Che cosa è successo a Perugia
Prima che sulle elezioni di Perugia si riversi la retorica dei commenti tutti interni alla politica politicante, prima che vengano banalizzate battendo sul tasto della città che verrà governata per la prima volta da una donna (sarebbe successa la stessa cosa con Margherita Scoccia, ma non sarebbe stata affatto la stessa cosa), conviene riavvolgere il nastro e mettere in fila un po’ di elementi.
La spirale del centrodestra
Il Barton Park è un luogo recintato da una cancellata alta e nera. È un pezzo di Perugia che dà di sé l’immagine di un luogo pubblico ma è gestito da una società privata che ci ha investito sopra per trarne legittimamente profitto e lo pubblicizza definendolo «una location di eccellenza per eventi di successo». Il Barton Park non è libero come un qualunque altro spazio che sia davvero parte della città di tutte e di tutti: vi si può entrare solo se la proprietà che ne detiene le chiavi apre il cancello che delimita il confine di quel luogo con la Perugia pubblica. Avere deciso di tenere lì l’evento di chiusura del primo turno della campagna elettorale, che poteva essere anche l’ultimo, è stato un segnale piuttosto contraddittorio, o forse inequivocabile, da parte del centrodestra perugino: una coalizione che da dieci anni gestiva la cosa pubblica e si candidava a continuare a farlo ma ha celebrato uno dei suoi momenti pubblici più importanti in un luogo privato. Si è trattato di uno dei tanti errori commessi da una maggioranza che pensava di avere la vittoria in mano ma si è trovata a fronteggiare una situazione inaspettata ed è per questo entrata in una spirale di difficoltà che ne ha squadernato tutti i limiti.
Avanti, ma indietro
Il centrodestra ha iniziato la campagna elettorale con l’intento di fornire di sé l’idea di una forza proiettata in avanti. «Indietro non si torna» è stato all’esordio lo slogan dei primi manifesti giganti che hanno tappezzato la città. Seguito e confermato da «Il futuro non si ferma», che doveva essere il claim centrale della comunicazione politica costruita intorno a Margherita Scoccia. La candidatura di Vittoria Ferdinandi è stata una di quelle folate di vento inaspettate che fanno volare via i fogli dalla scrivania. In difficoltà di fronte a una candidatura marziana, che riattivava energie insospettate, faceva il pieno di pubblico e parlava una lingua nuova e intraducibile per quel ristretto circolo di persone composto da politici e pezzi di giornalismo che scambiano se stessi per l’intero universo, i partiti e la candidata di centrodestra hanno cominciato a volgere gli occhi all’indietro, verso un paesaggio per loro rassicurante: “Perugia capitale della droga” e il “buco di bilancio” sono diventati a un certo punto i tasti su cui battere per tentare di appiccicare sull’avversaria l’etichetta di una continuità con un passato che il centrodestra aveva sconfitto dieci anni prima. Tentare di legare Ferdinandi a quel passato è stata la manifestazione della volontà di esorcizzare la portata radicalmente innovativa dell’avversaria. Ma come il successivo tentativo di dipingere la candidata come una pericolosa estremista, si è trattato di una caricaturizzazione così lontana dalla realtà che la maggioranza dell’elettorato l’ha respinta come un organismo fa rigettando cellule che non riconosce. A ciò si è aggiunta una sorta di incompatibilità ontologica tra quello slogan, «Il futuro non si ferma», e il continuo ritorno al passato del discorso pubblico della destra, che ha generato un altro corto circuito, esattamente come quello innescato da una coalizione che si candida a gestire il pubblico ma lo fa da un luogo privato. Il tutto è successo mentre accanto al claim originario ne è stato coniato un altro, in corsa: «Perugia è di tutti», proprio nel tentativo di relegare Ferdinandi e l’intelligenza e l’emozione collettiva che la sostengono nell’angolo di una partigianeria estremista evidentemente indegna di far parte dei tutti. È stato un altro segnale di difficoltà, poiché la sovrapposizione di claim – per di più così incongrui – è stata del tutto disorientante. Il combinato disposto tra il ritorno al passato e uno slogan come «Perugia è di tutti» ha restituito simbolicamente la rappresentazione di una maggioranza che ragionava nel proprio intimo come se fosse stata ancora l’opposizione di dieci anni fa. La campagna elettorale di Scoccia è stata un continuo riassetto sulla base delle novità creative introdotte dall’avversaria: dall’idea dei manifesti extra lunghi a quella dei reel sui social media – inizialmente studiati come pillole di fiction, prodotti in laboratorio con tanto di copione; in seguito invece, sulla base di quanto andava facendo Ferdinandi, estrapolati da momenti in presa diretta della campagna elettorale. Fino all’evento finale prima del ballottaggio, in cui il centrodestra è tornato in piazza IV Novembre, cuore della città, copiando il centrosinistra che quella cosa l’aveva fatta due settimane prima, alla fine del primo turno, quando l’ex maggioranza si era andata a rinchiudere nella privatezza del Barton Park. Sia chiaro, non è in ballo qui una questione di riconoscimento di diritti d’autore. È che il modo in cui la coalizione che governava Perugia si è condannata a rincorrere gli avversari che partivano sfavoriti denota una più ampia mancanza di spessore. Per di più, copiare da una candidata che al tempo stesso si tenta di relegare nell’angolo dell’estremismo è di una doppiezza disorientante, esattamente come lo è stato l’accavallamento degli slogan.
Materiale/immateriale
L’ultima parte di campagna elettorale Scoccia e il suo entourage l’hanno fatta virare su un concetto di concretezza che nei loro auspici avrebbe dovuto fare giustizia della fumosità ideale con la quale intendevano disegnare la parte avversa. È stato forse il momento in cui la naturale attitudine del centrodestra è emersa al di là delle giravolte di una campagna elettorale ondivaga perché in pesante affanno. Come abbiamo abbiamo già tentato di interpretare analizzando i programmi delle due principali coalizioni, quello che è parso il nucleo fondante del centrodestra perugino è stata una fiducia quasi messianica nella promessa di opere (il nodo, la stazione Medioetruria e il metrobus sono state le più qualificanti) che si sono pensate risolutive dei problemi delle persone. L’idea è stata insomma che il consenso di elettori ed elettrici fosse agganciabile prefigurando loro la realizzazione di cose. A quella che doveva essere la concretezza di opere e fatti solidi e tangibili, Ferdinandi ha contrapposto l’immaterialità irrinunciabile della visione. E sulla dicotomia materiale/immateriale si è giocato un pezzo consistente di campagna elettorale.
Il conservatorismo e le vite
Scoccia ha interpretato un ruolo tradizionale: quello della candidata che promette cose concrete, opere tangibili, e le promette nella lingua che parlano in genere i candidati e le candidate tradizionali. L’ha fatto nella convinzione che questa, oggi, sia la funzione della politica: agevolare il quotidiano tran tran rendendolo più agevole. Si tratta di una posizione conservatrice in sé: non c’é nessun anelito al cambiamento in quella piattaforma semplicemente perché chi l’ha realizzata ritiene nel proprio intimo che non ci sia niente da cambiare. Ferdinandi, essendo una marziana della politica, portatrice di un punto di vista esterno al pianetino autoreferenziale dei posizionamenti geografici (destra, sinistra, centro) divenuti incomprensibili quando non indigesti a gran parte dell’elettorato, ha colto che la desertificazione dell’asfittica rappresentanza partitica si può tentare di colmarla cercando di riconnettere la politica alla vita delle persone sempre più sfilacciata, precarizzata, in affanno. E la vita delle persone è fatta per gran parte di immaterialità: la soddisfazione, le aspirazioni, l’immaginazione, i sentimenti, la tranquillità, il riconoscersi in qualcosa di più autentico del mero possesso di cose o della fruizione di opere pubbliche che spesso peraltro rispondono agli interessi di pochi piuttosto che a quello generale. Si tratta di astrattezze solide, senza la cornice delle quali le cose concrete diventano inerti e fini a se stesse. È dall’esigenza di colmare queste mancanze che anche all’interno del comune di Perugia sono germogliate esperienze di rigenerazione urbana, librerie indipendenti, cinema di comunità, ristoranti inclusivi, associazionismi di vario tipo e mutualismi di quartiere. Esperienze che sono andate a riempire i vuoti lasciati da una politica che non rappresenta più come riusciva a fare fino a cinquant’anni, non è in grado di progettare alcunché, ma scimmiotta i comportamenti di cinquant’anni fa. Il disallineamento logico tra queste due dimensioni genera un panorama surreale, in cui matura il disamore verso le cose comuni, confuse con un pubblico che da anni dà mostra del peggio di sé. Le esperienze sommariamente elencate sono concretissime, ma derivano da un’aspirazione ideale senza le quali non sarebbero mai state immaginate. Una delle chiavi con cui si può leggere la candidatura di Ferdinandi è questa: è come se la ricchezza trasformativa di quelle esperienze generate dall’immaterialità delle esigenze di solidarietà, cultura non ingessata, solidarietà di cui la città pullula sia riuscita a contaminare un pezzo di mondo che ha deciso di entrare nelle istituzioni. Non c’è stato un piano a tavolino, e neanche un rapporto di causa-effetto, nessun automatismo meccanicista, meno che mai un qualche tipo di complotto o di ordita occupazione del potere, come si potrebbe pensare dal pianetino autoreferenziale della politica e di un pezzo del circuito massmediatico. Quello che assomiglia di più a ciò che è successo è il movimento del polline trasportato dalle api: casuale ma non caduto dal cielo. Qualcosa che esiste e viaggia anche se non si vede, e prima o poi va a depositarsi da qualche parte e feconda.
Una candidatura marziana
Ferdinandi, con il sostegno dell’intelligenza e dell’emozione diffuse che l’hanno supportata, si è fatta traduttrice lucida, chiara e fedele di esigenze difficili a dirsi perché sepolte sotto la tirannia del reale che congiura per far apparire immutabile ciò che è invece una costruzione umana, e che come tutte le costruzioni umane può essere migliorata, a patto che si abbia una solida cornice ideale, e quindi immateriale, entro cui collocare le cose concrete da fare. Intelligenza ed emozione, sentimento e ragione, uniti all’essere sintonizzati con un qui e ora che i vecchi arnesi degli anni ottanta-novanta del secolo scorso non consentono di comprendere, sono stati due ingredienti senza i quali non si capisce la straordinarietà della candidatura di Ferdinandi e della sua campagna, che infatti resta marziana, incomprensibile ai molti che hanno ragionato e continueranno probabilmente a farlo con categorie vetuste, utili oggi come i gettoni per le cabine telefoniche. È da questa sostanziale incapacità di leggere il reale, oltre che da una sostanziosa punta di strumentalismo, che sono nate e poi degenerate le accuse di estremismo, centrosocialismo, movimentismo nei confronti della candidata che ha vinto le elezioni. Solo che non c’è niente di più estremo, rigido, arido e inutile che rimanere abbarbicati a paradigmi confortevoli ma sganciati dalla realtà. L’incapacità a comprendere del centrodestra e di un nutrito panorama di osservatori ha cozzato contro un atteggiamento ancor più sorprendente di Ferdinandi. Laddove infatti un’altra parte politica si sarebbe intimidita di fronte a una campagna degli avversari così caparbiamente aderente alla tirannia del reale, la candidata che ha vinto le Comunali di Perugia ha invece rilanciato rivendicando la necessità della visione e dell’immaterialità dentro cui collocare la concretezza delle cose da fare. E, soprattutto, ha collegato politica e vita: ha fatto intravedere che le trasformazioni politiche possono diventare trasformazioni in meglio per la vita di chi sta peggio, e non solo. Solo una marziana avrebbe potuto inserire nel comizio di chiusura del primo turno della campagna elettorale la metafora del liquido amniotico che protegge e nutre il feto che la donna ha in grembo consentendogli però di comunicare con l’esterno e di assorbire nutrimento: un confine non ottusamente chiuso e rigido ma poroso ed elastico come è la vita stessa, appunto, che il liquido protegge e cura. E solo con la comprensione più autentica del qui e ora che stiamo vivendo, dello svilimento della vita pubblica a causa di rappresentanti inadeguati, si poteva mettere a leva la partecipazione dei cittadini intesa non come mero ascolto ma come chiamata alla coprogettazione della cittadinanza, cioè come autentico metodo di governo che trasformi il pubblico spesso sinonimo di “di nessuno”, nel tentativo di farlo diventare diventare comune, di tutte e tutti.
Ferdinandi ha aggirato la cittadella del potere autoreferenziale cercando la legittimazione nelle persone e parlando alle loro vite reali. C’è riuscita perché si è tenuta a debita distanza dal recinto delle liturgie di posizionamento della politica politicante e dei circoletti massmediatici, utilizzando un lingua nuova in cui fragilità, tessitura, diritto all’autonomia, visione e immaginazione hanno preso il posto di fondi, investimenti, milioni, destra, sinistra, estremismo così in voga altrove.
Una generazione nuova
Il collegamento vivido con il qui e ora e tutto ciò che ne è scaturito è stato reso possibile anche dalla presenza di un altro ingrediente. Il tentativo di ritorno al passato della propaganda del centrodestra e la coazione ad analizzare le cose come se ci si trovasse in una qualsiasi delle campagne che hanno preceduto quella appena trascorsa rischiano di offuscarlo, invece va colto in tutta la novità che rappresenta. Vittoria Ferdinandi ha 37 anni, il gruppo delle persone che ha trainato la sua campagna è composto da sue e suoi coetanei. Si tratta di una generazione che vive e ha vissuto tutte le asprezze del qui e ora ed è lontana galassie dalle zone di comfort di chi, avendo avuto la fortuna di vivere la propria vita negli anni del boom o di ciò che ne restava, non si è dovuto adattare a più lavori contemporaneamente, a emigrare, a contratti saltuari, a paghe da fame, a occupazioni per cui non sarebbe servito studiare ciò che si è studiato, a stage non retribuiti che però fanno curriculum. C’è anche questo gap generazionale ad aver reso marziana la candidatura di Ferdinandi. Un gap che ha reso grotteschi i tentativi di chi con le lenti di decenni fa tentava di affibbiare etichette di passatismo ideologico a una candidata e a uno staff che hanno invece mostrato plasticamente come la cornice ideale sia necessaria a collocare le cose e a coglierle nella loro purezza. Se Ferdinandi fosse cresciuta a pane e ideologia nel senso più retrivo del termine utilizzato dai suoi detrattori, sarebbe caduta nella trappola che per settimane le hanno teso gli avversari: trasformare la campagna elettorale in senso ottusamente ideologico in un triviale derby fascisti-comunisti. Se avesse avuto la paura del proprio passato che hanno o hanno avuto persone più anziane di lei, inebetite di quello sport nazionale che è stata per anni la corsa al centro, avrebbe avuto remore ad abbracciare l’anziana signora che l’ha aspettata con la bandiera rossa sul marciapiede in attesa che passasse l’autobus scoperto della candidata in tour per la chiusura di campagna elettorale per il ballottaggio. Con Ferdinandi e la generazione che è salita con lei alla ribalta, la bandiera rossa riacquisisce la purezza di uno dei simboli di chi ha scritto la Costituzione e ha dato un futuro decente a un paese che ha rischiato di averne uno nero. Si tratta di un concetto semplicissimo, che è stato reso difficile proprio da decenni di un’ideologia che questa generazione si è tolta di dosso con una sana scrollata di spalle: collegando le idee alle vite. E cercando di tradurle in politica per le vite. Per di più con una creatività che ha costretto gli avversari a una rincorsa sfiancante. Un’ultima nota, su questo: Ferdinandi non è del Pd, ma se alla guida nazionale del Pd non ci fosse stata Elly Schlein la sua candidatura sarebbe stata probabilmente risucchiata in chissà quale gioco autoreferenziale e la generazione nuova triturata ancora.
I rischi, adesso
Un pezzo consistente di elettorato, seppur quasi sommerso dai messaggi torbidi e tendenzialmente intimidenti della tirannia del reale, ha capito tutto questo, anzi è parso non volere altro che capire tutto questo, e si è emozionato e ha conseguentemente fatto aderire la propria intelligenza alla proposta di Ferdinandi. L’ha fatto anzi la maggioranza delle persone che sono andate a votare a Perugia. Il che significa che per molti e molte l’immaterialità è un valore senza il quale la concretezza si muove senza bussole per l’interesse generale, e che la politica non è fatta di cose, ma di tentativi di cambiare in meglio le vite, altrimenti diventa un campo arido. È un fenomeno di cui prendere nota, il cui significato travalica i confini municipali. Un rischio però c’è: è che Vittoria Ferdinandi resti sola. Che si trasformi in idolo isolato. Che la sua vittoria sospinga anche le persone che l’hanno votata a rientrare in casa, magari dopo avere tirato un sospiro di sollievo. Se succedesse questo sarebbe una sconfitta per due motivi. Primo: significherebbe che anche la parte che ha sottoscritto la candidatura marziana è diventata vittima dell’egemonia del pensiero semplicistico che ritiene che la sostituzione dei leader sia di per sé risolutiva dei problemi inediti che abbiamo davanti. Si percorrerebbe così esattamente all’inverso il tentativo di nuova via che la candidatura di Ferdinandi ha tentato di tracciare, legare la politica alle vite, mostrando che i cambiamenti politici possono migliorare la qualità del vivere. Secondo: senza l’intelligenza e l’emozione collettive che la candidatura Ferdinandi ha rimesso in circolo, non c’è cambiamento possibile; se venissero a mancare la corsa elettorale sarebbe stata vana.
Un pezzo assai consistente di elettorato, esausto da decenni di autoreferenzialità e analisi vuote, non è invece riuscito ad essere avvicinato e ha scelto di non votare, di essere equidistante tra due mondi, quelli incarnati dalle due candidate, mai così agli antipodi, elemento che ha reso la campagna elettorale davvero la competizione tra due alternative. Anche questo è un fenomeno di cui prendere nota perché ha a che fare con la qualità della nostra democrazia, che non è costituita solo dal momento del voto, come da più parti si indica. Ed è un elemento che sfiderà il governo della città chiamato ora a suturare anche le ferite da campagna elettorale.
La destra
Un altro pezzo consistente di elettorato ha votato per una candidatura che, in contrapposizione alla visione estesa di democrazia radicale rappresentata da Ferdinandi, ne predilige una minima, che per semplicità qui si può definire ristretta al momento del voto in cui si decide chi deve comandare per i successivi cinque anni. È legittimo. Solo che oggi quella parte in Umbria sembra essere drammaticamente sprovvista di persone in linea coi tempi e in grado di amministrare. Il suo maggior partito, Fratelli d’Italia, ha perso in due anni con suoi candidati – Masselli a Terni, Scoccia a Perugia – le elezioni comunali nei due capoluoghi di provincia di una regione nella quale costituisce la prima forza politica. Fratelli d’Italia è insomma una sorta di anello debole ma forte: troppo più forte dei suoi stessi alleati di coalizione, che così faticano a instaurare una qualche dialettica, ma intimamente sprovvisto della capacità di governo e di visione che occorrono per svolgere il ruolo di guida. Ne è la dimostrazione plastica il fatto che l’ex coordinatore regionale di quel partito, persona che dopo lustri di Consiglio regionale oggi siede in Parlamento, ha detto che quello che adesso si appresterà a fare FdI è «ciò che abbiamo sempre fatto: combattere i comunisti». Ancora il passato che non passa, un po’ poco come piattaforma per gli anni venti del Duemila. In questo scenario, la coalizione di centrodestra si presenterà alle elezioni regionali del prossimo autunno con una presidente uscente che rappresenta un partito, la Lega, passato in Umbria dal 37 per cento di cinque anni fa, quando Donatella Tesei venne eletta, al 6,8 per cento delle Europee di due settimane fa. A debolezza si aggiunge debolezza, quindi.
Anche sotto questa ultima luce quello che è successo a Perugia è importante: segna una discontinuità di linguaggio e generazionale che potrebbe essere linfa per un futuro del tutto differente dalle liturgie autocentrate del passato. Quello che succederà d’ora in poi farà parte dello svolgimento di un altro capitolo. Lo seguiremo con attenzione.
Questo il link all'edizione originale:
https://www.cronacheumbre.it/2024/06/25/che-cosa-e-successo-a-perugia/#comment-241
1 commento:
Interessante, ricco di spunti di riflessione. Grazie della condivisione.
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