OSARE
LA CREATIVITA’ DELLA RIPARAZIONE
Nell’immaginario
comune il filosofo e il professore di storia della filosofia coincidono. Ma ciò
non è sempre vero: ho incontrato ottimi conoscitori del pensiero
filosofico indenni da inquietudine
filosofica e, viceversa, persone impegnate in attività lavorative di vario
genere che s’interrogano con autenticità sul senso di ciò che sono e di ciò che
fanno. Ancora una volta, nel suo Punizione (Il Mulino, Bologna 2024),
Giovanni Fiandaca, docente emerito di Diritto penale all’Università di Palermo
e già membro del Consiglio Superiore della Magistratura, dimostra di
appartenere alla seconda categoria. Dopo mezzo secolo speso nello studio e
nell’insegnamento del Diritto penale, avverte l’esigenza intellettuale ed
esistenziale di dare spazio a una domanda radicale: perché punire?
Nell’epoca
delle risposte sloganistiche, tanto più trancianti quanto meno meditate, egli
dedica la maggior parte del libro (non voluminoso, ma intenso) a restituire
l’ampio panorama delle teorie – antiche e contemporanee – della “pena”: e lo
fa, meritoriamente, con l’intento di astenersi “dal giuridichese e dai relativi
tecnicismi” e di “distillare il succo di innumerevoli discussioni dottrinali,
per offrire una sintesi che possa risultare di agevole comprensione e di
qualche interesse fuori dai recinti accademici” (p.72). Parlamentari che
esercitano il potere legislativo, magistrati che hanno la responsabilità di
applicare le norme ai casi concreti, genitori ed educatori inseriti nei più
svariati contesti pedagogici (anche ecclesiali), sarebbero dunque i destinatari
principali di queste pagine, scritte per chi non si adagia sul tradizionalismo
(rispetto al passato) né sul conformismo (rispetto al presente).
Alla
domanda sulle ragioni fondanti della punizione si sono date varie risposte,
catalogabili in tre principali prospettive: retributiva ( ogni male
inflitto a qualcuno esige, come “scambio compensativo”, un male proporzionato
da infliggere a chi ne è stato causa); preventiva (la punizione del reo
può prevenire in lui stesso la reiterazione dei reati e, più in generale, può
dissuadere gli altri dal commetterne); rieducativa o riabilitativa (la
punizione come metodo per innescare nel condannato dinamiche di autocritica e
di revisione del suo rapporto con la società).
Le
prime due teorizzazioni sono le più antiche e non sono state certo esenti da
critiche e sospetti: “la dimensione di sofferenza è ineliminabile dalla
sanzione punitiva per una qualche ragione davvero necessitante” (p.28), come si
sostiene in un’ottica retributiva? “Le ricerche empiriche sinora
disponibili” hanno fornito “riscontri certi e univoci circa l’attitudine preventiva
della minaccia e dell’applicazione delle pene” o nella pratica giudiziaria
quotidiana “ci si accontenta di una radicata e diffusa supposizione di senso
comune” secondo la quale “il timore di poter incorrere in una punizione riesca
– seppure col concorso di altri fattori – a dissuadere quantomeno alcune
persone dall’agire illecitamente” (p. 79) ?
Le obiezioni a questi due paradigmi hanno
indirizzato gli studiosi verso il terzo paradigma “rieducativo” o “riabilitativo”
che può considerarsi “una coerente proiezione, sul versante specifico dei
delitti e delle pene, della più generale ispirazione
personalistico-solidaristica che connota l’intero sistema costituzionale” (p.
91). In uno Stato laico, “la rieducazione è interpretabile non già come un
compito da imporre a ogni costo, bensì come un’offerta da parte dello Stato di
forme di ausilio e opportunità che richiede sempre la previa accettazione
volontaria dei destinatari; in mancanza di un’autonoma scelta di intraprendere
un percorso risocializzativo, la rieducazione scadrebbe da proposta od offerta in imposizione abusiva” (p. 98). Che
in questa ottica il carcere non sia l’istituzione più adatta è ormai
convinzione diffusa tra quanti lo frequentano a vario titolo. Ma Fiandaca,
anche in base alla sua esperienza di garante dei diritti dei detenuti per la
Sicilia (alla quale dedica nell’Epilogo delle pagine coraggiosamente
sincere), non può tacere “un paradosso: la consapevolezza che il carcere non
sia lo strumento migliore per (tentare di) rieducare è maturata abbastanza
presto; in verità, sin dai primi decenni dell’Ottocento (…) . Ciononostante, la
pena carceraria sopravvive e, a seconda delle contingenze, tende a espandersi”
(pp. 103 – 104). Alla radice di questo paradosso una scomoda verità: la
moltiplicazione di alternative alla detenzione carceraria, in funzione della
riabilitazione degli autori di reati, presupporrebbe “un contesto politico
adatto e un previo riorientamento culturale, una sorta di rieducazione
dell’intera società” (p. 115).
In
direzione di questo (auspicabile) mutamento di mentalità alcuni studiosi sono
alla ricerca di “nuove strade allo scopo di promuovere cambiamenti radicali in
tema di punizione. Emblematica di questo bisogno di rinnovamento è la
recentissima tendenza a recuperare e valorizzare il paradigma della
riparazione” (pp. 85 – 86) nel quale l’attenzione, sinora prevalente, sull’ “autore
del reato” (p. 128) viene bilanciata dalla preoccupazione di “dare voce alle
vittime dei reati e di esaudirne quanto più possibile le aspettative” (p. 129).
Quando la libertà del colpevole incontra la libertà della vittima (diretta o
indiretta) si apre lo spazio per sperimentare “modalità
riparatorio-conciliative” (p. 127) talora inedite, talaltra riportate alla luce
da tradizioni millenarie. Toccanti le
righe in cui Agnese Moro, figlia di Aldo, confida: “Nel mio caso la giustizia
penale ha fatto tutto quello che poteva fare. Ha individuato i colpevoli, li ha
processati e condannati a pene molto elevate. Seguendo la logica della giustizia
retributiva, io teoricamente dovrei stare bene (…). Si vive la tirannia del
dolore, che è come un urlo che non si può esprimere perché sei pieno di rabbia,
di odio, di impotenza (…). E’ stata quella decisione che mi ha dato uno spazio
quasi impercettibile per potermi guardare intorno e scorgere possibili sentieri
da imboccare. Quello di gran lunga più importante è stato quello della
giustizia riparativa” (pp. 144 – 145).
Fiandaca non sorvola sui limiti, di diritto e di fatto, di questo “modello di giustizia affascinante e assai promettente” i cui strumenti (come la “mediazione penale”) non possono considerarsi “bacchette magiche, rimedi miracolistici atti a curare tutti i mali che da tempo attribuiamo alla giustizia penale” (p. 140). Potrei aggiungere che si tratta di un modello che – al pari dell’approccio “nonviolento”, proposto da Gandhi a Capitini, con cui è imparentato – è esattamente l’opposto del “buonismo” rinunciatario: mira, infatti, a trascendere il piano (necessario, ma insufficiente) della legalità per osare la radicalità della creatività rigeneratrice. Obiettivo ambizioso sempre, ancor di più “quando sono al governo forze politiche di orientamento fortemente repressivo-securitario” (p. 177).
Augusto Cavadi
“Adista
/Segni nuovi”, 18.5.2024
1 commento:
Libro intrigante per ogni cittadino/a attento/a e soprattutto per chi si dice amico/a della nonviolenza e magari fa volontariato in carcere...Grazie della tua puntuale recensione.
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