Nell’epoca della spettacolarizzazione miliardi di persone vivono e muoiono nell’ombra. Tra queste, molte in effetti non meritano di essere ricordate: passano sulla Terra concentrate solo a cavarsela, senza farsi scrupoli se qualche volta – o sempre – ciò significa fregare altre persone meno furbe o meno prepotenti. Molte, invece, trascorrono un’esistenza armoniosa, significativa in sé e fruttifera per altri, ma – proprio perché sono in pace con se stesse – non hanno nessun desiderio di apparire: amano il riserbo abituale e accettano di esporsi solo quando – e quanto – necessario per tessere relazioni solidali in vista di progetti comuni.
In questi giorni una di queste persone,
Germano Federici, botanico attivo nella provincia di Bergamo, all’età di 74
anni ha concluso la sua avventura terrena. La stampa locale lo ha ricordato
soprattutto come apprezzato docente di scienze naturali nei licei; promotore
dell’associazione ecologista FAB (Flora alpina bergamasca) con cui ha
predisposto un database di piante con circa un milione di dati; coautore di
un’opera impegnativa sulla Flora vascolare della Lombardia nord-orientale.
In questa sede vorrei evocare un aspetto più privato, ma non meno illuminante:
è stato un cercatore sincero di verità anche oltre i confini dell’orizzonte
scientifico professionale. Quando, alcuni anni fa, si è auto-presentato a un
gruppo di noi che ci eravamo collegati via internet per confrontarci su quale
“Inedito cammino” potessimo percorrere dopo il tramonto del cristianesimo
dogmatico tradizionale, ha scritto tra l’altro delle righe che trascendono, a
mio avviso, l’ambito della biografia individuale: «Nato nel 1950, ultimo di 9
figli, orfano di padre a 9 mesi, famiglia poverissima e cattolicissima.
Chierichetto già a 5 anni, mi alzo anche in inverno molto presto perché la
messa si celebra prima che il sole spunti. (…) Il destino è segnato, mi farò prete. Solo che
....
Solo che Bernardo, l’anarchico ateo (?)
del paese, indicato come quasi la personificazione del demonio, ma che, quando
incontrava noi bambini in piazza, sempre
- e solo lui - ci regalava una carezza e un sorriso, muore e al suo
funerale non dovrà andarci nessuno, pena l’inferno, si dice. Durante la
cerimonia scappo da casa e corro in piazza in tempo per vedere il mesto corteo
di 5 persone che, al suono mesto di uno strumento, accompagnano Bernardo al
cimitero.
Solo che un sabato notte d’estate un
violento temporale distrugge il vigneto lavorato dal mezzadro Giulio, la cui
famiglia mi ha ospitato alcuni mesi durante l’agonia di mio padre. Gli voglio
bene, lo vorrei consolare, lo aspetto alla messa domenicale. Giulio è al mio
fianco e quando il parroco urla che la grandine l’ha mandata il Signore per
punire i presenti per i peccati, lo sento imprecare, la schiena piegata sul
banco, come neppure la fatica della zappa avrebbe potuto.
Solo che in collegio per la 4° e 5°
elementare, subisco come altri bimbi i palpeggiamenti notturni del chierico che
funge da assistente. Lo denuncio al direttore, un austero prete ottocentesco.
Gli abusi cessano, ma il chierico diventa sacerdote e negli anni seguenti
combinerà non pochi guai nella sua parrocchia.
Nonostante tutto entro in seminario in
prima media. Non mi pesano le pratiche di pietà, amo lo studio. Qui incontro
don Mario, segnato dall’esperienza vissuta con i suoi giovani in miniera nella
val di Scalve. Li incoraggia a scioperare negli anni Cinquanta. “Prete
comunista!”: è l’accusa del giornale locale di proprietà vescovile. E’ mio
professore di latino, greco e matematica, ma interrompe spesso le lezioni per
raccontarci delle sue esperienze pastorali: “Se prima non sarete uomini, non
potrete essere buoni preti”. “Vorrei che foste un pochino meno buoni e un
pochino più intelligenti!”, citando un vescovo precedente che pensava moderno,
prima del Concilio!
A sedici anni esco dal seminario, certo
che non è la mia strada. Mia madre soffre. E soffro anch’io perché non riesco a
guardare in faccia una ragazza, tanti sono i problemi accumulatesi per una
mancata educazione ai sentimenti e alla diversità sessuale. Liceo classico e
poi laurea in biologia, perché la scuola tradizionale con una cultura
(pseudo)classica mi ha profondamente deluso.
Cerco aria fresca e la trovo nella scienza.
Lavoro e studio insieme, vita in oratorio,
catechesi per molti anni, per poi scoprire la mia totale ignoranza anche del
vangelo. (…) Scuola di teologia per
laici, dove conosco preti formidabili, maestri in teologia fondamentale,
teologia morale, storia della chiesa, esegesi, tanto liberi nella loro ricerca
(“Ho attaccato le palle sulla porta di Betlemme, ma non il cervello” dice durante
un colloquio confidenziale uno di loro) quanto legati a santa romana chiesa.
Mi sposo e sono felice. Reincontro il mio
vecchio prof. del seminario che intanto alla Lateranense si è laureato in
filosofia e sta per dare una tesi di teologia dal titolo Dio sono anche gli
uomini. Seguono tre o quattro anni di dialogo appassionato, mentre gli
batto la tesi. Approfondisco il tema del pedobattesimo e decido assieme a mia
moglie che i figli (…) non verranno battezzati. Da “braccio destro” del curato
divento un paria, circondato dal deserto. Anni di solitudine (prima avevamo
molti amici dell’oratorio spesso a cena), ma anche di una gioia crescente
perché una fede/certezza del soprannaturale pian piano diventava una
fede/speranza nell’umano, quale autentica cifra del divino (“Chi ha fatto
questo al più piccolo dei fratelli, l’avrà fatto a me....”).
Poi l’insegnamento al liceo, la riscoperta
della natura (Deus sive natura spinoziano, con tutto l’irrisolvibile
mistero di dolore che comporta, ma che non può che stare dentro quello di Dio
stesso, se mai un Dio c’è), della teologia di S. Ireneo (“La gloria di Dio è
l’uomo vivente”), di quella fondata sulla Caro cardo salutis di
Tertulliano, del dualismo agostiniano che ancora perdura e fa macelleria umana.
L’insegnamento finisce per prendersi tutto
il tempo e la teologia per trent’anni passa in terzo piano, perché in seconda
posizione devo mettere lo studio della natura bergamasca per quanto riguarda
l’aspetto della botanica. (…) . Le lunghe camminate sulle Orobie (…) alla
ricerca di piante mi portano continuamente al mistero, insieme teologico e
scientifico, della natura e a celebrare, pedibus calcantibus, quella
sola “religione naturale” che è la vita di tutti i giorni.
Con don Mario ci si chiedeva
continuamente: “Qual è il denominatore comune che sottende tutti gli uomini, di
ogni credo e razza, su cui costruire la teologia, una volta morta ogni
religione?”. La risposta è in Mt. 25, 31-46: “Avevo fame e mi avete dato da
mangiare ecc. ecc.”. Da qui occorre partire, nonostante, o proprio per, i tempi
duri segnati da un’economia di rapina su scala globale».
Chi volesse saperne un po’ di più su
questa persona straordinariamente normale può consultare gratuitamente on line il
quaderno dedicatogli da alcuni amici:
https://online.fliphtml5.com/wbbka/zcmo/
Augusto Cavadi
* Per la versione originale su "Adista" del 28.7.2024 clicca qui:
https://www.adista.it/articolo/72315
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