LAVORARE IN AULA, FATICA NECESSARIA MA
INSUFFICIENTE
Il locus naturalis dell’insegnante è l’aula
scolastica. E’ lì che deve mettersi in gioco, sudare, inanellare fallimenti su
fallimenti, imparare a farsi rispettare
senza mancare di rispetto, insegnare i principi della democrazia senza adottare
modi antidemocratici, testimoniare l’autorevolezza dell’adulto maturo senza scadere
nell’autoritarismo del sergente di giornata. Come allo spaccone di Esopo, che
si vantava di aver compiuto a Rodi un salto prodigioso, così al docente che si
vanta in giro di essere un personaggio brillante, bisogna sussurrare: Hic
Rhodus, hic saltus. Quello che affermi di essere, devi dimostrarlo prima di
tutto nel tuo ambiente quotidiano. Il
lavoro in aula è così logorante che capisco, per esperienza personale più che
quarantennale, la tentazione della fuga: o definitiva (ad esempio diventando
Dirigente scolastico o sindacalista a tempo pieno) o temporanea (una volta si
accompagna la classe al museo naturalistico, un’altra volta in gita
d’istruzione a Berlino, un’altra volta ancora a sorbirsi un convegno
noiosissimo sulle avanguardie artistiche del secondo Novecento tedesco…: quasi tutto
è preferibile alla faticosa routine della normalità).
Non in una campana di vetro
Ciò
chiarito senza insopportabili ipocrisie, ci si può legittimamente porre la
domanda: essere animali d’aula è necessario, ma è anche sufficiente?
Ho conosciuto ottimi professori che si muovevano nel recinto scolastico con la
disinvoltura di pesci esotici nell’acquario, ma incapaci di respirare,
muoversi, interagire non appena fuori dall’habitat consueto. A Rodi saltavano
davvero bene, ma fuori le mura della città erano incapaci di camminare senza
impaccio. Negli anni Sessanta del secolo scorso era un punto d’onore non comprare
quotidiani; negli anni Settanta non avere il televisore; negli anni Ottanta non
frequentare né discoteche (tutte piazze di smercio di sostanze) né centri
sociali (tutti covi di terroristi); negli anni Novanta non possedere cellulari;
negli anni Duemila non utilizzare computer né tablet; in ciascuna di queste
annate non leggere libri differenti dai testi – strettamente attinenti alle
proprie competenze disciplinari – ricevuti gratuitamente dai promotori
editoriali per eventuali adozioni. So benissimo che le eccezioni si davano e si
danno, ma, se devo attenermi all’ esperienza personale, non posso negare che
erano di numero esiguo rispetto alla media dei colleghi (che addebitavano l’estraneità
alla vita sociale, culturale e politica della città a mancanza o di tempo o di
disponibilità economica o di entrambi i fattori).
Gli
esempi che mi frullano in mente sono decine: dal collega di greco che mi
esternava il suo sconcerto (“Sei arrivato a questo punto: propagandare il
terrorismo fra i nostri alunni ?” ) perché, a conclusione di un ciclo di
lezioni sulle ideologie politiche del Novecento, avevo invitato in aula Salvo Vaccaro,
mitissimo docente universitario esperto di anarchismo, alla collega di diritto
che giustificava la sua totale ignoranza del mondo associativo palermitano
perché di antimafia, in famiglia, se ne era sempre occupato - prima di essere
assassinato dalla mafia - un congiunto magistrato. Insomma, dopo aver dedicato
alla categoria dei Dirigenti scolastici una serie di aneddoti (rigorosamente
veri) nel volume Presidi da bocciare (Di Girolamo, Trapani 2010)[1], se avessi tempo, forze e residue
pulsioni masochistiche potrei scrivere, senza difficoltà, il sequel Insegnanti
da bocciare.
Allora: ci sono i termini per porsi come dilemma se un
docente debba limitarsi a essere un (possibilmente preparatissimo) docente all’interno
della campana di vetro protettiva dell’aula o se possa (anzi, debba) avere
ampie esperienze culturali, sociali, politiche in settori della città, della
regione, della nazione in cui vive.
Una prima questione: insegnante o
educatore?
La
questione non è peregrina, è fondata. Ma non irrisolvibile. Bisogna prima di
tutto accordarsi sulla figura
professionale del docente: è essenzialmente un insegnante che comunica
conoscenze e competenze o un educatore che deve favorire la maturazione
complessiva degli alunni (dunque non solo intellettuale, ma anche morale,
emotiva, civica)?
Nella
prima ipotesi può benissimo essere una persona psicologicamente irrisolta, caratterialmente
problematica, socialmente isolata, politicamente indifferente e – nonostante
questi limiti – funzionare in maniera tutto sommato accettabile: ovviamente non
c’è da stupirsi, però, se di questo genere di insegnanti le nuove generazioni
ritengano di poter fare a meno e se, rispetto al lavoro in aula, preferiscano
forme di apprendimento al computer con
programmi telematici interattivi, per nulla soggetti a lacune o errori.
Nella
seconda ipotesi il docente si deve far carico della formazione (meglio:
dell’autoformazione) integrale dei giovani con cui condivide per anni i
processi di crescita e, se non vuole ottenere effetti contrari alle proprie
intenzioni, deve puntare sulla propria testimonianza di persona equilibrata,
saggia, informata di ciò che avviene nel contesto sociale, auto-ironica, pronta
ad apprezzare la bellezza e a soffrire per i dolori dei viventi, a lui vicini o
da lui lontani. Neanche questa seconda versione del ruolo docente è esente da
rischi: la tendenza a dare in aula più spazio alle prediche e ai comizi che
alle lezioni curriculari; a favorire la creazione di fazioni vicine o avverse
alle posizioni ideologiche dell’insegnante; ad entrare nel privato degli alunni
diventandone il confidente abituale, il confessore, lo psicoterapeuta, il
consulente sentimentale. “Negli anni di liceo non ho imparato molto rispetto ai
coetanei delle classi parallele: nell’ora di italiano stavamo in silenzio per
praticare yoga e nell’ora di matematica leggevamo e commentavamo il quotidiano
di un piccolo partito politico di estrema sinistra” - mi raccontava una ragazza anni fa per motivare
la sua richiesta di trasferimento nella nostra sezione.
Una
seconda questione: l’equilibrio fra professione ed esperienze formative
E’
dunque una questione di proporzioni, di tentare (per approssimazioni
successive, mai prive di scompensi unilaterali) il difficile equilibrio fra le
varie finalità dell’unica figura docente. Il quale può bilanciare con buon
senso i vari aspetti della sua mission se, contestualmente, persegue un
non meno difficile equilibrio - all’interno della sua esistenza - fra i suoi compiti
di insegnante e i suoi compiti di cittadino. Tocco qui una problematica
sfuggente, fluida, sulla quale non mi sembra che esista una vasta letteratura (per
cui spero che mi si perdoni l’andamento un po’ incerto dell’argomentazione).
Per
chi vive con passione, le giornate sono sempre troppo corte e non bastano mai
né le ore che si dedicano all’aggiornamento tecnico-professionale né le ore che
si investono nella propria formazione umana complessiva[2]. Come gestire, dunque, i
propri tempi ? Anche qui bisogna essere, per quanto possibile, chiari (almeno a
livello di criteri: poi la vita, nella sua imprevedibile e mutevole
concretezza, imporrà compromessi non sempre felici).
La
priorità di un insegnante dev’essere l’adempimento dei doveri istituzionali
corrispondenti alle ore di lezione per cui è pagato: può optare per il
full-time o il part-time, ma quali che siano le ore di servizio concordate con
lo Stato (24, 18, 12 o solo 6), a quelle ore deve dedicare il tempo e le
energie necessarie nel suo studio di casa per preparare lezioni (con eventuali sussidi
audiovisivi), correggere compiti, aggiornarsi nel proprio campo disciplinare e
più in generale nelle strategie pedagogico-didattiche, vedere film o leggere
riviste da poter consigliare agli alunni per appassionarsi alla ricerca. In
nessun caso si dovrebbe consentire, come di fatto avviene, che un docente (per
negligenza o perché impegnato in altri ambiti d’interessi extra-scolastici) si
esoneri dal minimo ‘sindacale’ della propria professione, per esempio svolgendo
attività (come lezioni private) senza previo consenso scritto del Dirigente
scolastico. Solo se assicura quanto
prevede il contratto che decide di firmare, ha il diritto di ampliare i propri
spazi operativi. Alcuni saranno finalizzati ad arrotondare lo stipendio, altri
a titolo gratuito. Che un insegnante di tecnologia collabori con uno studio di
progettazione ingegneristica, o un insegnante di ragioneria collabori con uno
studio di consulenza tributaria, non mi scandalizza: purché ciò avvenga alla
luce del sole – dunque evitando che la
“seconda” attività professionale diventi la “prima”, anche se ha scelto il
tempo pieno a scuola e riceve lo stipendio intero – il docente può portare in
aula aria fresca dalla vita reale, autentica, che si respira fuori. Ma, ai fini
del proprio ruolo educativo, è più proficuo se il tempo che resta, dopo essersi
dedicato alla sfera tecnicamente professionale, viene investito nella frequenza
di centri culturali, associazioni professionali, organizzazioni di
volontariato, sedi di sindacati o di partito…insomma in attività gratuite che
coltivino la dimensione intellettuale ed etico-civile.
A
che condizioni accompagnare gli alunni fuori dall’aula
Anche
in questo caso il docente importa dall’esterno aria fresca dalla vita reale, ma
intrisa di interrogativi critici
rispetto alla mentalità produttivistica onnipervasiva. Potrà portare la voce
degli sfruttati del sistema capitalistico, dei senza-casa, degli immigrati
senza protezione, delle ragazze prostituite, dei tossicodipendenti ghettizzati
in angoli bui della città; potrà attestare che il senso della vita non è solo,
o principalmente, nel primeggiare a scuola, ma anche, e soprattutto, nel dare
una mano ai movimenti pacifisti, nonviolenti, ecologisti, antimafiosi. Potrà
testimoniare che leggere, studiare, informarsi, riflettere, pensare avrebbero –
come fine ultimo solitamente ignorato – la trasformazione dell’inferno, nel
quale ci dibattiamo, in uno spazio storico-sociale vivibile. Se egli viene
arricchito come persona dalle sue esperienze extra moenia, ciò, di
conseguenza, lo renderà più vivo e più attrattivo come educatore.
Solo chi sperimenta tutto questo nella sua esistenza
personale ha il diritto di accompagnare qualche volta gli alunni a conoscere
esperienze sociali fuori dai cancelli scolastici: la sua iniziativa non sarà
patetica strategia per evadere dalla noia scolastica, bensì significativa
indicazione per quei giovani che vorranno giocarsi la vita a un livello più
alto della banalità dominante. La
riprova? Quando un docente, nei decenni, non ha provato a fare della propria
esistenza un ponte fra la scuola e la vita sociale, le eventuali attività
para-scolastiche da lui progettate e realizzate riusciranno deludenti o
addirittura fallimentari: i suoi ragazzi percepiranno un che di inautentico, di
artificioso. Non sei un appassionato di pittura? Evita di intestarti la visita
in pinacoteca. Non ti interessa la tragedia greca? Evita di guidare gli alunni
a Siracusa. Se non ti interessano la
questione mafiosa o la violenza di genere, non organizzare la partecipazione
delle tue classi a convegni su questi temi solo perché – in un determinato
momento – sono di moda, anche se non li ha mai né approfonditi personalmente né
tanto meno affrontati in aula. La visita ad un istituto penitenziario o a una
comunità di recupero per tossicodipendenti presuppone - già in chi accompagna i
giovani - una postura mentale,
psicologica ed etica diversa rispetto alla visita a uno zoo (visita dalla quale,
per altro, farebbe bene ad astenersi chi non si sia mai posto interrogativi
sulla sensibilità degli animali e sulla loro immensa capacità di soffrire).
Insomma, maldestramente ma convintamente, vorrei asserire che solo chi vive da essere
umano prima che da insegnante può tentare sia di aprire le porte della scuola
alla vita sociale sia di riversare nella società gli interrogativi critici e le
intuizioni creative elaborati nella scuola. Infatti si insiste molto (e
giustamente) su quanto la scuola abbia necessità di essere recettiva rispetto
alla società, ma ogni tanto dovremmo ricordarci che vale anche il reciproco: se
la società non vuole affondare nella melma delle ingiustizie sistemiche, del
degrado ambientale, del conformismo più stagnante, del tradizionalismo più
fondamentalista, della risoluzione bellica di ogni conflitto…ha bisogno, a sua
volta, di accogliere dalla scuola i
tesori della saggezza e della scienza, la memoria delle scoperte e degli
errori, l’educazione alla bellezza e alla nonviolenza. In attesa di una fase
così evoluta che la scuola (ovviamente intesa come sistema complessivo della
ricerca e dell’istruzione) sia il cuore pulsante di una società, rendendola
tutta intera un’unica grande agenzia educativa.
Augusto Cavadi
[1] Mancano in quel
testo vari episodi più attinenti al tema di questo mio scritto. Ad esempio non
vi riportai la reazione scandalizzata del DS del liceo “Meli” , a metà degli
anni Novanta, alla mia proposta di far leggere, all’interno di un progetto di
scambi fra studenti dell’Unione Europea, il libro Dietro la droga
pubblicato, in tre o quattro lingue, dal Centro siciliano di documentazione
“Giuseppe Impastato”: “Ma sei fuori di senno? Che penserebbero al Ministero se
venissero a sapere che utilizziamo materiali didattici pubblicati da un
centro-studi intestato a un terrorista?” (Peppino Impastato era stato
assassinato dai mafiosi quasi vent’anni prima!).
[2] Superfluo precisare che mi esprimo
approssimativamente, ben consapevole che anche le ore dedicate a qualificarsi
come docente possono comportare ricadute positive sulla propria formazione
umana e che anche le ore spese per attività formative extra-professionali
possono arricchirci anche come insegnanti.
Il volume è scaricabile gratuitamente qui:
L'ebook è stato realizzato nel nuovo formato a "layout fisso", non leggibile da tutte le app.
Chi avesse difficoltà tecniche può richiedermi il pdf via e-mail: a.cavadi@libero.it
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