giovedì 29 agosto 2024

ADDIO AD ARNALDO NESTI, PADRE DELLA SOCIOLOGIA DELLA RELIGIONE IN ITALIA


Alla rispettabile età di 92 anni si è spento, in questi scampoli di agosto, Arnaldo Nesti. Che la grande stampa non abbia dato risalto alla notizia fa parte del gioco: chi è vissuto di ricerca, di pubblicazioni, di organizzazione di eventi culturali – senza sgomitare per un po’ di pubblicità e di consensi – perché dovrebbe avere da morto i riconoscimenti che non ha avuto (più precisamente: che ha avuto solo in parte) da vivo ? Ma agli amici spetta almeno il dovere di un grato saluto.

Lo conobbi negli anni Ottanta, durante la “Primavera di Palermo”: ospite del sindaco Orlando girava per la città con un autista per osservare il Festino di santa Rosalia e abbozzare un confronto con festività religiose simili a Barcellona in Catalogna e a Città del Messico. Fu lui a presentarsi per chiedermi delle notizie sui rapporti fra mentalità mafiosa e religiosità cattolica: lo fece con un garbo così signorile, quasi con modestia nei confronti di un interlocutore come me più giovane e per nulla accademicamente blasonato, che diventammo amici. Da allora la mia casetta fu (quasi sempre) la sua residenza palermitana e il suo appartamento in via sant’Agostino, nel cuore e sui tetti di Firenze, la mia tana fiorentina.

Allora non ero stato espulso (per colpe che dopo quarant’anni non sono riuscito neppure a individuare) dal novero dei collaboratori del mensile “Segno” dei Padri Redentoristi di Palermo: dunque negli archivi dei numeri pubblicati rimangono colloqui fra me e lui, resoconti di avventure progettate insieme (ad esempio un convegno sulla religiosità meridionale a Mezzojuso, nell’Eparchia di Piana degli Albanesi, area ideale per scambi fra Oriente greco-ortodosso e Occidente latino-cattolico), mie recensioni di libri suoi.

Ma chi era Arnaldo Nesti? Da giovane prete si era laureato in sociologia della religione con una tesi su Antonio Gramsci e, quando fu certo che non avrebbe potuto conservare con Giovanni Paolo II e con Benedetto XVI la libertà intellettuale e progettuale, ha rinunziato al ministero presbiterale per occupare la prima cattedra universitaria italiana di “Sociologia della religione”.

Impossibile richiamare tutti i titoli delle sue pubblicazioni, più impegnative o meno: ormai i motori di ricerca sul web ci hanno liberato da ogni alibi conoscitivo (si può partire dal profilo che Luca Kocci ne ha tratteggiato su “Adista” in queste ore: https://www.adista.it/articolo/72392

Da parte mia non posso risparmiarmi almeno due riferimenti alle imprese che hanno inserito il “Professore” nella storia dell’istruzione e della vita ecclesiale italiana: la fondazione e la direzione sino all’ultimo respiro della rivista “Religioni e società” e l’istituzione della “Summer School on Religion” di San Gimignano (che si sta celebrando per il XXXI anno proprio in questi giorni dal 24 al 28 agosto).

Tra i doni che ho ricevuto da Arnaldo il contatto con Mariangela Maraviglia, una studiosa a lui – meritatamente-  cara che ha voluto ricordarlo su Facebook con una delle sue tante pagine illuminanti: “Il senso dell’essere umano nella storia di oggi è di trovare un principio che gli consenta di muovere le energie intellettuali e spirituali per costruire la solidarietà, l’armonia […]: amare il prossimo come se stessi, amare la terra come se fosse il nostro corpo, mantenere il respiro di una vita che si rinnova continuamente, accarezzare il volto altrui, correre sui prati ad ammirare i gigli, inseguire con gli occhi il volo delle rondini, ricordarsi che, nel quadro del cosmo in cui ci troviamo, in comunione coi vivi e coi morti di ogni tempo, come afferma l’astrofisico Carl Sagan (1934-1996), «siamo polvere di stelle che contempla le stelle»” (A. Nesti, L’incerto domani. Spiragli spirituali, Roma 2020, da me recensito su: https://www.zerozeronews.it/dio-fedi-e-dintorni-verso-una-civilta-post-religiosa/ ).


               Augusto Cavadi

www.girodivite.it

28.8.2024

martedì 27 agosto 2024

DOPO LA FERIE, RIPRENDERE L'IMPEGNO QUOTIDIANO PER LA PACE NELLA GIUSTIZIA

Le vacanze sono vacanze, lo capisco. Ma è intelligente passarle solo per non pensare, anziché anche per fare il punto sulla nostra vita, approfittando di una sospensione momentanea dei ritmi ossessivi quotidiani?  Sulla nostra vita: intendo di ciascuno/a di noi, intendo anche di noi come umanità. Ci rendiamo conto che suoniamo, cantiamo e balliamo su un Titanic in rotta di collisione con la Terza – e ultima – guerra mondiale?  Ma davvero non ci siamo convinti che con Putin e Zelensky, con Biden e Von der Leyen (per non parlare degli attori non-protagonisti e delle comparse) siamo a un passo dalla catastrofe?

So la risposta sincera dei migliori fra noi (so anche quella dei peggiori, ma non m’interessa): “Che ci posso fare, io?”.

Già, che può fare ognuno/a di noi? Nulla (o quasi) e tutto (o quasi).

Isolatamente possiamo fare nulla, o quasi nulla.

Aggregandoci ad altre persone, sole come noi ma come noi non rassegnate, possiamo fare tutto, o quasi tutto.

In ogni città italiana – per ora non voglio alzare lo sguardo più in là – c’è un centro, una sede, una delegazione, una sezione, un circolo di qualche organizzazione nazionale o internazionale impegnata attivamente contro la guerra: un partito politico o un sindacato o un movimento o un’associazione…Nessuna di queste organizzazioni  è perfetta, d’accordo. E allora? Sono forse prive di difetti le organizzazioni fondate su ideologie militariste, guerrafondaie, colonialiste, imperialiste? Quando la casa brucia, si ricorre a ogni riserva d’acqua disponibile.

Basta fare un giro in internet per trovare decine di aggregazioni che da decenni lavorano non solo “contro” i conflitti bellici ma, soprattutto, “per” la pace, per la gestione nonviolenta dei conflitti, per diminuire le sperequazioni  fra popolo e popolo, fra strati sociali all’interno dello stesso popolo, fra individui all’interno dello stesso strato sociale (dipendentemente dal livello di onestà o di corruzione in cui ognuno di essi svolge il proprio lavoro). 

Se qualcuno non ha la pazienza per navigare in rete può consultare le pagine che nel volumetto di Andrea Cozzo, La nonviolenza oltre i pregiudizi. Cose da sapere prima di condividerla o rifiutarla, sono dedicate a una schematica presentazione dei principali gruppi attualmente operanti in Italia: il Movimento Nonviolento (fondato da Aldo Capitini), il MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), PeaceLink, la Comunità dell’Arca (fondata dal gandhiano Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto), Pax Christi, UPP (Un Ponte Per), Operazione Colomba (Corpo Nonviolento di pace), Rete italiana per la pace e il disarmo, Centro Studio Sereno Regis, Centro Gandhi. Se siamo onesti con noi stessi, non abbiamo scampo: c’è solo l’imbarazzo della scelta. Queste e simili organizzazioni hanno bisogno di soldi, ma soprattutto di persone che dedichino tempo, energie, idee: nessuno, se ha capito la gravità del passaggio storico che stiamo attraversando, può tirarsi fuori per falsa umiltà.

A mezzo secolo di distanza la situazione è la stessa rappresentata da Norberto Bobbio a chiusura del suo bel saggio Il problema della guerra e le vie della pace: ... 

                        Per completare la breve lettura, basta un click qui (sull'edizione originaria illustrata):

https://www.zerozeronews.it/ferie-sprecate-e-coscienza-antinucleare-e-non-violenta-da-formare/

giovedì 22 agosto 2024

DIBATTITO FRA KANT ED HEGEL SULLA GUERRA E LA PACE

 Testo su cui si è basato Augusto Cavadi per introdurre il seminario del 22.8.224

alla Settimana di filosofia per non...filosofi a Vallombrosa


Kant ‘laicizza’ il discorso di Erasmo

 

A cavallo fra il Quattrocento e il Cinquecento Erasmo da Rotterdam aveva prefigurato la necessità di organismi internazionali che avessero il compito, e il potere, di dirimere i conflitti fra gli Stati evitando lo scoppio delle guerre. Ma, ancora influenzato dalla mentalità medievale, pensa al papa come titolare di questa mediazione autorevole e, comunque, la invoca in nome di Dio e della fedeltà al messaggio di pace del vangelo.

L’idea di una soluzione giuridico-istituzionale è ripresa due secoli dopo da Kant, ma in maniera molto più articolata e in un orizzonte del tutto laico, razionale, indipendente da istanze teologiche: per lui la politica dev’essere subordinata alla morale, ma la morale non alla religione.

Il testo principale di riferimento - Per la pace perpetua - è stato scritto da Kant in piena maturità (verso i 70 anni)[1], ma in queste brevi note lo integreremo con sue considerazioni esposte (prima e dopo di questo celebre saggio) in altri scritti dedicati alla storia, e dunque alla politica e al diritto, nel 1795.

 

La concezione dell’essere umano

Come avviene (esplicitamente o implicitamente) in tutte le teorie politiche, alla base di ogni progetto vi è una certa interpretazione dell’essere umano. Nel caso di Kant, l’uomo non è del tutto malvagio, ma neppure pura razionalità senza passioni anche egoistiche: la sua condizione è piuttosto di “socievole insocievolezza”, oscilla fra desiderio di isolamento e necessità di convivenza. Tale condizione lo espone se non alla guerra continua, al rischio della stessa che è – erasmianamente – la sintesi di tutte le calamità che l’uomo possa procurare a sé stesso. E che dunque, almeno come ideale da perseguire, cancellata dalla storia.

Poiché “lo stato di pace tra uomini assieme conviventi non è affatto uno stato di natura”, “dev’essere istituito”. Come fare?

 

I 3 articoli di una Costituzione civile mondiale

In un certo senso, e sino a un certo punto, come siamo riusciti a sradicare – o almeno rendere improbabili – le guerre civili far cittadini all’interno dello stesso Stato: con un patto costituzionale che ci ha traghettati dallo status naturalis a far parte di “una qualche costituzione civile” (Pp, 45).

Tale costituzione dovrebbe basarsi su 3 articoli.

·      In base al primo, “la costituzione civile di ogni Stato dev’essere repubblicana” . Poiché scrive in Prussia, monarchia autocratica, ma è un entusiasta ammiratore della Rivoluzione francese ancora in corso, Kant deve giocare su un filo da equilibrista: da una parte, “ogni vera repubblica, ora, non è e non può non essere altro che un sistema rappresentativo del popolo, avente lo scopo di proteggere in nome del popolo (…) i diritti dei cittadini stessi”; dall’altra, “è provvisoriamente (giacché essa non si realizza in modo tanto celere) dovere dei monarchi, sebbene comandino autocraticamente, governare tuttavia repubblicanamente[2].

·      Il secondo articolo dovrebbe recitare: “Il diritto internazionale deve fondarsi sopra una federazione di liberi Stati”. Kant esclude esplicitamente la formazione di un unico Stato mondiale, “uno Stato di popoli”, perché prematuro rispetto alla coscienza media attuale, ma  auspica almeno “una federazione di popoli”: “Come l’attaccamento dei selvaggi alla loro libertà senza legge, che li spinge a preferire di azzuffarsi di continuo tra loro piuttosto che sottoporsi a una coazione legale da loro stessi stabilita, a preferire una folle libertà a una libertà ragionevole, noi lo riguardiamo con profondo disprezzo e lo consideriamo barbarie, rozzezza, degradazione brutale dell’umanità, così si dovrebbe pensare che popoli civili (di cui ognuno forma uno Stato per sé) dovrebbero affrettarsi ad uscire al più presto possibile da uno stato così degradante. Al contrario ogni Stato ripone piuttosto la propria maestà (…) nel non sottoporsi a coazione legale esterna di sorta, e lo splendore del sovrano si fa consistere nell’avere al suo comando, senza che egli stesso si esponga al pericolo, molte migliaia di uomini pronti a sacrificarsi per una causa di cui ad essi non importa nulla”. “Se per diritto internazionale si intende il diritto alla guerra (…), esso non significa propriamente nulla. Si dovrebbe infatti intendere nel senso che uomini che pensano in tal modo hanno la sorte che si meritano, se si distruggono a vicenda e cercano così la pace eterna nella vasta fossa che copre coi loro autori tutti gli orrori della violenza”.

·      Il terzo articolo recita: “Il diritto cosmopolitico dev’essere limitato alle condizioni di una universale ospitalità”. “Non si tratta di filantropia” – precisa Kant – “ma di diritto, e quindi ospitalità significa il diritto di uno straniero che arriva sul territorio di un altro Stato di non essere da questo trattato ostilmente”. Il filosofo non tematizza la questione dal punto di vista odierno dei flussi migratori, ma l’affronta – autocriticamente – dal punto di vista del colonialismo europeo che abusa del “diritto di visita, spettante a tutti gli uomini”: “Questo diritto di ospitalità, cioè questa facoltà degli stranieri sul territorio altrui, non si estende oltre le condizioni richieste per render possibile un tentativo di traffico cogli antichi abitanti. In questo modo parti del mondo lontane entrano in pacifici rapporti tra loro, e questi rapporti diventano col tempo formalmente giuridici e avvicinano sempre più il genere umano a una costituzione cosmopolitica. Se si paragona con questo la condotta inospitale degli Stati civili, soprattutto degli Stati commerciali del nostro continente, si rimane inorriditi a vedere l’ingiustizia che essi commettono nel visitare terre e popoli stranieri (il che per essi significa conquistarli). L’America, i paesi abitati dai negri, le Isole delle spezie, il Capo di Buona Speranza ecc., all’atto della loro scoperta erano per essi terre di nessuno, non facendo essi calcolo alcuno degli indigeni. Nell’India orientale (Indostan), col pretesto di stabilire stazioni commerciali, introdussero truppe straniere e ne venne l’oppressione degli indigeni, l’incitamento dei diversi Stati del paese a guerre sempre più estese, carestia, insurrezioni, tradimenti e tutta la lunga serie di mali che possono affliggere l’umanità”. Kant, che parla sempre da filosofo, non dimentica di essere personalmente un cristiano e, dunque, non può fare a meno di notare: “E questo fanno gli Stati che ostentano una grande religiosità; e mentre commettono ingiustizie con la stessa facilità con cui berrebbero un bicchier d’acqua, vogliono passare per esempi rari in fatto di osservanza del diritto”.

 

Qualche osservazione a margine per chiarire che Kant non è un ingenuo.

 

 Infatti:

 

* distingue (non sempre con nettezza) la guerra da altri generi di conflitti (come la competizione industriale e commerciale): questi ultimi (sia tra individui che fra popoli) sono sempre benefici ai fini del progresso dell’umanità.

* Quanto alle guerre persino esse  hanno avuto degli effetti positivi se non altro perché hanno evidenziato la necessità di andare oltre la fase storica millenaria sinora attraversata. Tuttavia , nel chiudere il bilancio dei vantaggi e svantaggi della guerra, Kant cita un detto antico: "La guerra e' un male, perche' fa piu' malvagi di quanti ne toglie di mezzo". Commenta Enrico Peyretti: “Dunque, chi vince nella guerra? Il male. La pretesa della vittoria armata e' di sradicare un male. Ma essa e' radice di altro maggiore male. Oh, se la guerra togliesse di mezzo i malvagi! Ameremmo la guerra come amiamo il bene! Ma qui e' l'immenso inganno: sempre la guerra si ripresenta illudendo e ipnotizzando i buoni stolti con la promessa di togliere dal mondo la malvagita' togliendo chi la incarna. E sempre il risultato e' che chi fa la guerra diventa malvagio. Se siamo noi a voler togliere di mezzo uno o piu' malvagi, alla fine i malvagi saranno molti: noi” (Contro la vittoria, riprodotta anche “Donna, vita, liberta' ”n. 460 del 4.4.2024).

- Non pensa che la confederazione di Stati in grado di assicurare la pace perpetua sia dietro l’angolo della storia: è un’utopia, ma va tenuta presente come un ideale verso cui tendere gradualmente passo dopo passo.

 

 

 

Le obiezioni di Hegel a Kant

 

Se per Kant la guerra (intesa come conflitto bellico armato) è un male e va eliminato dalla storia, per Hegel non è né possibile né auspicabile che ciò avvenga. Il celebre frammento di Eraclito “Guerra è la madre di tutte le cose” non esprime solo un dato di fatto, ma anche un principio di diritto.

 

L’unico protagonista della storia è lo Spirito assoluto immanente

·      Per capire questa tesi in sé forse ripugnante (e comunque comprendere non implica necessariamente condividere)  bisogna inserirla nel sistema complessivo del filosofo tedesco per il quale “la verità è l’intero”, non il dettaglio particolare.

·      Kant parla ancora dal punto di vista di noi esseri umani, Hegel ritiene di essere il portavoce della Totalità (che chiama anche Dio o Spirito o Assoluto o Ragione o Idea). La storia del nostro pianeta è la storia della graduale auto-realizzazione (e conseguente auto-manifestazione) di questo Spirito assoluto che si affaccia con le prime forme di vita biologica, poi diventa soggettività psicologica, poi coscienza collettiva: è solo a questo stadio – quando l’io diventa noi – che si può iniziare a parlare propriamente di Spirito.

·      Prima di splendere in tutto il suo fulgore nell’arte, nelle mitologie religiose e nelle costruzioni filosofiche, lo Spirito di rende visibile e tangibile nelle istituzioni storiche principali: la famiglia, la società civile, lo Stato. Lo Stato appare cronologicamente dopo le famiglie e le società, ma è il fondamento che, per così dire retroattivamente,  dà senso a tali aggregati ed evita che la guerra di tutti contro tutti tra gli individui (all’interno della famiglia) e tra le famiglie (all’interno della società) distrugga l’umanità. Lo Stato è dunque l’istanza suprema (Stato “etico”) che Hegel non esita a definire “l’ingresso di Dio nel mondo” (la piena incarnazione del divino).

 

La storia è il “tribunale” che, grazie alle guerre, rivela di volta in volta lo Stato più divino

 

·      Tutto scorrerebbe liscio se l’umanità fosse radunata e animata da un unico Stato. Di fatto però ce ne sono molti e ognuno rivendica – legittimamente – la prerogativa di essere un principio assoluto. Questa concorrenza assume i tratti del conflitto bellico e ciò viene considerato da Hegel – a differenza di Kant che ne vedeva anche gli aspetti deleteri – un fenomeno solo positivo: “Come il movimento dei venti preserva il mare dalla putredine cui sarebbe ridotto da una bonaccia duratura, così la guerra preserva i popoli dalla putredine cui sarebbero ridotti da una pace duratura o addirittura perpetua”. Più precisamente egli pensa a due effetti della guerra: all’interno di uno Stato,  rafforza l’unità interna fra i cittadini e scoraggia le rivoluzioni. (Va ricordata però l’annotazione di un discepolo: “Quindi, le guerre moderne son fatte umanamente, e la persona non è in atteggiamento di odio, di fronte alla persona. Tutt’al più, sopravvengono ostilità personali agli avamposti: ma, nell’esercito come esercito, l’ostilità è qualcosa di indeterminato, la quale vien meno, di fronte al dovere, che ciascuno rispetta nell’altro”. Inoltre: “In essa è conservata la possibilità della pace, e, quindi, per esempio, sono rispettati gli ambasciatori, e, per cui, più in generale, essa non è fatta contro le istituzioni interne e la vita pacifica di famiglia privata, né contro le persone private”).

·       Come risolvere dunque i conflitti fra uno Stato e l’altro? Kant aveva ipotizzato che una confederazione di Stati potesse svolgere in qualche modo il ruolo di arbitro nelle contese internazionali, ma per Hegel sopra ogni Stato (che, in quanto divino, è già il massimo di attuazione possibile di verità e giustizia) non si può ammettere nessuna autorità. Non resta che un tribunale a poter decidere quale Stato, in una fase storica, incarni il divino più pienamente di un altro in conflitto: la storia. Essa emette le sue sentenze: le guerre. Chi vince, per il fatto che vince, dimostrerà di essere lo strumento privilegiato della Ragione. Esattamente il contrario di quanto sosteneva quel filone della saggezza ‘classica’ europea a cui Erasmo da Rotterdam ha prestato voce: “Marte è un dio sciocco e balordo, non meno cieco di Pluto o di Cupido, sempre o quasi sempre pronto ad abbracciare la peggiore delle parti in causa”.



[1] In esordio si concede un po’ di ironia: accenna al significato cimiteriale del titolo e si augura che il potere politico - fedele alla linea tradizionale di snobbare i discorsi dei filosofi – eviti la briga di censurare il saggio.

 

[2] “In sintesi, in questo primo articolo Kant definisce la repubblica in base a tre fattori qualificanti: il suddito è cittadino (…), la rappresentanza della sovranità e la divisione dei poteri” (M.Pancaldi, Nota a Pp, 59 – 60).

 

mercoledì 21 agosto 2024

ERASMO DA ROTTERDAM: LA GUERRA E' GRADEVOLE SOLO PER CHI NON L'HA MAI PROVATA!

 

 Appunti per la prima relazione di Augusto Cavadi su Erasmo da Rotterdam

(Vallombrosa, mercoledì 21.8.2024)                                                    

Erasmo (1466 – 1536) è nato a Rotterdam in Olanda ed è morto a Basilea. Visse dunque in un momento storico tra i più bellicosi della storia occidentale: il capitalismo agrario abolisce i campi “aperti” e gli usi civici dei contadini scatenandone le insurrezioni; la cristianità si spacca in due blocchi ferocemente contrapposti (Chiesa cattolica romana e Chiese protestati riformate); perfino fra sovrani della stessa confessione religiosa (cattolica) come il re Francesco I e l’imperatore Carlo V si combatte ricorrendo ad armi inedite quali i cannoni (che Ludovico Ariosto, nell’Orlando furioso del 1516, chiama “machina infernal”)[1]; come se ciò non bastasse, navi dotate di cannoni vengono schierate contro l’impero turco e spedite ai quattro angoli del pianeta per colonizzare e schiavizzare le popolazioni più indifese.

In questo contesto manicomiale Erasmo prova ad opporre la voce della saggezza più antica che, per lui umanista, è un intreccio inseparabile di saggezza filosofica greca e di saggezza teologica evangelica. A soli venti anni (in un convento dove è costretto a vivere per sopravvivere alla morte precoce del padre e della madre) pubblica la sua prima opera, Il disprezzo del mondo, in cui

“accanto alle settanta citazioni dai classici – Virgilio, Orazio, Ovidio, Terenzio, Lucano, in particolare Giovenale – ce ne sono solo cinque dalla Bibbia. E il tutto fa più appello alla ragione umana che alla fede ecclesiastica. (…) Difende deliberatamente l’epicureismo – tota vitae nostrae ratio epicurea est – e definisce Gesù il suo “amico più importante”, per citarlo allo stesso modo con cui cita Virgilio o Cicerone”[2].

Ed è in questa prospettiva che potremmo definire di spiritualità “laica” che in uno dei suoi primi trattati, Orazione sulla pace e la discordia contro i faziosi, inveisce contro la stoltezza dei contemporanei:

“Oh, irragionevole ragione degli uomini che pur potendo vivere ininterrottamente felici, a causa della loro ambizione, si mettono in testa una continua infelicità! E ciò mentre dall’honestas scaturisce la vera voluptas, che rende già possibile un’esistenza armoniosa sulla terra”[3].

Ovviamente viene guardato con sospetto dai protestanti perché resta cattolico, dai cattolici perché riconosce molte ragioni dei protestanti e dai cattolici e dai protestanti insieme perché troppo umanista, troppo ‘laico’[4].

Della sua notevole opera ritagliamo qui solo un percorso specifico: la sua “scienza della pace” (per usare una espressione di Bart de Ligt che, nell’intervallo fra la Prima e la Seconda guerra mondiale, ha dedicato ad Erasmo nel 1936 il volume tradotto in italiano con il titolo Erasmo nonviolento. La voce dell’Umanesimo in un’Europa dilaniata dalle guerre).

 

Diagnosi

Vediamo, innanzitutto, la fotografia  - o la diagnosi – della follia che è la guerra per Erasmo. Essa non è un male come gli altri, ma una sorta di culmine/sigillo che enfatizza sino al parossismo la condizione antropologica di base:

“Quanto fugace, breve e fragile è la vita umana, a quali malanni è esposta, dal momento che tante malattie ed eventi accidentali le stanno addosso – rovine, naufragi, terremoti, fulmini? Che bisogno c’è, dunque, di andare in cerca anche dei malanni della guerra, i quali, per altro, sono i più disgraziati di tutti? ”[5] ( p. 65).

Infatti:

“Gli occhi bruciano, i volti sbiancano, l’andatura si fa frenetica, la voce diventa un ruggito, un urlo malsano; l’uomo è tutto di ferro, le armi cozzano, i cannoni esplodono…frecce intinte di veleno e macchine infernali stanno rendendo la guerra ancora più spietata. Non c’è più nessun vestigio di umanità”

scrive in un saggio del 1500 il cui titolo è già da solo eloquentissimo: Dulce bellum inexpertis (Dolce la guerra solo a chi non l’ha mai sperimentata) [6]. E in un altro scritto aggiunge:

“Ovunque nei campi si bruciano le messi…si danno alle fiamme tutti i casolari…le figlie violentate, le spose rapite…Il diritto è sepolto, le leggi sprofondate, la libertà sommersa, tutto è sottosopra”[7].

Come i danni materiali non fossero abbastanza, la guerra ne provoca di morali:

"Le guerre, forse, si potrebbero sopportare, se ci rendessero solo disgraziati, e non anche malvagi e perfidi, e se la pace ci facesse solo piu' felici, e non anche migliori. Empio, percio', e' chiunque provoca la guerra". Tutti i mali naturali che possono capitarci, e che non possiamo evitare, ci rendono solo disgraziati, ma non malvagi. La guerra e' il male piu' atroce e pernicioso, che da solo tutti li comprende e li supera” [8].

Ciò che stupisce Erasmo è un dato sociologico che rende ancora più disastroso il ricorso alla guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti: l’assuefazione ad essa da parte dell’umanità, anche colta. Scrive ad esempio:

“al giorno d’oggi la guerra è un fenomeno così largamente recepito, che chi la mette in discussione passa per stravagante e suscita la meraviglia: la guerra è circondata di tanta considerazione, che chi la condanna passa per irreligioso; sfiora l’eresia; come se non si trattasse dell’iniziativa più scellerata e al tempo stesso più calamitosa che ci sia”[9].

L’assuefazione alla logica bellica provoca uno sconvolgimento degli stessi criteri di giudizio morale:

Chi ruba una veste e' un infame, chi depreda tanti innocenti in guerra e' annoverato fra i cittadini dabbene”[10].

Né basta a dissuadere dalle guerre la constatazione universale che esse sono deleterie sia nel corso del tempo in cui si svolgono sia per un lungo tratto di tempo successivo:

“E non dimenticare i misfatti commessi con la scusa della guerra, quando le buone leggi sono messe a tacere dalle armi: le rapine, i sacrilegi, i ratti, e tutte le altre infamie, che si ha ritegno perfino a nominare. Ed è inevitabile che tale corruzione duri molti anni, anche quando la guerra è finita. Se poi fai il conto delle spese, vedrai che, anche se vinci, il danno è molto maggiore del guadagno. D’altra parte quale regno vale la vita e il sangue di tante migliaia di uomini?”[11]

 

Preventivare ricavi e perdite è secondo Erasmo un calcolo ragionevole ineludibile:

“Che più folle dell’attaccar briga per una ragione qualsiasi, quando da ultimo entrambe le parti finiscono sempre per averne più danni che vantaggi? In quanto a coloro che muoiono, di loro nessuno si cura” (Elogio, p. 53).

 

Proprio un calcolo razionale di vantaggi e svantaggi potrebbe portare a sostenere (riprendendo un pensiero di Cicerone) che:

“Qualsiasi pace ingiusta è quasi sempre preferibile alla più giusta di tutte le guerre. Valuta prima attentamente cosa richiede o comporta una guerra, e vedrai quale guadagno”[12].

Tutte le considerazioni sinora svolte da Erasmo hanno un valore universale, ma egli ne aggiunge spesso altre rivolte più specificamente ai cristiani, soprattutto ai papi e ai vescovi. Di san Pietro

“il Vangelo riporta la frase: «Abbiamo lasciato ogni cosa per seguire Te»; tuttavia i Santi Padri considerano come facenti parte del loro patrimonio campi, castelli, tributi, diritti doganali, giurisdizioni. Combattendo accesi dallo zelo di Cristo solo per questi beni e col ferro e col fuoco, non senza grande spreco di sangue cristiano, «sconfitti valorosamente i nemici», come proclamano, credono di aver difeso con vera fede apostolica la sposa di Cristo. Come se la Chiesa potesse avere nemici peggiori degli empi pontefici, che lasciano dileguare Cristo dall’animo degli uomini…” (Elogio, pp. 122 – 123).

Per coglierne meglio le ragioni di queste denunzie esplicite, pur dalla bocca di un cattolico, va ricordato che, quando il monaco nomade olandese  finalmente aveva coronato il sogno di visitare l’Italia in quanto culla delle arti e delle lettere, vi arriva mentre

“Papa Giulio II conduce nel modo più pagano una guerra orientata a dominium et potestas, come un novello Giulio Cesare. Erasmo partecipa amareggiato a Bologna al trionfale ingresso notturno del grande papa-soldato: torce accese, processioni di bambini esultanti, guerrieri, muli, cavalli, trombe, armi, vescovi e cardinali vestiti pomposamente e infine il papa, come un dio pagano, su una magnifica portantina, inneggiato da un popolo impazzito a cui vengono gettate monete d’oro luccicanti dalla lunghissima processione – cosa c’entra tutto questo con la simplicitas et paupertas nelle quali il vicario di Cristo dovrebbe eccellere? Cristo stesso fu illuminato da torce solo quando, con un Pietro disarmato, si preparò a morire in modo non violento per i suoi…” (p. 277).

 

 

Terapia

Cosa fare, allora, se si vuol passare dalla diagnosi alla terapia?

     a) Innanzitutto non assuefarsi all’intollerabile, non perdere la capacità di scandalizzarsi e di indignarsi, non banalizzare i mali come fossero elementi ineliminabili del paesaggio umano:

 

“Ci siamo  tal punto abituati alle guerre, al brigantaggio, ai tumulti civili, alle faziosità, ai saccheggi, alle pestilenze, alle carestie, alla fame che quasi non consideriamo più tutte queste cose come dei mali”[13].

A questa assuefazione contribuisce una ricezione letteralista – diciamo pure fondamentalista -  della Bibbia, da cui dobbiamo prendere le distanze:

Dicono: se la guerra non fosse lecita, Dio non avrebbe mandato gli ebrei contro i nemici. (…)  Se ci piace tanto l'esempio degli ebrei, perche' non ci tagliamo anche il prepuzio, non immoliamo vittime, e non prendiamo parecchie mogli? (…) Ma Cristo ordino' di riporre la spada: ai cristiani e' lecita solo la guerra bellissima contro la cupidigia, l'ira, l'ambizione, la paura della morte, i veri nemici della chiesa. «Solo questa e' la guerra che genera la vera pace»”[14] .

Se di patologie si tratta, quando consideriamo la guerra e il suo contorno di guai, dobbiamo imitare i medici bravi che

“per prima cosa indagano con precisione le cause del male, e quando le hanno scoperte, trovano il rimedio senza troppi indugi. Se non sono contenti del risultato, cercano altri mezzi per impedire la ricomparsa immediata del flagello. Perché, quando si tratta di mali così gravi e così frequentemente ripetuti come la guerra, gli uomini saggi ed esperti non studiano attentamente le ragioni per cui tali terribili morbi riappaiono bruscamente nel mondo, affinché si possano tagliare le radici e rimediare a mali così terribili? Perché noi siamo così attenti in affari meno importanti e siamo colpiti di cecità davanti a un problema tanto più grave?” [15]

b   b) Intervenire sulla violenza sin dalle sue radici, rintracciabili nella tradizione della caccia degli animali, per lo più inermi. E’ una consapevolezza che circola all’epoca di Erasmo:

 

“ <<Dalla vera nobiltà – dichiara Poggio (Bracciolini) nel De Nobilitate -  si è tanto più lontani quanto più a lungo i propri antenati sono stati dei criminali>>. La passione per la caccia, che caratterizza la classe cavalleresca, è quindi solo una prova della sua povertà morale, della sua mancanza di civiltà interiore. La nuova nobilitas non si distingue per grossolana attitudine bellicosa e crudele violenza, ma per una qual certa più nobile virtus, cioè virtù: studium humanitatis >> “[16].

Li   c) Liberare le nuove generazioni dalle tradizioni storiche perverse è compito precipuo dell’educazione che deve basarsi su una visione realistica dell’ambivalenza costitutiva dell’essere umano:


“L’uomo è predisposto ad un’effettiva ragionevolezza, ratio, in forza del suo ingenium o intellectus; tuttavia , tende fin dalla nascita piuttosto alla stultitia , all’immoralità e alla follia, che praticamente          si manifesta con ogni genere di ‘barbarie’ – ignoranza, immoralità, superstizione, crudeltà, ingiustizia, oppressione, guerra, ecc. – Il mero sviluppo intellettuale non può quindi essere d’aiuto perché, in caso di cattiva inclinazione, viene utilizzato in modo improprio. L’educazione quindi è un’eruditio orientata a saggezza, sapientia la quale, quando arriva a comprendere se stessa, diventa philosophia[17].

 

      d) La consapevolezza dell’ambivalenza dell’essere umano deve indurre genitori e insegnanti, prima di ogni altra mossa, all’autocritica e all’autoformazione:

 

“Ogni educatore deve in primo luogo educare se stesso: tali genitori, tali figli! Ci sono perfino interi popoli che, quando i giovani hanno ancora la bocca sporca di latte, li addestrano alla guerra, insegnano loro ad avere uno sguardo minaccioso, a brandire la spada e infliggere ferite ai loro vicini”[18] .

 

     e)  La prima palestra dell’avviamento alla violenza come postura abituale è la violenza contro gli animali:

 

“Tra questo genere di folli sono da contarsi anche coloro che nutrono un profondo disprezzo per tutto ciò che non abbia a che fare con la caccia, ed affermano d’essere al settimo cielo non appena odono uno sgradevole suono di corno o l’abbaiare dei cani. Penso che quando sentono l’odore di escrementi canini, sono convinti di odorare della cannella. Più tardi, quale piacere squartare la preda! (…) E sebbene questi cacciatori, col continuare per tutta la loro vita a squartare e mangiar animali non ottengano altro risultato se non di imbestialire anch’essi, pure sono convinti di condurre una vita da principi” (Elogio, pp. 77 – 78).

 

f)         f) Un secondo gradino è costituito dalla violenza sui minori, dalla primissima infanzia all’adolescenza. E solo degli educatori ri-educatisi possono spezzare la catena di quella che nel XX secolo sarà denominata “pedagogia nera”. Infatti, ai tempi di Erasmus, gli allievi venivano trattati molto aspramente in collegi dove si viveva in condizioni igieniche disastrose, con poco cibo e molte correzioni fisiche: egli per primo l’aveva sperimentato sulla propria pelle.

 

g    g)  (Un terzo spazio in cui esercitare l’attitudine violenta è costituito dalle relazioni di genere, prevalentemente dei maschi sulle femmine: ma il monaco rinascimentale Erasmo non pare accorgersene).

 

 

Per quanto fondamentale, la pedagogia non è sufficiente: va integrata con un’impostazione politica adeguata.

        a) Nel celebre, e già citato, saggio magistrale Dulce Bellum Inexpertis egli sottolinea la necessità per la pace di un controllo dei governanti da parte dei governati. Non lo fa in termini di democrazia moderna, ma utilizzando le categorie dell’epoca parla del diritto dei sudditi di ribellarsi ai principi guerrafondai:

 

“Coloro che hanno il potere vogliono semplicemente sempre più potere, sebbene non abbiano alcun diritto al dominio, ma sono solo obbligati ad administratio. Inoltre, nessun principe dovrebbe disporre di uomini, liberi per natura, come bestie: <Il diritto che tu, principe, possiedi ti è stato dato per volontà del popolo. Ritengo che chi l’abbia dato possa anche riprenderselo, se non viene esercitato nel suo interesse>”[19].

b    b) In un’epistola a Leone X, in cui dissente dalla volontà di questo papa di muovere guerra ai Turchi (che invece andrebbero convertiti con le parole e gli esempi[20]) arriva ad estendere il diritto/dovere di disobbedienza civile anche nei confronti delle autorità ecclesiastiche:

 

“deve essere riconosciuto pubblicamente che un papa guerriero non merita nessuna obbedienza”[21].

 

c)       I vertici ecclesiastici non vanno obbediti non solo quando, come Giulio II, si mettono fisicamente a capo di eserciti, ma anche quando legittimano la “guerra giusta”:

 

“ E’ veramente possibile una guerra giusta? Anche quella più giusta è condotta nella maniera più ingiusta. Le leggi papali possono anche non condannare tutte le guerre, Agostino può pur approvarne alcune e san Bernardo lodare i soldati, ma Cristo, Paolo e Pietro insegnano ovunque il contrario e la loro autorità non supera forse quella degli altri?”[22]

Il potere dei cittadini di condizionare le scelte dei politici si potrebbe concretizzare, secondo Erasmo, costringendoli (o per lo meno inducendoli) ad assumere alcune linee programmatiche.

d   a)  Una prima indicazione è lo smantellamento degli eserciti stabili:

 

“Gli eserciti permanenti non servono a nulla: meno soldati ci sono, meglio è!”[23]

 

e     b) Una seconda indicazione è di sostituire, come mezzo di risoluzione dei conflitti, la guerra  con una sorta di “arbitrato internazionale”[24]:

 

“Quando sorgono conflitti sottoporre le controversie in questione a dei seri eruditi ecclesiastici e a uomini, divenuti saggi per esperienza, per farle giudicare da loro, piuttosto che procedere a una guerra così rischiosa”[25] .

 

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

[1] “Carlo V e Francesco I vogliono divorarsi l’un l’altro…O Dio immortale, perché il papa non impedisce ai suoi figli di tagliarsi il collo a vicenda?” (Erasmo cit. in B. Ligt, Erasmo nonviolento. La voce dell’Umanesimo in un’Europa dilaniata dalle guerre, a cura di R. Altieri, Centro Gandhi Edizioni, Pisa 2023, p.312.

[2] B. Ligt, Erasmo nonviolento, cit., p.215.

[3] Erasmo, Orazione sulla pace e la discordia contro i faziosi, cit. in B. Ligt, Erasmo nonviolento, cit., p. 215.

[4] Lutero, ancor più dei cattolici, ha ripetutamente condannato l’ottica umanistica di Erasmo: “Le cose umane sono per lui più delle divine”; “Erasmo i cui scritti portano alla distruzione di ogni religione”, “Schiacciare Erasmo è mettere il dito su una cimice che puzza ancor più da morta che da viva” (cit. in B. Ligt, Erasmo nonviolento, cit., p.316).

[5] Erasmo, La formazione del principe cristiano, cit. in R. Altieri, Erasmo per curare la follia della guerra, saggio introduttivo a B. Ligt, Erasmo nonviolento, cit. p. 65.

[6] Erasmo, Dolce la guerra solo a chi non l’ha mai sperimentata, cit. in R. Altieri, Erasmo, cit. p. 50.

[7] Erasmo, Orazione sulla pace e la discordia, cit. in R. Altieri, Erasmo, cit. p. 24.

[8] E. Peyretti, Erasmo, Umanesimo e cristianesimo della pace. Sintesi del saggio di Erasmo “Dulce bellum inexpertis” (La guerra piace a chi non la conosce) (1515) in
"Tempi di fraternità'", n. 6, giugno-luglio 2018 (la citazione tra virgolette è da Erasmo, La guerra piace a chi non la conosce).

[9] Erasmo, Dolce la guerra, cit. in R. Altieri, Erasmo, cit., p. 51.

[10] E. Peyretti, Erasmo, cit.

[11] Erasmo, Lettera ad Antonio di Bergen, cit. in R. Altieri, Erasmo, cit. , p.14.

[12] Erasmo, Lamento della pace, cit. in R. Altieri, Erasmo, cit., p. 58.

[13] Erasmo, Sull’opportunità di muovere guerra ai Turchi, cit. in R. Altieri, Erasmo, cit., p. 62.

[14] E. Peyretti, Erasmo, cit. (la citazione tra virgolette è da Erasmo, La guerra piace a chi non la conosce).

[15] Erasmo, Lettera a Francois Ier, cit. in R. Altieri, Erasmo, cit. , pp.43 - 44.

[16] B. de Ligt, Erasmo nonviolento, cit., pp. 104 – 105.

[17] B. de Ligt, Erasmo nonviolento, cit.,p. 252.

[18] Ivi.

[19] Erasmo, Dolce la guerra, cit. in B. Ligt, Erasmo nonviolento, cit. p. 289. Su questo tema Erasmo ritorna più volte, ad esempio nel suo Querela Pacis. Sintetizza così B. de Ligt, Erasmo nonviolento, cit., pp. 303 – 304: “Egli si chiede apertamente per quanto tempo ancora i popoli si lasceranno maltrattare dai principi; afferma che una guerra dovrebbe al massimo essere condotta con il consenso dell’intera nazione interessata; riconosce che i cittadini abbiano il diritto di rendere impossibili tutte le guerre ingiuste e che possano farlo immediatamente, cosicché la stragrande maggioranza del popolo possa consapevolmente unirsi contro la tirannia di pochi: la decisione unanime di un popolo dovrebbe frenare un principe malvagio nelle sue passioni, poiché il bene comune oltrepassa quello particolare”.

[20] “Voler combattere i turchi con le armi significa combattere contro i turchi come i turchi stessi. Non è facendo il  male ai turchi ma facendo loro il bene che potremo conquistarli a Cristo” (Erasmo, Dolce la guerra, cit. in B. Ligt, Erasmo nonviolento, cit. pp. 289 – 290).

[21] E’ l’Epistola 335 di cui si trova una sintesi in B. de Ligt, Erasmo nonviolento, cit.,p. 309.

[22] L’idea è espressa da Erasmo nel suo Institutio Principis christiani (che è quasi l’antitesi del contemporaneo Il Principe di Machiavelli): ): cfr. B. de Ligt, Erasmo nonviolento, cit.,pp. 300- 301.

[23] Ivi.,p. 300.

[24]  B. de Ligt, Erasmo nonviolento, cit.,p. 289 (in nota a pié di pagina).

[25]  Ivi, p. 289.