12.6.2024
CAMBIARE IL MONDO NEL CREPUSCOLO DELLA POLITICA?
Il volume Ancora. Cambiare il mondo nel tramonto
della politica (Navarra, Palermo 2022)
di Annibale Raineri ricorda quelle imprese ardite in cui un attore intrattiene
da solo per due ore il pubblico attraversando i più diversi generi artistici,
dal monologo al canto, dal suono di uno strumento musicale al dialogo
improvvisato con gli spettatori. Infatti abbiamo pagine liriche, racconti
autobiografici, saggi di politologia, commenti a lunghe citazioni da ‘classici’
e altro ancora: un insolito patchwork che, nonostante i rischi del caso,
risulta gradevolmente efficace. A me personalmente ha suscitato un
contrastante sentimento di prossimità e di distanza[1].
Di prossimità, certo.
L’autore è un mio coetaneo: abbiamo dunque vissuto il
Sessantotto; abbiamo creduto
sinceramente nella necessità di cambiare il mondo; su tale obiettivo abbiamo
investito il meglio delle nostre energie fisiche, morali e intellettuali (sia
pure in campi culturali e operativi differenti); entrambi abbiamo rivisto
profondamente molti elementi costitutivi delle nostre rispettive visioni-del-mondo;
tuttora, nell’ora del tramonto biografico, proviamo a non arrenderci alla
rassegnazione dominante. Più precisamente, Raineri ha aderito al
marxismo-leninismo dal punto di vista teorico e ha militato, sul versante
operativo, nel sindacato (l’area di sinistra della CGIL) prima e nel Partito
della Rifondazione Comunista dopo. Varie considerazioni, scaturite dal vivo
dell’esperienza biografica, lo hanno indotto a superare questa lunga militanza:
“superare” nel senso hegeliano, direi, del passare a nuovi livelli prospettici
non avendo azzerato le acquisizioni precedenti, ma solo grazie al doppio
movimento di negarle in parte e di conservarne – trasfigurandoli – alcuni
elementi rilevanti. E dove è arrivato, almeno adesso, grazie a questo processo
dinamico di toglimento/conservazione/trascendimento? Ad un posizionamento che,
nel mio vocabolario, definirei di “spiritualità laica”.
Nel suo caso, questo modo di intendere e praticare la
spiritualità fuori dai tradizionali alvei religiosi e confessionali ha anche un
“luogo” identificato: il movimento dell’Arca
“fondato in Francia nella metà del secolo scorso da
Lanza del Vasto, il cui centro è costituito dalle esperienze di vita
comunitaria che da allora continuano a vivere. Nell’Arca non ho visto né un
modello da proporre né una filosofia da abbracciare, ma uno dei tanti tentativi
esistenti di costruzione di forme di vita con le quali attraversare il lungo ma
inesorabile declino di una civiltà, declino di cui il tramonto della politica è
solo una espressione” (p. 13).
Alcuni tra i tasselli costitutivi di questa
“spiritualità laica” mi risuonano particolarmente convincenti e familiari:
a) la
convinzione che la vita propriamente umana è un percorso non predeterminato, ma
da configurare creativamente: “aperto allo spazio-tempo della Terra come
intero, ognuno di noi sperimenta così quella che è la caratteristica
fondamentale degli esseri umani, che li differenzia da tutte le altre specie
animali: in assenza di un ambiente elettivo e di organi specializzati per esso,
per gli esseri umani la vita è un compito” (p. 60);
b) non
è in un ambiente vuoto che si progetta la propria esistenza, ma a partire da
una epoca determinata e da un’area geografica determinata. Dunque, nel nostro
caso, il compito si configura, innanzitutto e radicalmente, come “un
rivolgimento di quello che è stato il lungo processo di
occidentalizzazione/modernizzazione del mondo” o, in altri termini, come un processo
“rivoluzionario nel senso del rivoltamento” o di “conversione” (nel senso di
“capovolgere il verso” (p. 176);
c) tra
i primi frutti di questa inversione di rotta culturale ed etico-politica la
coscienza ecologica (“la vita, divenuta problematica in se stessa perché
minacciata radicalmente, si impone come oggetto di riflessione per l’essere
umano”) e l’evidenza della appartenenza alla medesima specie (“il livello di
interdipendenza globale e l’estremo moltiplicarsi dei processi migratori
pongono sotto gli occhi di qualsiasi essere umano la comune umanità, l’esser
comune che fa di ogni essere umano un uomo o una donna”) (pp. 59 – 60);
d) un’altra
caratteristica sociale da capovolgere è il modello maschile dell’ “Io-Noi che
si costituisce e si rinforza nell’opposizione all’Altro, l’estraneo, il
(potenziale) nemico”: modello da tradurre, sul solco delle “esperienze
femminili della maternità e della cura”, come “comunità della differenza” nella
quale “l’altro non è contrapposto né assimilato all’Io-Noi, ma è messo dentro
la relazione con sé mantenendo la sua differenza irriducibile” (p. 254);
e) la
“consapevolezza” che “la peste che è tra noi attenga a qualcosa di più profondo
che non la sfera pubblica della politica, che quindi la salvezza richieda un
atto di rinascita, un nuovo inizio più di base, dal quale solo successivamente
far rinascere forme politiche di azione collettiva e configurazioni
istituzionali corrispondenti” (p. 55);
f) “la
nonviolenza anzitutto come coerenza tra i valori dichiarati e gli stili di
vita, orientando questi ultimi verso una sempre maggiore condivisione che
prevede, ove possibile e scelta, la vita comunitaria” (pp. 53 – 54);
g) l’esperienza
di “un sentire senza il quale non vi può essere vita umana: il sentire
gratitudine. Non verso questa o quello, ma gratitudine come sentimento basico
dell’essere al mondo, come sentimento che fonda, in forze del suo rimandare ad
una originaria relazione asimmetrica, la fiducia verso l’altro, la possibilità
di accedere interiormente ad una postura empatica in direzione dell’altro” (p.
202);
h) il
rispetto del “potere sovrano” e delle “leggi” da esso emanate per “proteggere
l’ordine (kòsmos) della terra” -
in una parola il principio legalità – va vissuto come istanza penultima (e in
un certo senso provvisoria) perché va costantemente giudicato, come testimonia
l’Antigone di Sofocle, sulla base di “quel fondale da cui, da sempre, le donne
e gli uomini hanno attinto per nutrire la loro vita e la loro vita (in) comune,
fondale che precede ogni ordinamento delle leggi ed ogni sistema dei diritti”
(pp. 200 – 201);
i) il
distacco dai propri beni, materiali e immateriali, al punto da non identificare
il senso della propria vita con l’accoglimento della propria eredità da parte
di figli biologici e/o morali: solo un “tra-dimento”/ “tra-duzione” che “nel
passare dall’uno all’altro lascia i soggetti nella loro piena libertà” consente
che “ciò che passa possa vivere nell’altro luogo e nell’altro tempo” (p. 237).
Insomma dal deserto
avanzante (nel tempo, che è il nostro, della “guerra”, del “capitale” e del
“patriarcato e degli Stati”) (pp. 297 – 309) ci si può salvare se davvero
convinti – al punto da voler realizzare già subito alcuni esperimenti
comunitari – che “altri modi di vivere, di agire, di entrare in relazione sono
possibili, a partire da uno stretto legame tra la vita spirituale, l’etica, il
lavoro e l’azione sociale e politica” (p. 54).
Di distanza, anche.
La sintonia, intellettuale e direi anche affettiva,
con il percorso di Annibale Raineri non esclude ovviamente delle forti
perplessità – talora decisi disaccordi.
Una prima area distonica potrei qualificarla come
“teologica”. Provo a spiegarmi meno confusamente che posso. Tranne rarissime
eccezioni, i miei coetanei che, dagli anni universitari in poi, hanno
abbandonato la pratica cattolica e le letture teologiche, non hanno idea della
rivoluzione copernicana (anzi, delle molteplici rivoluzioni) che in questo
mezzo secolo sono avvenute nel mondo da loro abbandonato. Con il risultato che oggi
si rapportano – vuoi polemicamente vuoi simpateticamente - più con un fantasma che con un vivente:
fuor di metafora, con un impianto dottrinario ed etico sideralmente lontano
dalla proposta cattolica rigettata da giovani. La controprova di questo
mutamento di “paradigma” (nell’accezione di Thomas Kuhn trapiantata da Hans Küng
dalla storia della scienza alla storia della teologia cristiana) è sotto gli
occhi di tutti: appena un prete o una teologa o un papa accennano a condividere
sia pur timidamente il nuovo “paradigma”, nella Chiesa si scatenano le reazioni
più dure degli ortodossi (siano essi cardinali o suore di clausura o bravi
nonni di famiglia). E va sottolineato che, tra un progressista che sostiene di
essere in pacifica continuità con la Tradizione e un conservatore che grida
scandalizzato all’eresia, è molto più lucido e onesto il conservatore: avrà
torto nel non accettare gli sconvolgimenti radicali imposti dalla ricerca
biblica, storica, scientifica, filosofica, ma ha ragione nel considerarli
sconvolgimenti radicali disorientanti.
Il mio amico Annibale non sembra informato di questi
terremoti e, quando parla di teologia, somiglia a quel personaggio televisivo
assai divertente che recitava la parte di uno che, ibernato per alcuni decenni,
una volta risvegliatosi mostrava di ignorare i cambiamenti storici avvenuti. Mi
limito a qualche esempio soltanto.
a) Più
volte Raineri indica Benedetto XVI come “vicario di Cristo” (e sulla rilevanza
di questo titolo fa leva per evidenziare la inaudita gravità delle sue
dimissioni da papa), senza sospettare che oggi un cattolico istruito sa che il
“vescovo di Roma”, se mai è “vicario” di qualcuno, lo è di Pietro (e Benedetto
XVI per primo non si è mai qualificato come “vicario di Cristo”).
b) Il nostro autore, inoltre, per indicare Gesù
di Nazareth usa indifferentemente il titolo messianico “Cristo” e il titolo
dogmatico “Uomo-Dio”, derivante questo secondo da una cristologia
niceno-costantinopolitana che sempre meno viene condivisa dai teologi e che, di
conseguenza, sempre più raramente si ritrova nel linguaggio abituale. Non
sembra sospettare neppure che si possa dirsi legittimamente cristiani (come la
stragrande maggioranza dei cristiani dei primi quattro secoli) ritenendo che
Gesù fosse un “Cristo” (un Inviato) di Dio e non un “Uomo-Dio” (un Dio
incarnato)
c) Ancora
più assente, se possibile, nel discorso di Raineri il dibattito
teologico-filosofico sul “Post-teismo” contemporaneo, con l’effetto (che
sarebbe umoristico se non fosse drammatico) che egli si proclama “ateo” per
motivi del tutto simili ai motivi esposti dai teologi “post-teisti” a favore
delle proprie nuove prospettive: cioè perché non è ragionevole l’ipotesi
tradizionale di un Dio-Padre-Padrone che, da una distanza abissalmente lontana,
si preoccuperebbe di manovrare come pedine gli esserini microscopici brulicanti
su un pianetino microscopico di una microscopica galassia sperduta nell’immenso.
Quando egli scrive che per lui “ateismo” ha “anzitutto e primariamente un
fondamento etico più che teoretico: a -teismo, privazione del dio, è, per me,
la radicale assunzione di responsabilità di chi sente interamente su se stesso
il compito/destino della scelta, senza un Altro cui poterne cedere il peso” (p.
53), sembra non sospettare neppure lontanamente quanti “credenti” nel mondo
attuale la pensino esattamente come lui[2].
Raineri non è un teologo, ma un filosofo sì. E anche
di buona razza: pensa ciò che vive e vive ciò che pensa. Perciò, se non mi
stupisce la sua ingenuità teologica, resto invece perplesso su alcune sue
posizioni filosofiche. Ad esempio quando accoglie una suggestione letteraria a
proposito del principio (di derivazione parmenidea e aristotelica) del “Terzo
escluso”:
“C’è un vincolo che unisce in questo punto d’origine
l’ordine logico della metafisica occidentale e l’ordine politico
dell’impossibilità del terzo oltre la coppia amico/nemico, vincolo mostrato nel
capolavoro di Christa Wolf Cassandra: <<Per i greci c’è solo o
verità o menzogna, vittoria o sconfitta, amico o nemico, vita o morte. Pensano
in modo diverso: quello che non è visibile, annusabile, udibile, tastabile, non
esiste, è l’altro che essi schiacciano tra le loro rigide
distinzioni, il Terzo, che per loro è sempre escluso, la materia vivente che
sorride, che è in grado di riprodursi continuamente da se stessa, l’Indiviso,
spirito nella vita, vita nello spirito>>. <<Tra uccidere e morire
c’è una terza via: vivere>>” (pp.38 – 39).
A me pare che il brano della Wolf, pur così
suggestivo, contenga una catena di semplificazioni eccessive su cui non penso
che un filosofo possa chiudere un occhio (né tanto meno entrambi). Intanto una
prima macroscopica generalizzazione attribuisce a tutti i “greci” una
diffidenza epistemica nei confronti della sfera empirica (“visibile,
annusabile, udibile, tastabile”) che può essere attribuita se mai a Parmenide e
a Zenone d’Elea. Aristotele, solo per citare il teorico del “principio di
non-contraddizione” (da cui deriva il “principio del terzo escluso”), ha
lavorato un’intera esistenza in vari campi disciplinari con una metodologia
sperimentale-induttiva. Ma ammesso – e non concesso – che davvero tutta la
metafisica occidentale imponesse “il logos paterno, basato sulla
contrapposizione logica, in sostituzione della ricerca della verità fondata
sulla vista, l’udito, il gusto, cioè sulle pure valenze manifestative di ciò
che vive secondo il dinamismo metamorfico (altro dal divenire)” (così Domenico Antonino
Conci citato a p. 38), che c’entra questo con la radicalità comportamentale, se
non addirittura l’intolleranza etica? Il principio (logico) del terzo escluso
esclude che Tizio (in uno spesso momento e da un medesimo punto di vista) sia
nemico di Caio: non che possa essere in momenti differenti (o nello stesso
momento, ma sotto angolazioni diverse) amico e nemico di Caio. Cassandra non
potrebbe enunciare la frase ad effetto (retorico) che tra “uccidere” e “morire” c’è la terza
via del “vivere” se non adottasse (irriflessivamente) il principio logico del
terzo escluso, in base al quale “uccidere” non è né “morire” né “vivere”;
“morire” non è né “uccidere” né “vivere”; “vivere” non è né “morire” né
“uccidere”. Da Heidegger ed epigoni sparare sulla metafisica è una moda (molto
diffusa fra gli studiosi di filosofia), ma resto convinto che la violenza
strabordante nel micro e nel macro del pianeta sia conseguenza di un difetto,
non di un eccesso, di riflessione metafisica. Una spiritualità basica,
planetaria, potenzialmente condivisibile – come Raineri ed altri la perseguiamo
– sarebbe incrinata non dalla molteplicità delle interpretazioni metafisiche
quanto dall’esserne portatori inconsapevoli (e dunque incapaci di sottoporle ad
auto-critica).
Augusto Cavadi
[1] Non riprendo in questo ampio dialogo con l’autore
alcune considerazioni che, in una prima succinta recensione, ho già avanzato in
www.zerozeronews.it/come-cambiare-il-mondo-dopo-il-tramonto-della-politica.
[2] Sul Post-teismo si possono trovare delle indicazioni anche
in due miei contributi: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/dal-tramonto-delle-religioni-alla-mistica-post-religiosa/ (1.11.2022); https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/in-dialogo-con-spinoza-filosofo-post-teista/ (1.9.2023).
1 commento:
Sottoscrivo e condivido l’articolata recensione con una riserva nel metodo. Spiego esagerando per farmi capire meglio. Rispetto a “compito” preferisco il termine “vocazione” inteso laicamente. “Vocazione” è relativa all’essere e da questo il fare, “compito” attiene invece al fare prefiggendosi di fare in un dato modo. Il rischio è che il primato del fare sull’essere prima o poi conduce a ideologiche fedeltà ad una certa linea di azione, alla militanza precettistica -fai così: a) b) c)… -, insomma all'uomo fatto per il sabato. Una spiritualità che non dà spazio all’epicureo appartato è ancora laica? Stiamoci attenti.
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