domenica 12 maggio 2024

"PUNIZIONE" :GIOVANNI FIANDACA SI INTERROGA SUL SISTEMA PENALE IN ITALIA (E NON SOLO)

 

OSARE LA CREATIVITA’ DELLA RIPARAZIONE

Nell’immaginario comune il filosofo e il professore di storia della filosofia coincidono. Ma ciò non è sempre vero: ho incontrato ottimi conoscitori del pensiero filosofico  indenni da inquietudine filosofica e, viceversa, persone impegnate in attività lavorative di vario genere che s’interrogano con autenticità sul senso di ciò che sono e di ciò che fanno. Ancora una volta, nel suo Punizione (Il Mulino, Bologna 2024), Giovanni Fiandaca, docente emerito di Diritto penale all’Università di Palermo e già membro del Consiglio Superiore della Magistratura, dimostra di appartenere alla seconda categoria. Dopo mezzo secolo speso nello studio e nell’insegnamento del Diritto penale, avverte l’esigenza intellettuale ed esistenziale di dare spazio a una domanda radicale: perché punire?

Nell’epoca delle risposte sloganistiche, tanto più trancianti quanto meno meditate, egli dedica la maggior parte del libro (non voluminoso, ma intenso) a restituire l’ampio panorama delle teorie – antiche e contemporanee – della “pena”: e lo fa, meritoriamente, con l’intento di astenersi “dal giuridichese e dai relativi tecnicismi” e di “distillare il succo di innumerevoli discussioni dottrinali, per offrire una sintesi che possa risultare di agevole comprensione e di qualche interesse fuori dai recinti accademici” (p.72). Parlamentari che esercitano il potere legislativo, magistrati che hanno la responsabilità di applicare le norme ai casi concreti, genitori ed educatori inseriti nei più svariati contesti pedagogici (anche ecclesiali), sarebbero dunque i destinatari principali di queste pagine, scritte per chi non si adagia sul tradizionalismo (rispetto al passato) né sul conformismo (rispetto al presente).

Alla domanda sulle ragioni fondanti della punizione si sono date varie risposte, catalogabili in tre principali prospettive: retributiva ( ogni male inflitto a qualcuno esige, come “scambio compensativo”, un male proporzionato da infliggere a chi ne è stato causa); preventiva (la punizione del reo può prevenire in lui stesso la reiterazione dei reati e, più in generale, può dissuadere gli altri dal commetterne); rieducativa o riabilitativa (la punizione come metodo per innescare nel condannato dinamiche di autocritica e di revisione del suo rapporto con la società).

Le prime due teorizzazioni sono le più antiche e non sono state certo esenti da critiche e sospetti: “la dimensione di sofferenza è ineliminabile dalla sanzione punitiva per una qualche ragione davvero necessitante” (p.28), come si sostiene in un’ottica retributiva? “Le ricerche empiriche sinora disponibili” hanno fornito “riscontri certi e univoci circa l’attitudine preventiva della minaccia e dell’applicazione delle pene” o nella pratica giudiziaria quotidiana “ci si accontenta di una radicata e diffusa supposizione di senso comune” secondo la quale “il timore di poter incorrere in una punizione riesca – seppure col concorso di altri fattori – a dissuadere quantomeno alcune persone dall’agire illecitamente” (p. 79) ?

Le  obiezioni a questi due paradigmi hanno indirizzato gli studiosi verso il terzo paradigma “rieducativo” o “riabilitativo” che può considerarsi “una coerente proiezione, sul versante specifico dei delitti e delle pene, della più generale ispirazione personalistico-solidaristica che connota l’intero sistema costituzionale” (p. 91). In uno Stato laico, “la rieducazione è interpretabile non già come un compito da imporre a ogni costo, bensì come un’offerta da parte dello Stato di forme di ausilio e opportunità che richiede sempre la previa accettazione volontaria dei destinatari; in mancanza di un’autonoma scelta di intraprendere un percorso risocializzativo, la rieducazione scadrebbe da proposta  od offerta in imposizione abusiva” (p. 98). Che in questa ottica il carcere non sia l’istituzione più adatta è ormai convinzione diffusa tra quanti lo frequentano a vario titolo. Ma Fiandaca, anche in base alla sua esperienza di garante dei diritti dei detenuti per la Sicilia (alla quale dedica nell’Epilogo delle pagine coraggiosamente sincere), non può tacere “un paradosso: la consapevolezza che il carcere non sia lo strumento migliore per (tentare di) rieducare è maturata abbastanza presto; in verità, sin dai primi decenni dell’Ottocento (…) . Ciononostante, la pena carceraria sopravvive e, a seconda delle contingenze, tende a espandersi” (pp. 103 – 104). Alla radice di questo paradosso una scomoda verità: la moltiplicazione di alternative alla detenzione carceraria, in funzione della riabilitazione degli autori di reati, presupporrebbe “un contesto politico adatto e un previo riorientamento culturale, una sorta di rieducazione dell’intera società” (p. 115).

In direzione di questo (auspicabile) mutamento di mentalità alcuni studiosi sono alla ricerca di “nuove strade allo scopo di promuovere cambiamenti radicali in tema di punizione. Emblematica di questo bisogno di rinnovamento è la recentissima tendenza a recuperare e valorizzare il paradigma della riparazione” (pp. 85 – 86) nel quale l’attenzione, sinora prevalente, sull’ “autore del reato” (p. 128) viene bilanciata dalla preoccupazione di “dare voce alle vittime dei reati e di esaudirne quanto più possibile le aspettative” (p. 129). Quando la libertà del colpevole incontra la libertà della vittima (diretta o indiretta) si apre lo spazio per sperimentare “modalità riparatorio-conciliative” (p. 127) talora inedite, talaltra riportate alla luce da tradizioni millenarie.  Toccanti le righe in cui Agnese Moro, figlia di Aldo, confida: “Nel mio caso la giustizia penale ha fatto tutto quello che poteva fare. Ha individuato i colpevoli, li ha processati e condannati a pene molto elevate. Seguendo la logica della giustizia retributiva, io teoricamente dovrei stare bene (…). Si vive la tirannia del dolore, che è come un urlo che non si può esprimere perché sei pieno di rabbia, di odio, di impotenza (…). E’ stata quella decisione che mi ha dato uno spazio quasi impercettibile per potermi guardare intorno e scorgere possibili sentieri da imboccare. Quello di gran lunga più importante è stato quello della giustizia riparativa” (pp. 144 – 145).

Fiandaca non sorvola sui limiti, di diritto e di fatto, di questo “modello di giustizia affascinante e assai promettente” i cui strumenti (come la “mediazione penale”) non possono considerarsi “bacchette magiche, rimedi miracolistici atti a curare tutti i mali che da tempo attribuiamo alla giustizia penale” (p. 140). Potrei aggiungere che si tratta di un modello che – al pari dell’approccio “nonviolento”, proposto da Gandhi a Capitini, con cui è imparentato – è esattamente l’opposto del “buonismo” rinunciatario: mira, infatti, a trascendere il piano (necessario, ma insufficiente) della legalità per osare la radicalità della creatività rigeneratrice. Obiettivo ambizioso sempre, ancor di più “quando sono al governo forze politiche di orientamento fortemente repressivo-securitario” (p. 177).

                                                                       Augusto Cavadi

                                                        “Adista /Segni nuovi”, 18.5.2024

1 commento:

Maria D'Asaro ha detto...

Libro intrigante per ogni cittadino/a attento/a e soprattutto per chi si dice amico/a della nonviolenza e magari fa volontariato in carcere...Grazie della tua puntuale recensione.