Adriana Saieva
Educare alla legalità in un mondo di adulti civicamente maleducati?
Da diversi anni nelle scuole, e nelle comunità educanti in generale, si affronta il tema della legalità come espressione di comportamenti di cittadinanza attiva e rispetto delle leggi Costituzionali. Dal 2019 l’Educazione Civica è diventata materia trasversale: 33 ore suddivise tra varie discipline da cui deriva un unico voto perché – è intuitivo – la frammentazione delle ore dovrà comunque seguire un filo logico coerente. Esperienze vissute In particolar modo, in moltissime scuole, il grande e complesso tema della legalità viene declinato in progetti di educazione antimafia. In questo caso i percorsi sono svariati: a seconda dell’ordine di scuola si parla di storia della mafia, delle donne e degli uomini che l’hanno contrastata perdendo la vita; spesso si invitano giudici o giornalisti come testimoni di una storia contrassegnata dall’impegno sul campo; altre volte si intraprendono percorsi con associazioni che da anni lavorano nelle scuole su questi temi; altri input arrivano dall’incontro con l’autore all’interno di progetti di lettura e – quando il libro tratta di una vittima di mafia o di spunti per contrastarla – si ha modo di affrontare il tema in classe in vista di un dibattito più articolato. Questi sono gli esempi che, in trent’anni di lavoro in scuole primarie, ho vissuto direttamente. Ci sono poi le esperienze estemporanee come manifesta zioni e cortei in occasione di ricorrenze (più o meno precedute da un percorso articolato conoscitivo). Un cenno a parte meritano quei laboratori su temi di cittadinanza attiva e comunicazione nonviolenta che sono risultati particolarmente significativi in quanto hanno coinvolto tutta la persona: hanno messo in gioco la corporeità, la voce, l’immaginazione per smuovere e risvegliare emozioni fondamentali nel processo di apprendimento. Mi è capitato di co-condurre dei laboratori di cittadinanza consapevole in cui la facilitatrice esperta in danza-movimento terapia ed expression primitive ha coinvolto gruppi di giovani di scuola superiore in attività motorie (propedeutiche a successivi step): ho constato personalmente in alcuni la difficoltà a vivere la propria fisicità, a gestire la rigidità e il timore del giudizio altrui; contestualmente ho assistito alla successi va apertura degli stessi giovani, al lasciarsi andare e al diventare protagonisti del momento; durante la verbalizzazione è poi emerso che avevano molto apprezzato il poter vivere un’esperienza piuttosto che ascoltarla da seduti e questo ci ha ulteriormente convinte ad approfondire gli studi su modalità di formazione che procedano in questa direzione. Fare in modo, in ogni caso, che le parole siano preceduta da una sperimentazione significativa, emozionante e completa delle varie dimensioni di un soggetto. Incoraggiate da queste esperienze con giovani liceali, la mia amica ed io le abbiamo replicate – con gli opportuni adattamenti – anche con gruppi di adulti e (ciò che qui mi preme evidenziare) con bambini della scuola primaria, registrando risultati a maggior ragione positivi. Perplessità maturate Ma anche i laboratori più o meno riusciti sono sufficienti? Anni di la voro sul campo – come insegnante e come animatrice di laboratori extrascolastici – hanno fatto sedimentare in me dubbi e perplessità su questi modi di procedere. Ritengo sì indispensabile la sensibilizzazione, che queste iniziative veicolano, al tema della mafia e al suo contrasto e auspico che ce ne siano sempre e ovunque in tutto il territorio nazionale. Quello che mi lascia perplessa è quanto tutto ciò incida, in-segni, de condizioni da stereotipi e sentito-dire respirati fin dai primi vagiti e quanto creino le condizioni per la nascita di una vibrazione interna, etica che tenga lontano da qualsiasi forma di cittadinanza negligente, corresponsabile di crimini, passiva.
Provo a descrivere la mia perplessità con un gioco mentale: un’inversione di ruoli e contesti. Provo a immaginare una società dove tutto è regolato dal senso di giustizia sociale, dal rispetto di tutti gli esseri viventi e del pianeta; una società dove essere diversi è una ricchezza, dove si rinuncia a qualcosa pur di non eccedere col consumo e dove tutto ciò che è oggettivamente superfluo è bandito perché nessun tornaconto personale può essere superiore al bene pubblico. In questa società tutti conoscono, e vivono con piacere, le forme basilari di comunicazione efficace e nonviolenta, per cui non si usano frasi giudicanti né ancor meno offensive; si esercita l’ascolto attivo; si con danna l’azione e non la persona; si esprimono liberamente le proprie emozioni; ci si dà reciprocamente il tempo per parlare e rispondere senza interruzioni isteriche, urla e sopraffazioni verbali. In una società del genere – a tutti i livelli – viene coltivato il pensiero autonomo e critico; ci si esercita ad argomentare le proprie perplessità o il proprio disappunto praticando l’assertività e la fermezza con qualsiasi interlocutore. Soprattutto a scuola, il diritto di esprimere la propria opinione è costantemente difeso dall’intera comunità educante. I bambini e le bambine possono tranquillamente dissentire apportando dei buoni argomenti; possono -anzi devono- saper sostenere un confronto con chi è a un livello di autorità superiore senza temerne le reazioni e gli abusi. Periodicamente (per motivi che nel mio gioco mentale non trovano una giustificazione logica, ma è un gioco: quindi procedo) vengono messi a punto progetti di illegalità sistemica; un decreto-legge prevede addirittura che ben 33 ore siano dedicate al tema dell’educazione incivile, purché spalmate tra le varie discipline e articolate in un percorso coerente. Il tutto all’interno di un contesto sociale in cui scuole, famiglie, associazioni, centri sociali e parrocchie perseverano in uno sforzo collettivo di formazione di una società giusta e impregnata di bellezza. Quante possibilità ci sarebbero, in questa fantomatica società, che le lezioni di illegalità incidessero profondamente sui comportamenti dei bambini, sovvertendo il bagaglio da loro acquisito e interiorizzato in anni di esempi ricevuti in ogni occasione di vita sociale? Dismettendo il gioco e tornando a quella che è la nostra scuola e la nostra società: che speranza c’è di ottenere un qualsiasi risultato se l’esempio che si dà non è all’altezza di ciò che si chiede? Voglio che tu bambino abbia un bel pensiero “divergente”, ma se mi contraddici sono guai (non accade in ogni classe, ma accade in molte classi. Non accade in ogni famiglia, ma accade in molte famiglie). Voglio che tu cresca col coraggio di “far camminare le loro idee sulle tue gambe”, ma intanto devi obbedire ai miei ordini e, se mi chiedi ragione di uno solo di essi, ti umilio davanti a tutti; se parli di un misfatto accaduto in classe ti espongo alla pubblica gogna riservata agli spioni (“non si accusano i compagni” può avere senso solo quando si sia appurato come stanno le cose e che il misfatto non riguardava un atto vandalico o un’azione di bullismo); ti invito a comunicare in modo mite, non violento, e te lo dico urlando. Ciascuna e ciascuno di noi, nelle varie vesti educative che ricopre, è esente da questi comportamenti? Si assume la responsabilità di una critica costruttiva verso il collega o il dirigente scolastico quando assi ste a qualcuna di queste modalità scorrette? Che si tratti di una classe, di un collegio docenti, di una riunione di condominio o di un incontro pubblico, di quale stile comunicativo (ed educativo) siamo esponenti?
La conclusione a cui sono arrivata è che gli adulti, tutti, abbiamo il dovere morale di porci queste domande e di impegnarci per trasformarci, destrutturare le cattive abitudini interiorizzate di cui spesso non siamo nemmeno consapevoli, migliorare. Fare autoformazione, chiedere corsi di formazione che mirino a una riflessione profonda sul ruolo dell’educazione, imparare con fatica e sudore della fronte a essere testimoni dell’esercizio di un pensiero critico. Solo allora le famose 33 ore sarebbero un approfondimento arricchente; solo allora tutti i progetti di contrasto alla mafia sarebbero efficaci: fiorirebbero a partire da un terreno ben coltivato e per questo fertile. E sarebbe l’inizio di una profonda trasformazione culturale che toglierebbe linfa al potere mafioso, a tutte le forme di potere arrogante e di sopraffazione.
Adriana Saieva
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2 commenti:
I possibili danni, specie in ambito pedagogico, procurati dall’incongruenza tra quello che insegniamo con le parole e ciò che comunichiamo senza parlare, sono stati affrontati già dagli anni ’50 nel concetto psicologico del doppio legame teorizzato da Gregory Bateson, un giro su Wikipedia per chi volesse approfondire. La contraddizione fra verbale e non verbale oltre a invalidare la credibilità dell’insegnante in casi particolari può ingabbiare l’alunno in un cortocircuito psichico paralizzante.
Analisi puntuale e opportuna. Grazie.
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