarre conclusioni completamente al buio ma non sono strumenti
perfetti: ci possono anche indurre (persino facilmente) in errore, tanto più
che l’aumento oggettivo (e continuo) di informazioni regalatoci dalla rete ci
provoca uno stato angoscioso di incertezza permanente da cui possiamo uscire
soltanto sposando una o un’altra tesi. È il cosiddetto effetto Otello:
un’ipotesi inizialmente suggeritaci e ritenuta molto improbabile viene resa attraverso
una narrazione tendenziosa e ossessiva (genere di cui il web non scarseggia)
sempre più credibile (senza mai venire provata) al punto che è il o la
destinatari* stess* di quella narrazione a trasformare l’ipotesi in tesi. Se si
tratta di ipotesi angoscianti (come sospetti d’infedeltà del(la) propri*
partner o timore di catastrofi e invasioni imminenti) lo stress da incertezza
aumenta e con lui la probabilità che il soggetto (esausto) prenda per buona
qualunque stupidaggine. Se si considera
a) che sul web la lizza per la nostra attenzione è
molto agguerrita
b) che tendiamo
a ricordare le cose più incredibili o impressionanti
c) che, come
osserva Bronner (2021), è la nostra stessa natura a portarci a sopravvalutare
le probabilità minime, specie se sono associate a rischi (per esempio: tendiamo
a percepire come più breve di quanto non sia la distanza che ci separa da un
proiettile o da un corpo che si avvicina a noi volando; fra mille volti
distinguiamo più rapidamente quelli in collera; fra gli animali siamo
lestissimi a divisare serpenti e ragni (10)
d) che l’editorializzazione dei contenuti digitali è
indicizzata sulle e dalle nostre pulsioni si comprenderà 1) quanto opaca e
pericolosa sia in realtà la cosiddetta trasparenza promessaci dal digitale,
2) quanto urgente, come osserva ancora Bronner (2021),
un’operazione meditata di ingegneria dell’intelligenza collettiva che permetta
a tutt* (specie alle nuove generazioni) di distinguere la credibilità dei
contenuti (p.e. stabilendo e rendendo visibili dei livelli standard di
affidabilità di un contenuto, dal massimo della pubblicazione scientifica al
minimo del contributo sui social network) (11) che contrasti la deriva di
intere popolazioni nell’oscurantismo e nell’irrazionalità sfrenata (prodromo
dell’estremismo),
3) e quanto, infine, con buona pace di Diderot,
sommamente carico di conseguenze sia quel che finiamo per credere o non
credere.
5.
CREDERE IN UNA RELIGIONE? NON È UNA QUESTIONE DI
DOGMI
Convertirme a la religión de Ustedes? No se
esfuerce. No creo ni siquiera en la mía. Y eso que es la verdadera!
(Anziana spagnola cattolica a un gruppo di Testimoni
di Geova ) (12)
Credo in Dio soltanto dopo aver bevuto un po’.
(Giovane musulmano siriano alla fidanzata, anche lei
musulmana, che gli chiede del suo rapporto con la religione)
E come la mettiamo con i credo di tipo religioso e
soprattutto con le loro derive fondamentalistiche, ovvero con quel genere di
contenuti che non potranno mai essere veri o falsi allo stesso modo del
risultato di un calcolo razionale, quei tipi di contenuti su cui gli uni
giurano e gli altri sbadigliano ma che, com’è come non è, anche nell’era
digitale formano parte del mondo di entrambi, credenti e non credenti, e spesso
a dispetto della loro stessa lettera (a volte talmente grottesca da risultare
del tutto improbabile (13) motivano il nostro comportamento fino a farci
compiere scelte radicali? Se negli ultimi due secoli il credito epistemologico
della sfera religiosa è stato ampiamente ridimensionato dallo sviluppo tecnico
e scientifico, non si può seriamente sostenere che gli attori sociali che ne
gestiscono il capitale simbolico abbiano gettato la spugna. Anzi! Se ne sono addirittura
ampliati tanto il numero che la tipologia: ai religiosi tradizionali (preti,
suore…) si sono aggiunte nuove (e vecchie) figure come sciamani (e sciamane),
cartomanti, specialisti di medicina alternativa e via dicendo. Segno che se
l’aspetto dogmatico, dottrinario, contenutistico del religioso ha subito
rivalutazioni radicali, da un punto di vista funzionale la sfera religiosa è
ancora lì viva e vegeta. Anche se la pratica canonica dei riti religiosi in
Europa occidentale si è drammaticamente assottigliata, la frequentazione di
simboli religiosi di ogni tipo — dai santuari ai gadget, categoria moltiplicata
dalla globalizzazione, dalla letteratura devozionale, specialistica o esoterica
a ogni sorta di pratiche alternative (yoga, meditazione, e per chi vive nei
paesi germanofoni anche la cosiddetta Seelsorge gestita da strutture
ecclesiastiche tradizionali e non solo ecc.)— appare tutt’altro che
infrequente. In effetti, allargando lo sguardo sul mondo (lasciando cioè fuori
l’Europa occidentale secolarizzata) nemmeno le famigerate grandi confessioni
monoteiste tradizionali sembrano seriamente in crisi. Almeno per quanto
riguarda la pratica simbolica ma ancor di più relativamente alla funzione
sociale (educazione, assistenza pratica e psicologica, sanità… ) (14) : il credito sociale di persone che fondano la
loro autorità attraverso il richiamo a nuove o vecchie forme di religione è
molto alto. E non è meraviglia. Come osserva Bronner (2013) le scienze naturali
non sono capaci di rispondere a questioni metafisiche (p.e la fede
nell’esistenza dell’anima o nella realtà di Dio). Possono svalutare pratiche e
argomentazioni legate a questi temi (e persino istituzioni: dalle chiese in
genere ai cosiddetti testi sacri) ma tutto ciò che ha a che vedere col senso
della vita (propria e dei propri cari e delle proprie care così come del
proprio ecumene)(15) è sempre al di là del loro raggio di azione.
L’antropologo Maurice Godelier (2007, p. 62 ) (16) non soltanto conferma dalla propria prospettiva disciplinare quel 16 che Bronner
afferma da quella sociologica ma è anche più preciso nell’indicare le ragioni
della longevità del religioso : « Dans toutes les sociétés […] à toutes les
époques, les humains se sont interrogés sur ce qui signifie, pour un être
humain, de nâitre, de vivre et de mourir, sur les formes de pouvoir qui sont
légitimes et celles qui ne le sont pas […]». Dopo aver chiarito che questo
carattere universale di dette questioni esistenziali non determina uniformità
nelle risposte ma piuttosto testimonia della grande diversità di miti,
religioni, forme di pensiero e regole di condotta che l’umanità ha prodotto (e
siamo riuscit* a non distruggere o dimenticare), Godelier puntualizza (ivi): « En
fait, ce qu’il y a de commun entre toutes ces questions et ces réponses ne
tient pas à ce qu’elles disent — bien que bon nombre d’entre elles disent des
choses très proches — mais à ce qu’elles visent » . Ovvero (ivi): « […]
donner du sens à des réalités auxquelles les humains de toutes époques (et
vivant dans toutes sortes de sociétés) sont confrontés : le fait justement de
naître, de mourir, d’avoir à affronter les forces de la nature, de subir ou
d’exercer diverses formes de violence sur les autres». Dare un senso a
queste realtà serve cioè a costruire non tanto sistemi logici inattaccabili
(uno dei vantaggi delle narrazioni religiose nella lizza per l’attenzione e
contro l’oblio umani è quello di poter essere contraddittorie e miracolistiche,
ovvero incredibili, impressionanti e dunque facilissime da ricordare) (17) quanto
sillogismi pratici. Le cosiddette religioni, continua l’antropologo, sono delle
rappresentazioni che aiutano a venire a capo “in qualche modo" dei
sempiterni (e realissimi alla nostra coscienza) problemi di convivenza con gli
altri e con la propria ecumene (18) ,
che non trovando mai fine sono sempre gli stessi pur sembrando diversi e — con
buona pace di dogmi, articoli di fede e via scrivendo— di tutte le religioni
costituiscono il punto comune. Per dirla con Ludwig Wittgenstein: questi nodi
problematici esistenziali universali sono la Lebensform che sta dietro
ogni Sprachspiel religioso.
6.
IL FUTURO DELLE RELIGIONI? TUTTO DA TESTARE
Simile profondità di sguardo sul fenomeno religioso è
riscontrabile nel volume O religione o ateismo? La spiritualità “laica” come
fondamento comune del filosofo e teologo Augusto Cavadi (2021, p. 14 s.).
Il problema affrontato da Cavadi (una riformulazione inconsapevole in gergo
filosofico dell’approccio antropologico alla religione di Godelier) è infatti
(ivi) «[…] [la] questione radicale di come l’essere umano, oggi, si possa
legittimamente auto-interpretare nel contesto dell’universo in ebollizione.» Cosa
intende per oggi Cavadi? La visione, per una persona non più giovanissima, nata
e cresciuta all’interno della Chiesa cattolica romana, del vuoto lasciato dalla
crisi delle grandi narrazioni e riempito (ivi): «[da una congerie] di «[…]
saperi, ipotesi e scenari sempre più sconvolgenti che provengono dalle scienze
naturali e umane […]» in cui (p. 9) «a sopravvivere è il sistema economico di
cui il Liberalismo è stato l’ideologia inspiratrice […] », sistema che tiene in
poco o nullo conto «“i sacri principi dell’Ottantanove”», caratteristico della
globalizzazione. Quest’ultima, continua Cavadi parafrasando il biologo Stuart
Kauffmann (p. 64): « “ […] ci impone di abbandonare ogni “fondamentalismo
morale” (non meno dannoso di qualsiasi versione del “fondamentalismo
religioso”) e “di ragionare insieme della nostra moralità” : cioè in “uno
spazio spirituale non ostile, che potrà condividere chi crede in un Dio
creatore e chi non crede”, a partire da quei “principi morali identici” (“ad
esempio il rispetto per la sacralità della vita”) che “le persone appartenenti
a civiltà sparse nel mondo condividono”. Una simile “etica globale”
implicherebbe, almeno, tre aspetti: “un senso di unione con tutte le forme di
vita”, la “responsabilità verso un pianeta sostenibile”, la prevenzione di ogni
“scontro fra le culture a più stretto contatto nell’emergente civiltà
globale”.» Si chiede quindi Cavadi: ce la faranno le religioni tradizionali a
sostenere il confronto con un obiettivo come questo, radicalmente non-violento,
progressivamente inclusivo (a prezzo ovviamente di una forte contaminazione
culturale policentrica e di un’acculturazione di massa in una nuova identità
post-religiosa ovvero della co-gestione intellettuale degli ultimi settori
della cultura di competenza dei religiosi e delle religiose: dall’etica alla
metafisica)? Kauffmann (come la grande maggioranza degli intellettuali che si
esprimono nella parte secolarizzata del mondo) (p. 69) le dà per spacciate o da
spacciare ma Cavadi, pur giudicando che anche in ambito filosofico-teologico ci
troviamo in una fase innegabile di ripensamento decisivo (p. 69) che
suggerirebbe di mandare in soffitta quella parte di religioni tradizionali che
sono di stampo esclusivista, fondamentalista [e] proselitista, propone una via
alternativa all’aut aut (p. 70) molto più realistica, meno violenta ma non meno
chiara (19): «Più che impegnarsi nel tentativo (vano) di azzerarle tutte,
sarebbe preferibile favorire la graduale prevalenza di religioni (nuove o
antiche ma rinnovate) che non si interpretino come vie esclusive di relazione
col Divino; che siano in continua ricerca del discernimento dei propri
fondamenti, enfatizzandone i costruttivi e rinnegandone i distruttivi; che non
pretendano di occupare l’intera vita dell’individuo e delle società, ma
rispettino l’autonomia delle dimensioni laiche (scientifica, filosofica,
artistica, politica); che puntino sulla forza dei propri simboli e della
propria testimonianza piuttosto che su strategie propagandistiche più o meno
aggressive.» E siccome Cavadi, già nelle prime pagine, aveva affermato che è
giunta ormai l’ora sia di dirsi la verità che di farla (p. 13) suggerisce un
test di verifica, provvisoriamente regolato su sette criteri, che attesti se
(p. 76) «[…] una religione del futuro sia davvero, essenzialmente, una
redenzione/guarigione [qui Cavadi si rifà al teologo e psicoterapeuta Eugen
Drewermann (20) ] degli uomini e delle donne del pianeta […].». Qui una mia
parafrasi fedele nel focus variabile scelto dall’autore ma fortemente abbreviata
nell’argomentazione rispetto all’originale (v. p. 76-80) di questi sette
criteri (in corsivo quel che c’è nella mia riformulazione di letterale):
1. Una religione merita di scomparire se usa Dio per
alienare l’umanità dai suoi diritti e dalle sue responsabilità carnali.
2. Una
religione va considerata autentica se riesce a toccare non solo la volontà e la
ragione degli esseri umani ma arriva dove la scienza e la filosofia non bastano
più ovvero ai sentimenti e all’inconscio.
3. Se è capace
di dialogare con l’inconscio, una religione da salvare deve anche sapervi agire
per estirpare le pulsioni di dominio e convertire chi ne è affetto (Cavadi
menziona maschilismo e patriarcato)
4. Accettabile è soltanto una religione disarmata,
povera di amicizie potenti come di risorse in denaro. Solo così può
guarire/salvare.
5. Non si può
considerare vera una religione che ignori gli scandali sistemici della società
o che si limiti a denunziarli senza provare a correggerli sia a livello
individuale-quotidiano che collettivo-progettuale. 6. Una religione è superflua
se non addirittura dannosa se è incapace di far trascendere i confini
individuali ed etnici ai propri e alle proprie praticanti.
7. Una religione è autentica se detronizza l’essere
umano dal ruolo illusorio di méta dell’evoluzione e di centro dell’universo.
Il test proposto da Cavadi non le manda a dire: anche
se è kantianamente declinato alla terza persona è costituito in parte dal
lessico veemente di chi cerca la chiarezza di un modello utopico (p. 72) e non
può ovviamente essere condotto altrimenti che in prima persona. Chi conduce il
test, idealmente, è chiamat* a prendere una decisione carica di conseguenze…
pratiche: una volta terminate le proprie riflessioni questa persona, infatti,
cosa dovrebbe/potrebbe farne dei risultati cui è pervenuta se non valutarli? I
valori di riferimento del test mi sembrano l’uguaglianza, l’universalismo, la
benevolenza, l’impegno sociale, l’olismo psicologico. Ammesso che una persona
giudichi che uno o più contenuti religiosi non soddisfi(no) (già) tutti questi
criteri, questa conclusione l’autorizzerebbe a squalificare l’intero portato
(non solo semantico) di quella religione? Possibile ma, realisticamente,
improbabile: se la persona si trovasse nell’area secolarizzata del pianeta —
dove la religione e la politica sono effettivamente separate (fra loro e/o
entrambe) dall’etnia di appartenenza e ogni persona gode di uno status reale di
laic* individualista— l’interruzione di condivisione (e quindi, forse, di
trasmissione) culturale cui mira l’esercizio sarebbe tutto sommato socialmente
pacifica e relativamente indolore, nella misura in cui la persona dovrebbe
probabilmente limitarsi a interrompere alcuni rapporti sociali e forse
familiari senza rinunciare al resto della sua ecumene immediata. Nel resto del
pianeta tuttavia questo tipo di scelte o non sono veramente articolabili o, se
lo sono, sono talmente costose in termini sociali e affettivi da risultare
altamente improbabili (e fra questi due estremi ci sono sicuramente una miriade
di posizioni intermedie). Questa persona, peraltro, nell’esperimento mentale
che sto conducendo, finora ha sottoposto al test soltanto la propria di
religione. Dovesse bocciarne una altrui o addirittura tutte: davvero quella
religione — per riprendere la veemenza del lessico del test— non sarebbe autentica,
non sarebbe vera e meriterebbe di scomparire? Certamente no: se è vero che
tutte le religioni interpretano in maniera diversa l’identica funzione che
assolvono (21), nessuna può in modo storicamente, antropologicamente e
sociologicamente serio essere giudicata
una fucina di male tout court. È legittimo allora prendersela con “i pastori”
(usando questo termine cristiano per tutte le altre figure di autorità di tutte
le religioni sul globo terraqueo) o, per lo meno, con i propagatori (laici,
religiosi con la patente o senza, eretici, ortodossi, con o senza padrone,
ubriachi e sobri, in buona o in cattiva fede e via poetando giacché essi sono,
secondo la promessa divina, più numerosi che le stelle del firmamento e si
intendano sostantivi e aggettivi tutti quanti, di grazia, anche al femminile)
di contenuti non soddisfacenti i criteri del test? Dopo un test che
fondamentalmente saggia la “disponibilità a non istigare alla violenza” di
latori di contenuti che possono essere oggettivamente violentissimi (p.e. i
versetti 8 e 9 del noto salmo 137), non credo (e non mi sembra che Cavadi
suggerisca altro) si possa né si debba fare altro che smettere di ascoltarne i
e le più violent* e quindi farsi ascoltare da chi li ha ascoltat* (22) . Il
test va inteso come preludio alla costruzione di nuove comunità (cf. Cavadi,
2021: p. 89-123) e nuove identità. E nella misura in cui qualcuno non ritenga
questo stesso fatto una minaccia (23 ) non credo che, lessico nonostante, il
test vada interpretato come istigazione a una caccia alle streghe al rovescio o
come licenza maoista di rottamazione culturale e censura sociale pesante. Nel
“mirino” di Cavadi non mi sembrano esserci né i pastori che servono il loro
gregge senza disprezzare il resto della creazione (e chi non ne conosce in ogni
luogo, di ogni credo e colore), né le loro bibbie (anche qui un testo —o meglio
un ipertesto— per tutti) piuttosto quel che di peggio bibbie e pastori di tutti
i tempi, luoghi e tradizioni possono fare con il loro carisma: fortificare la
propria posizione all’interno del gruppo talmente tanto da mantenere il proprio
gruppo in uno stato di perenne ingiustizia (anche a prezzo di promettere
ricompense ultraterrene che ripagheranno sofferenze terrene spacciate per
inevitabili o addirittura auspicabili) (24) o pastori e interpretazioni
religiose, echeggiando Bronner, impegnati a diffondere contenuti sociopatici:
sociopatici nella misura in cui con il loro fondamentalismo di fatto,
convincono le pecore di tutti i continenti di non poter convivere con i propri
simili d’oltreconfine o di altro colore neanche se (per un “miracolo” che la
storia del mondo ha già più volte registrato) ne avessero voglia.
7.
SECONDA CONCLUSIONE
Ho presentato questo test a sette criteri perché mi
sembra costituire in ambito religioso un’applicazione (inconsapevole quanto
efficace) di quel lavoro di ingegneria dell’intelligenza collettiva auspicato
da Bronner per tutti gli ambiti comunicativi. Si può essere d’accordo su tutto,
per niente o in parte con questo test: in ogni caso costituisce una forma di
anticorpo ermeneutico utile a individuare alcuni tipi di patogeni circolanti
nella realtà comunicativa religiosa: svalutazione del corpo e delle sue esigenze,
della vita sociale intesa come responsabilità, giustificazione di ingiuste
disuguaglianze, potenziamento estremo del gruppo fino alla svalutazione
ontologica di chi e cosa non ne fa parte. Ora: probabilmente a qualcuno questa
lista tutto sembrerà fuorché patogena, o forse lo sembrerà solo in parte.
Cavadi, in effetti, risponde all’universalità della Lebensform che si
nasconde dietro a ogni Sprachspiel religioso massimizzando il valore
della cooperazione e della benevolenza (la non-violenza) laddove molte
religioni (se non nei loro dogmi almeno nella loro pratica) hanno dato prova
a) o di
privilegiare radicalmente rispetto a ogni spinta universalista la sicurezza del
gruppo o
b) di
deradicalizzarne la capacità di apertura sdoganandone quella di esercitare
violenza sul resto del vivente. Il mondo abitato dall’umanità, la storia e la
preistoria hanno dato senso a tutte e due le posizioni, facendole registrare
entrambe. Cavadi ritiene che sulla base di un fondo comune di spiritualità sia
possibile per ogni essere umano trascendere i confini etici della propria
religione storica (e anche quelli della fede in qualche forma di sacro o di
divino) (25 per rendere possibile la sopravvivenza del pianeta e la convivenza
dei popoli che lo abitano. Non considera
però che quest’operazione di superamento dei propri limiti (anche la
compassione è un limite che può essere fatto trascendere) può avvenire sia in
un senso che nell’altro e che lo stesso universalismo può essere violento e
portare alla distruzione di intere culture (dalle conversioni forzate del
medioevo alla barbarie culturale del colonialismo). La sua scelta a favore di
una sola delle due direzioni è più religiosa che filosofica? Difficile
affermarlo con sicurezza ma difficile anche rimproverarlo a un autore che
a) distingue la
spiritualità (vita interiore ricca che porta a gesti limpidi) dalla religione
(credenza in, appartenenza a, e pratica di una religione storica) ma
b) non
distingue la spiritualità dalla filosofia (2015) e
c) ha vissuto
buona parte della propria vita praticando tanto la religione che la filosofia,
prima di prendere le distanze dalla prima, con serietà e coerenza.
Peraltro, visto che antropologicamente la sfera
religiosa determina quella (teologico-)politica e venendo l’esperienza prima di
ogni divisione teorica quel che vale per la biografia di Cavadi mi sembra
valere anche per quelle degli altri. In altri termini: vada anche il fondo
comune di spiritualità ma anche chi si professa ateo o non-praticante e tenta
un approccio universale lo fa a partire da un retroterra esperienziale
connotato religiosamente in modo preciso (nel senso inteso da Cavadi) che se
non avesse o percepisse intorno a sé difficilmente potrebbe (invitare a)
trascendere.
Queste critiche nonostante, il test che Cavadi propone
appare assolutamente irrinunciabile nella santabarbara che ormai abitiamo,
considerando e l’universalità del fenomeno religioso (nei termini di Godelier)
e la sua estrema efficacia a livello identitario (livello interessato
esplicitamente dai criteri 5 e 6 di Cavadi). Non perché i conflitti in corso e
quelli che purtroppo verranno sono o saranno di tipo religioso (in senso
dottrinario). Non ci si ammazza certo per un filioque ma, come osserva
Vauclair (2021), la transnazionalità delle identità e delle strutture religiose
rende la comunicazione religiosa un efficacissimo strumento di mobilitazione
ovvero di facilitazione della cooperazione collettiva (offrendo giustificazioni
ideologiche farlocche ma efficacissime), specie in un’epoca in cui le identità
nazionali hanno per lo più perso i vantaggi che potevano offrire in passato a
chi ne partecipasse, in termini di sicurezza e di mobilità sociale. Senza una
pratica personale di esercizio critico a funzionare da antidoto anche (e
certamente non solo) in campo religioso (26) , non credo che l’umanità possa
uscire indenne dal futuro prossimo venturo. Anche perché, facendo una
previsione sulla base della continuità valoriale proposta da Schwartz (2012),
con ogni probabilità la crescita dell’ansia produrrà strategie di prevenzione
di ulteriori perdite (come la crescita dei partiti nazionalisti ed estremisti
di destra che già stiamo vivendo in Europa) e di protezione contro minacce
presenti e future (aumento delle spese militari). Tutte misure che se dànno al
singolo e alla singola la sensazione di aver raggiunto una nuova posizione di
potere, sul piano sociale stimolano in genere conformismo, tradizionalismo e
ossessione per la propria sicurezza. Tutti atteggiamenti che in genere
ostacolano la capacità di trascendere i propri interessi in considerazione di
quelli altrui finendo per inibire nella capacità di giudizio (ovvero nel
decidere a cosa credere) la disponibilità a usare un criterio universalista, un
criterio affine quindi alla dimensione in cui in fin dei conti si determina
ogni motivo di ansia rilevante in questo contesto.
Francesco Azzarello
“Dialoghi mediterranei”, 1 settembre 2024
Reference List
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ZINK, Jörg. 2009. Gotteswahrnehmung. Wege
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NOTE IN CALCE AL TESTO:
(1 1) Si può
trovare la corrispondenza su Wikisource (https://fr.wikisource.org/wiki/ 1
Correspondance_de_Voltaire/1749/Lettre_1979) che trascrive dalle opere complete
di Voltaire, ed. da Louis Moland per Garnier, nel 1883.
( 2) V. Cyrulnik (2023).
( 3) Consulto il libro in edizione elettronica.
Pertanto non posso fornire il numero di pagina relativo alla parafrasi. Nel
prosieguo dell’articolo sarò costretto a procedere allo stesso modo ogni volta
che mi riferirò a una pubblicazione cui ho avuto accesso solo elettronicamente.
Valga questo avviso per tutti i casi seguenti ove manchi un’indicazione precisa
di pagina.
(4 4) Giustamente celebre il decimo capitolo de
Il pendolo di Foucault.
( 5) Cyrulink
(2017). V. Petrovic (10.06.2024).
(6 6) Nei casi come quello riferito da Eco parlerei,
al massimo, di concorso di colpa. E gli scivoloni (anche i più terribili)
possono capitare a tutt* , inclus* i e le intellettuali.
( 7) Al massimo le rimescola un po’: se prima
leggevamo romanzi adesso guardiamo fiction, se prima chiedevamo la strada a
qualcuno adesso usiamo il telefono, se prima leggevamo il Genesi adesso
consultiamo Wikipedia. Che non dice cose folli o racconta storie (come accadeva
agli autori del Genesi, salvo che chi in altre epoche lesse i loro testi li
prese per un racconto letterale), dice cose che la maggior parte di noi possono
solo prendere per buone (non saperle vere).
(8 8) Bronner
(2019) osserva che l’aumento di informazione, anche scientifica, permesso dal
web corrisponde a un aumento proporzionale delle credenze. Più informazioni
implicano più complessità ed è proprio per eludere la complessità che, se mi si
passa l’espressione, siamo diventati maestri nella gestione del falso.
(9 9) Bronner
(2007) tratta dello stesso tema in modo ancora più dettagliato.
10) P.e. i
telegiornali normalmente abbondano in brutte notizie e scarseggiano di buone.
( 11) Cf. il
rapporto omonimo della commissione Les lumières à l'ère numérique,
voluta dal Presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron e presieduta
dallo stesso Gerald Bronner, pubblicato dalla Presidenza della Repubblica
francese in data 11.01.2022. Il rapporto contiene trenta raccomandazioni che
responsabilizzano il settore pubblico (nazionale e internazionale), quello
privato e quello civile motivandolo a una serie di buone pratiche atte a
costruire e facilitare l’esercizio personale dello spirito critico per il
mantenimento di una corretta convivenza democratica.
( 12) Convertirmi
alla Sua religione? Non si sforzi. Io non credo nemmeno nella mia. E si figuri
che dicono che è quella vera!
( 13) V.
Petrovic (10.06.2024).
(1 14) Per
cifre, mappe, reti di connessione e altre utilissime informazioni che attestano
l’insignificanza numerica della prospettiva europea sulle religioni
tradizionali v. Vauclair (2021).
( 15) Mi
convince molto meno la cosiddetta preoccupazione per il tutto. Su come sia
problematico intendersi quando si parla di “tutto” ho discusso in un mio
articolo indicato in bibliografia. Uso il termine ecumene qui non in senso
teologico ma geografico ovvero “spazio terrestre abitato da una o più società
in comunicazione fra loro, spazio in cui si articolano tutti i tipi di rapporti
tecnici che riguardano una o più società”.
( 16) Maurice
Godelier riprende questa tematica anche in altri testi (p.e. 2019 e in numerose
altre 16 pubblicazioni posteriori al 2007 che non indico in bibliografia ma che
sono facilmente reperibili).
( 17) Cf. Boyer
(2001) e Gottschall (2013).
( 18) Sulle
differenti mondiazioni, per usare un termine di Philippe Descola, ovvero sul
rapporto tutt’altro che trasparente fra ciò che a noi sembra chiaro (la
separazione per interiorità e/o esteriorità fra umano e non-umano che qui
Godelier a fini di chiarezza appiattisce sul nostro modo occidentale attuale di
vedere il mondo) troverà chi legge una sintesi (e varie indicazioni
bibliografiche) che spero comprensibile, fra altri miei scritti, nell’articolo
a mio nome indicato in bibliografia.
( 19) Non si
pone quest’ultima questione (ed è infinitamente più moderato oltre che
sostanzialmente, anche se inconsapevolmente, d’accordo con Cavadi) Bernhard
Uhde, prof. di scienze religiose alla facoltà di teologia cattolica di Friburgo
i. Br. Convinto che i tempi per una cogestione della sfera religiosa fra varie
confessioni siano già maturi Uhde chiarisce anche le premesse teoretiche di
detta cogestione in Warum sie glauben, was sie glauben. Weltreligionen für
Andersgläubige und Nachdenkende (2013, pp. 17-46). In modo assolutamente
pratico mi sembra da anni già operare sulle stesse premesse anche l’islamologo
Ahmad Milad Karimi, prof. di Kalam, filosofia e mistica islamiche
all’Università di Münster: v. Warum es Gott nicht gibt und er doch da ist
(2018).
(2 20)Segnalo
che senza alcuna pretesa in ambito teologico il già citato neuropsichiatra
Boris Cyrulink (2017) ha sottolineato e sottoposto a scrutinio scientifico la
funzione terapeutica del religioso in pazienti di diverse confessioni. Su
alcuni pazienti musulmani ha riferito Hofmann (2018).
( 21) V.
Schwartz (1995).
( 22) L’unico
modo di evitare il proselitismo sarebbe quello di mantenere vicino a quella
nuova anche le vecchie identità. Sul punto v. anche Zink (2009).
( 23) Mirando la
proposta a scardinare sussistenti rapporti assiologici (anche se non
necessariamente per costruirne altri), mi sorprenderebbe un esito differente.
( 24) V. Lohlker
(2016).
( 25) Per le
definizioni di quel che Cavadi considera tre cilindri di diametro decrescente
disposti a piramide ovvero (dal basso in alto) spiritualità, religiosità (la
fede in qualche forma di sacro o di divino) e religione v. Cavadi 2021, pp.
26-35 e 49.
( 26) Sull’educazione
allo spirito critico come requisito per la democrazia e come strumento di
prevenzione della disinformazione nell’era digitale insiste moltissimo il
rapporto della Commissione presieduta da Bronner. V. n. 11.