mercoledì 21 agosto 2024

ERASMO DA ROTTERDAM: LA GUERRA E' GRADEVOLE SOLO PER CHI NON L'HA MAI PROVATA!

 

 Appunti per la prima relazione di Augusto Cavadi su Erasmo da Rotterdam

(Vallombrosa, mercoledì 21.8.2024)                                                    

Erasmo (1466 – 1536) è nato a Rotterdam in Olanda ed è morto a Basilea. Visse dunque in un momento storico tra i più bellicosi della storia occidentale: il capitalismo agrario abolisce i campi “aperti” e gli usi civici dei contadini scatenandone le insurrezioni; la cristianità si spacca in due blocchi ferocemente contrapposti (Chiesa cattolica romana e Chiese protestati riformate); perfino fra sovrani della stessa confessione religiosa (cattolica) come il re Francesco I e l’imperatore Carlo V si combatte ricorrendo ad armi inedite quali i cannoni (che Ludovico Ariosto, nell’Orlando furioso del 1516, chiama “machina infernal”)[1]; come se ciò non bastasse, navi dotate di cannoni vengono schierate contro l’impero turco e spedite ai quattro angoli del pianeta per colonizzare e schiavizzare le popolazioni più indifese.

In questo contesto manicomiale Erasmo prova ad opporre la voce della saggezza più antica che, per lui umanista, è un intreccio inseparabile di saggezza filosofica greca e di saggezza teologica evangelica. A soli venti anni (in un convento dove è costretto a vivere per sopravvivere alla morte precoce del padre e della madre) pubblica la sua prima opera, Il disprezzo del mondo, in cui

“accanto alle settanta citazioni dai classici – Virgilio, Orazio, Ovidio, Terenzio, Lucano, in particolare Giovenale – ce ne sono solo cinque dalla Bibbia. E il tutto fa più appello alla ragione umana che alla fede ecclesiastica. (…) Difende deliberatamente l’epicureismo – tota vitae nostrae ratio epicurea est – e definisce Gesù il suo “amico più importante”, per citarlo allo stesso modo con cui cita Virgilio o Cicerone”[2].

Ed è in questa prospettiva che potremmo definire di spiritualità “laica” che in uno dei suoi primi trattati, Orazione sulla pace e la discordia contro i faziosi, inveisce contro la stoltezza dei contemporanei:

“Oh, irragionevole ragione degli uomini che pur potendo vivere ininterrottamente felici, a causa della loro ambizione, si mettono in testa una continua infelicità! E ciò mentre dall’honestas scaturisce la vera voluptas, che rende già possibile un’esistenza armoniosa sulla terra”[3].

Ovviamente viene guardato con sospetto dai protestanti perché resta cattolico, dai cattolici perché riconosce molte ragioni dei protestanti e dai cattolici e dai protestanti insieme perché troppo umanista, troppo ‘laico’[4].

Della sua notevole opera ritagliamo qui solo un percorso specifico: la sua “scienza della pace” (per usare una espressione di Bart de Ligt che, nell’intervallo fra la Prima e la Seconda guerra mondiale, ha dedicato ad Erasmo nel 1936 il volume tradotto in italiano con il titolo Erasmo nonviolento. La voce dell’Umanesimo in un’Europa dilaniata dalle guerre).

 

Diagnosi

Vediamo, innanzitutto, la fotografia  - o la diagnosi – della follia che è la guerra per Erasmo. Essa non è un male come gli altri, ma una sorta di culmine/sigillo che enfatizza sino al parossismo la condizione antropologica di base:

“Quanto fugace, breve e fragile è la vita umana, a quali malanni è esposta, dal momento che tante malattie ed eventi accidentali le stanno addosso – rovine, naufragi, terremoti, fulmini? Che bisogno c’è, dunque, di andare in cerca anche dei malanni della guerra, i quali, per altro, sono i più disgraziati di tutti? ”[5] ( p. 65).

Infatti:

“Gli occhi bruciano, i volti sbiancano, l’andatura si fa frenetica, la voce diventa un ruggito, un urlo malsano; l’uomo è tutto di ferro, le armi cozzano, i cannoni esplodono…frecce intinte di veleno e macchine infernali stanno rendendo la guerra ancora più spietata. Non c’è più nessun vestigio di umanità”

scrive in un saggio del 1500 il cui titolo è già da solo eloquentissimo: Dulce bellum inexpertis (Dolce la guerra solo a chi non l’ha mai sperimentata) [6]. E in un altro scritto aggiunge:

“Ovunque nei campi si bruciano le messi…si danno alle fiamme tutti i casolari…le figlie violentate, le spose rapite…Il diritto è sepolto, le leggi sprofondate, la libertà sommersa, tutto è sottosopra”[7].

Come i danni materiali non fossero abbastanza, la guerra ne provoca di morali:

"Le guerre, forse, si potrebbero sopportare, se ci rendessero solo disgraziati, e non anche malvagi e perfidi, e se la pace ci facesse solo piu' felici, e non anche migliori. Empio, percio', e' chiunque provoca la guerra". Tutti i mali naturali che possono capitarci, e che non possiamo evitare, ci rendono solo disgraziati, ma non malvagi. La guerra e' il male piu' atroce e pernicioso, che da solo tutti li comprende e li supera” [8].

Ciò che stupisce Erasmo è un dato sociologico che rende ancora più disastroso il ricorso alla guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti: l’assuefazione ad essa da parte dell’umanità, anche colta. Scrive ad esempio:

“al giorno d’oggi la guerra è un fenomeno così largamente recepito, che chi la mette in discussione passa per stravagante e suscita la meraviglia: la guerra è circondata di tanta considerazione, che chi la condanna passa per irreligioso; sfiora l’eresia; come se non si trattasse dell’iniziativa più scellerata e al tempo stesso più calamitosa che ci sia”[9].

L’assuefazione alla logica bellica provoca uno sconvolgimento degli stessi criteri di giudizio morale:

Chi ruba una veste e' un infame, chi depreda tanti innocenti in guerra e' annoverato fra i cittadini dabbene”[10].

Né basta a dissuadere dalle guerre la constatazione universale che esse sono deleterie sia nel corso del tempo in cui si svolgono sia per un lungo tratto di tempo successivo:

“E non dimenticare i misfatti commessi con la scusa della guerra, quando le buone leggi sono messe a tacere dalle armi: le rapine, i sacrilegi, i ratti, e tutte le altre infamie, che si ha ritegno perfino a nominare. Ed è inevitabile che tale corruzione duri molti anni, anche quando la guerra è finita. Se poi fai il conto delle spese, vedrai che, anche se vinci, il danno è molto maggiore del guadagno. D’altra parte quale regno vale la vita e il sangue di tante migliaia di uomini?”[11]

 

Preventivare ricavi e perdite è secondo Erasmo un calcolo ragionevole ineludibile:

“Che più folle dell’attaccar briga per una ragione qualsiasi, quando da ultimo entrambe le parti finiscono sempre per averne più danni che vantaggi? In quanto a coloro che muoiono, di loro nessuno si cura” (Elogio, p. 53).

 

Proprio un calcolo razionale di vantaggi e svantaggi potrebbe portare a sostenere (riprendendo un pensiero di Cicerone) che:

“Qualsiasi pace ingiusta è quasi sempre preferibile alla più giusta di tutte le guerre. Valuta prima attentamente cosa richiede o comporta una guerra, e vedrai quale guadagno”[12].

Tutte le considerazioni sinora svolte da Erasmo hanno un valore universale, ma egli ne aggiunge spesso altre rivolte più specificamente ai cristiani, soprattutto ai papi e ai vescovi. Di san Pietro

“il Vangelo riporta la frase: «Abbiamo lasciato ogni cosa per seguire Te»; tuttavia i Santi Padri considerano come facenti parte del loro patrimonio campi, castelli, tributi, diritti doganali, giurisdizioni. Combattendo accesi dallo zelo di Cristo solo per questi beni e col ferro e col fuoco, non senza grande spreco di sangue cristiano, «sconfitti valorosamente i nemici», come proclamano, credono di aver difeso con vera fede apostolica la sposa di Cristo. Come se la Chiesa potesse avere nemici peggiori degli empi pontefici, che lasciano dileguare Cristo dall’animo degli uomini…” (Elogio, pp. 122 – 123).

Per coglierne meglio le ragioni di queste denunzie esplicite, pur dalla bocca di un cattolico, va ricordato che, quando il monaco nomade olandese  finalmente aveva coronato il sogno di visitare l’Italia in quanto culla delle arti e delle lettere, vi arriva mentre

“Papa Giulio II conduce nel modo più pagano una guerra orientata a dominium et potestas, come un novello Giulio Cesare. Erasmo partecipa amareggiato a Bologna al trionfale ingresso notturno del grande papa-soldato: torce accese, processioni di bambini esultanti, guerrieri, muli, cavalli, trombe, armi, vescovi e cardinali vestiti pomposamente e infine il papa, come un dio pagano, su una magnifica portantina, inneggiato da un popolo impazzito a cui vengono gettate monete d’oro luccicanti dalla lunghissima processione – cosa c’entra tutto questo con la simplicitas et paupertas nelle quali il vicario di Cristo dovrebbe eccellere? Cristo stesso fu illuminato da torce solo quando, con un Pietro disarmato, si preparò a morire in modo non violento per i suoi…” (p. 277).

 

 

Terapia

Cosa fare, allora, se si vuol passare dalla diagnosi alla terapia?

     a) Innanzitutto non assuefarsi all’intollerabile, non perdere la capacità di scandalizzarsi e di indignarsi, non banalizzare i mali come fossero elementi ineliminabili del paesaggio umano:

 

“Ci siamo  tal punto abituati alle guerre, al brigantaggio, ai tumulti civili, alle faziosità, ai saccheggi, alle pestilenze, alle carestie, alla fame che quasi non consideriamo più tutte queste cose come dei mali”[13].

A questa assuefazione contribuisce una ricezione letteralista – diciamo pure fondamentalista -  della Bibbia, da cui dobbiamo prendere le distanze:

Dicono: se la guerra non fosse lecita, Dio non avrebbe mandato gli ebrei contro i nemici. (…)  Se ci piace tanto l'esempio degli ebrei, perche' non ci tagliamo anche il prepuzio, non immoliamo vittime, e non prendiamo parecchie mogli? (…) Ma Cristo ordino' di riporre la spada: ai cristiani e' lecita solo la guerra bellissima contro la cupidigia, l'ira, l'ambizione, la paura della morte, i veri nemici della chiesa. «Solo questa e' la guerra che genera la vera pace»”[14] .

Se di patologie si tratta, quando consideriamo la guerra e il suo contorno di guai, dobbiamo imitare i medici bravi che

“per prima cosa indagano con precisione le cause del male, e quando le hanno scoperte, trovano il rimedio senza troppi indugi. Se non sono contenti del risultato, cercano altri mezzi per impedire la ricomparsa immediata del flagello. Perché, quando si tratta di mali così gravi e così frequentemente ripetuti come la guerra, gli uomini saggi ed esperti non studiano attentamente le ragioni per cui tali terribili morbi riappaiono bruscamente nel mondo, affinché si possano tagliare le radici e rimediare a mali così terribili? Perché noi siamo così attenti in affari meno importanti e siamo colpiti di cecità davanti a un problema tanto più grave?” [15]

b   b) Intervenire sulla violenza sin dalle sue radici, rintracciabili nella tradizione della caccia degli animali, per lo più inermi. E’ una consapevolezza che circola all’epoca di Erasmo:

 

“ <<Dalla vera nobiltà – dichiara Poggio (Bracciolini) nel De Nobilitate -  si è tanto più lontani quanto più a lungo i propri antenati sono stati dei criminali>>. La passione per la caccia, che caratterizza la classe cavalleresca, è quindi solo una prova della sua povertà morale, della sua mancanza di civiltà interiore. La nuova nobilitas non si distingue per grossolana attitudine bellicosa e crudele violenza, ma per una qual certa più nobile virtus, cioè virtù: studium humanitatis >> “[16].

Li   c) Liberare le nuove generazioni dalle tradizioni storiche perverse è compito precipuo dell’educazione che deve basarsi su una visione realistica dell’ambivalenza costitutiva dell’essere umano:


“L’uomo è predisposto ad un’effettiva ragionevolezza, ratio, in forza del suo ingenium o intellectus; tuttavia , tende fin dalla nascita piuttosto alla stultitia , all’immoralità e alla follia, che praticamente          si manifesta con ogni genere di ‘barbarie’ – ignoranza, immoralità, superstizione, crudeltà, ingiustizia, oppressione, guerra, ecc. – Il mero sviluppo intellettuale non può quindi essere d’aiuto perché, in caso di cattiva inclinazione, viene utilizzato in modo improprio. L’educazione quindi è un’eruditio orientata a saggezza, sapientia la quale, quando arriva a comprendere se stessa, diventa philosophia[17].

 

      d) La consapevolezza dell’ambivalenza dell’essere umano deve indurre genitori e insegnanti, prima di ogni altra mossa, all’autocritica e all’autoformazione:

 

“Ogni educatore deve in primo luogo educare se stesso: tali genitori, tali figli! Ci sono perfino interi popoli che, quando i giovani hanno ancora la bocca sporca di latte, li addestrano alla guerra, insegnano loro ad avere uno sguardo minaccioso, a brandire la spada e infliggere ferite ai loro vicini”[18] .

 

     e)  La prima palestra dell’avviamento alla violenza come postura abituale è la violenza contro gli animali:

 

“Tra questo genere di folli sono da contarsi anche coloro che nutrono un profondo disprezzo per tutto ciò che non abbia a che fare con la caccia, ed affermano d’essere al settimo cielo non appena odono uno sgradevole suono di corno o l’abbaiare dei cani. Penso che quando sentono l’odore di escrementi canini, sono convinti di odorare della cannella. Più tardi, quale piacere squartare la preda! (…) E sebbene questi cacciatori, col continuare per tutta la loro vita a squartare e mangiar animali non ottengano altro risultato se non di imbestialire anch’essi, pure sono convinti di condurre una vita da principi” (Elogio, pp. 77 – 78).

 

f)         f) Un secondo gradino è costituito dalla violenza sui minori, dalla primissima infanzia all’adolescenza. E solo degli educatori ri-educatisi possono spezzare la catena di quella che nel XX secolo sarà denominata “pedagogia nera”. Infatti, ai tempi di Erasmus, gli allievi venivano trattati molto aspramente in collegi dove si viveva in condizioni igieniche disastrose, con poco cibo e molte correzioni fisiche: egli per primo l’aveva sperimentato sulla propria pelle.

 

g    g)  (Un terzo spazio in cui esercitare l’attitudine violenta è costituito dalle relazioni di genere, prevalentemente dei maschi sulle femmine: ma il monaco rinascimentale Erasmo non pare accorgersene).

 

 

Per quanto fondamentale, la pedagogia non è sufficiente: va integrata con un’impostazione politica adeguata.

        a) Nel celebre, e già citato, saggio magistrale Dulce Bellum Inexpertis egli sottolinea la necessità per la pace di un controllo dei governanti da parte dei governati. Non lo fa in termini di democrazia moderna, ma utilizzando le categorie dell’epoca parla del diritto dei sudditi di ribellarsi ai principi guerrafondai:

 

“Coloro che hanno il potere vogliono semplicemente sempre più potere, sebbene non abbiano alcun diritto al dominio, ma sono solo obbligati ad administratio. Inoltre, nessun principe dovrebbe disporre di uomini, liberi per natura, come bestie: <Il diritto che tu, principe, possiedi ti è stato dato per volontà del popolo. Ritengo che chi l’abbia dato possa anche riprenderselo, se non viene esercitato nel suo interesse>”[19].

b    b) In un’epistola a Leone X, in cui dissente dalla volontà di questo papa di muovere guerra ai Turchi (che invece andrebbero convertiti con le parole e gli esempi[20]) arriva ad estendere il diritto/dovere di disobbedienza civile anche nei confronti delle autorità ecclesiastiche:

 

“deve essere riconosciuto pubblicamente che un papa guerriero non merita nessuna obbedienza”[21].

 

c)       I vertici ecclesiastici non vanno obbediti non solo quando, come Giulio II, si mettono fisicamente a capo di eserciti, ma anche quando legittimano la “guerra giusta”:

 

“ E’ veramente possibile una guerra giusta? Anche quella più giusta è condotta nella maniera più ingiusta. Le leggi papali possono anche non condannare tutte le guerre, Agostino può pur approvarne alcune e san Bernardo lodare i soldati, ma Cristo, Paolo e Pietro insegnano ovunque il contrario e la loro autorità non supera forse quella degli altri?”[22]

Il potere dei cittadini di condizionare le scelte dei politici si potrebbe concretizzare, secondo Erasmo, costringendoli (o per lo meno inducendoli) ad assumere alcune linee programmatiche.

d   a)  Una prima indicazione è lo smantellamento degli eserciti stabili:

 

“Gli eserciti permanenti non servono a nulla: meno soldati ci sono, meglio è!”[23]

 

e     b) Una seconda indicazione è di sostituire, come mezzo di risoluzione dei conflitti, la guerra  con una sorta di “arbitrato internazionale”[24]:

 

“Quando sorgono conflitti sottoporre le controversie in questione a dei seri eruditi ecclesiastici e a uomini, divenuti saggi per esperienza, per farle giudicare da loro, piuttosto che procedere a una guerra così rischiosa”[25] .

 

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

[1] “Carlo V e Francesco I vogliono divorarsi l’un l’altro…O Dio immortale, perché il papa non impedisce ai suoi figli di tagliarsi il collo a vicenda?” (Erasmo cit. in B. Ligt, Erasmo nonviolento. La voce dell’Umanesimo in un’Europa dilaniata dalle guerre, a cura di R. Altieri, Centro Gandhi Edizioni, Pisa 2023, p.312.

[2] B. Ligt, Erasmo nonviolento, cit., p.215.

[3] Erasmo, Orazione sulla pace e la discordia contro i faziosi, cit. in B. Ligt, Erasmo nonviolento, cit., p. 215.

[4] Lutero, ancor più dei cattolici, ha ripetutamente condannato l’ottica umanistica di Erasmo: “Le cose umane sono per lui più delle divine”; “Erasmo i cui scritti portano alla distruzione di ogni religione”, “Schiacciare Erasmo è mettere il dito su una cimice che puzza ancor più da morta che da viva” (cit. in B. Ligt, Erasmo nonviolento, cit., p.316).

[5] Erasmo, La formazione del principe cristiano, cit. in R. Altieri, Erasmo per curare la follia della guerra, saggio introduttivo a B. Ligt, Erasmo nonviolento, cit. p. 65.

[6] Erasmo, Dolce la guerra solo a chi non l’ha mai sperimentata, cit. in R. Altieri, Erasmo, cit. p. 50.

[7] Erasmo, Orazione sulla pace e la discordia, cit. in R. Altieri, Erasmo, cit. p. 24.

[8] E. Peyretti, Erasmo, Umanesimo e cristianesimo della pace. Sintesi del saggio di Erasmo “Dulce bellum inexpertis” (La guerra piace a chi non la conosce) (1515) in
"Tempi di fraternità'", n. 6, giugno-luglio 2018 (la citazione tra virgolette è da Erasmo, La guerra piace a chi non la conosce).

[9] Erasmo, Dolce la guerra, cit. in R. Altieri, Erasmo, cit., p. 51.

[10] E. Peyretti, Erasmo, cit.

[11] Erasmo, Lettera ad Antonio di Bergen, cit. in R. Altieri, Erasmo, cit. , p.14.

[12] Erasmo, Lamento della pace, cit. in R. Altieri, Erasmo, cit., p. 58.

[13] Erasmo, Sull’opportunità di muovere guerra ai Turchi, cit. in R. Altieri, Erasmo, cit., p. 62.

[14] E. Peyretti, Erasmo, cit. (la citazione tra virgolette è da Erasmo, La guerra piace a chi non la conosce).

[15] Erasmo, Lettera a Francois Ier, cit. in R. Altieri, Erasmo, cit. , pp.43 - 44.

[16] B. de Ligt, Erasmo nonviolento, cit., pp. 104 – 105.

[17] B. de Ligt, Erasmo nonviolento, cit.,p. 252.

[18] Ivi.

[19] Erasmo, Dolce la guerra, cit. in B. Ligt, Erasmo nonviolento, cit. p. 289. Su questo tema Erasmo ritorna più volte, ad esempio nel suo Querela Pacis. Sintetizza così B. de Ligt, Erasmo nonviolento, cit., pp. 303 – 304: “Egli si chiede apertamente per quanto tempo ancora i popoli si lasceranno maltrattare dai principi; afferma che una guerra dovrebbe al massimo essere condotta con il consenso dell’intera nazione interessata; riconosce che i cittadini abbiano il diritto di rendere impossibili tutte le guerre ingiuste e che possano farlo immediatamente, cosicché la stragrande maggioranza del popolo possa consapevolmente unirsi contro la tirannia di pochi: la decisione unanime di un popolo dovrebbe frenare un principe malvagio nelle sue passioni, poiché il bene comune oltrepassa quello particolare”.

[20] “Voler combattere i turchi con le armi significa combattere contro i turchi come i turchi stessi. Non è facendo il  male ai turchi ma facendo loro il bene che potremo conquistarli a Cristo” (Erasmo, Dolce la guerra, cit. in B. Ligt, Erasmo nonviolento, cit. pp. 289 – 290).

[21] E’ l’Epistola 335 di cui si trova una sintesi in B. de Ligt, Erasmo nonviolento, cit.,p. 309.

[22] L’idea è espressa da Erasmo nel suo Institutio Principis christiani (che è quasi l’antitesi del contemporaneo Il Principe di Machiavelli): ): cfr. B. de Ligt, Erasmo nonviolento, cit.,pp. 300- 301.

[23] Ivi.,p. 300.

[24]  B. de Ligt, Erasmo nonviolento, cit.,p. 289 (in nota a pié di pagina).

[25]  Ivi, p. 289.

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