Russia contro Ucraina, Israele contro
Palestina: solo i due fronti di guerra mediaticamente più noti fra le decine di
conflitti in atto sul nostro fragile pianetino in questi anni. L’atteggiamento
dei governi, più o meno esterni a tali conflitti (meno esterni di quanto si
possa opinare a prima vista), dipende da molti fattori economici, sociali e
politici. Ma anche culturali. Essi infatti, come l’opinione pubblica di cui
sono espressione quasi sempre imbruttita, sono condizionati anche dalla
“filosofia della guerra” che, più o meno consapevolmente, hanno adottato. In
Occidente le due prospettive più celebri ed influenti sono state presentate, a
cavallo fra il Settecento e l’Ottocento, dai prestigiosi pensatori tedeschi
Kant ed Hegel.
La tesi del primo – esposta in vari
scritti di cui il principale è significativamente intitolato Per la pace
perpetua - è che, in linea teorica, la pace fra gli Stati è auspicabile ed
è attuabile. Che sia auspicabile lo dovrebbe ammettere chiunque constati
che la guerra è il peggiore dei mali perché distrugge le società materialmente
e le degrada moralmente: essa “fa più malvagi di quanti ne toglie di mezzo”. Ma
è anche attuabile? La risposta affermativa si basa su una constatazione
storica: quando le città e i piccoli regnicoli locali sono entrati a far parte
di “una qualche costituzione civile”, le guerre civili sono diventate pressoché
impensabili. Una simile “costituzione” dovrebbe basarsi su almeno tre principi:
dev’essere “repubblicana” (almeno nell’accezione minimale che non dev’essere tirannica);
deve “fondarsi sopra una federazione di liberi Stati”; deve prevedere “una
universale ospitalità” (cioè “il diritto di uno straniero che arriva sul
territorio di un altro Stato di non essere da questo trattato ostilmente”).
Questo progetto politico di Kant è una
“utopia concreta” o il sogno di un
ingenuo?
Mentre vari autori hanno ripreso e
rilanciato la proposta di Kant, già da subito altri pensatori l’hanno criticato
e perfino derisa. Tra questi Hegel a giudizio del quale una “pace perpetua” non
solo non è attuabile, ma non è neppure auspicabile. Essa,
infatti, infrangerebbe la legge segreta e universale dell’intera realtà
(cosmica e storica) scolpita nel celebre frammento del sapiente greco Eraclito:
“Guerra è la madre di tutte le cose”. Tutto
ciò che esiste (Hegel lo denomina anche Intero) è vita, movimento, progresso
grazie a ciò che chiamiamo anche “dialettica”: la Totalità (se vogliamo, Dio o
Spirito assoluto) procede grazie “all’immane potenza del negativo” (dunque al
processo secondo cui qualcosa nega qualcos’altro per essere, a sua volta, assorbito e superato
in una sintesi ulteriore). In particolare, nella storia umana, questo Spirito
si incarna nello Stato (“ingresso di Dio nel mondo”): ma in quale dei tanti
Stati esistenti? In caso di divergenza, chi stabilisce quale Stato, in una determinata epoca, ha
ragione (anzi è la Ragione istituzionalizzata)? Non esiste che un tribunale: la
guerra. Chi vince, dimostra di essere, almeno in quella fase della storia
universale, il veicolo e il portavoce dell’Assoluto. Da qui l’approvazione di Hegel
di ogni conflitto bellico con parole che alludono causticamente al suo
predecessore Kant: “Come il movimento dei venti preserva il mare dalla
putredine cui sarebbe ridotto da una bonaccia duratura, così la guerra preserva
i popoli dalla putredine cui sarebbero ridotti da una pace duratura o
addirittura perpetua”.
Hegel, secondo le annotazioni di un discepolo, pensava alla guerra come scontro fra eserciti e non fra popoli determinati a distruggersi reciprocamente: “Quindi, le guerre moderne son fatte umanamente, e la persona non è in atteggiamento di odio, di fronte alla persona. Tutt’al più, sopravvengono ostilità personali agli avamposti: ma, nell’esercito come esercito, l’ostilità è qualcosa di indeterminato, la quale vien meno, di fronte al dovere, che ciascuno rispetta nell’altro”. E ancora: “In essa è conservata la possibilità della pace, e, quindi, per esempio, sono rispettati gli ambasciatori, e, per cui, più in generale, essa non è fatta contro le istituzioni interne e la vita pacifica di famiglia privata, né contro le persone private”. Il filosofo tedesco manterrebbe la sua apologia della guerra anche due secoli dopo, avendo constatato la radicalizzazione dei conflitti (diventati “totali”) nella Prima e nella Seconda Guerra mondiale? Non saprei, ma temo che quando la filosofia si costituisce come deduzione logica e non come riflessione critica sui dati empirici sia capace di enormi disastri. Comunque, anche nelle epoche in cui a combattere erano soprattutto i soldati nei campi di battaglia (ma le popolazioni civili hanno sempre pagato, comunque, prezzi elevati), la saggezza ‘classica’ occidentale ha contestato la tesi che gli esiti della guerra rivelino quale contendente stesse dalla parte “giusta”. All’inizio del Cinquecento, Erasmo da Rotterdam dava voce a questa antica saggezza con l’amara ironia della sua vena: “Marte è un dio sciocco e balordo, non meno cieco di Pluto o di Cupido, sempre o quasi sempre pronto ad abbracciare la peggiore delle parti in causa”.
Augusto Cavadi
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Sul tema “Pensare la guerra, progettare la pace”
si svolgerà la Settimana di filosofia per non…filosofi prevista a Vallombrosa
(Fi) dal 19 al 25 agosto 2024. Per informazioni consultare www.vacanze.filosofiche.it
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