Il cardinale Ernesto Ruffini e la mafia
siciliana: una questione aperta
Il cardinale Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo
dal 1945 al 1967 (anno della morte), è
stato certamente una delle figure più chiacchierate del mondo cattolico nel XX
secolo. Un presbitero palermitano, don Francesco Conigliaro, ne ha voluto
restituire un ritratto, per quanto possibile oggettivo, nel volume Sed
contra. Ruffini dice che la mafia esiste. Pagine sul Cardinale Ernesto Ruffini
Arcivescovo di Palermo, Carlo Saladino Editore, Palermo 2020. In questo
corposo saggio l’autore, pur senza tacerne alcuni limiti, si impegna a
difendere la memoria del vescovo da giudizi che ritiene ingiustamente
detrattori, dando riprova di due caratteristiche della sua personalità: una
senz’altro positiva, l’anticonformismo intellettuale; l’altra, meno
apprezzabile, la vis polemica.
Meriti del cardinale
Di Ruffini, Conigliaro
evoca la fede autentica e sincera; il forte pathos apostolico; la profeticamente
illuminata “carità sociale” che lo ha indotto a una serie considerevole di
iniziative volte a sradicare le cause profonde della povertà diffusa in diocesi
soprattutto nei due decenni immediatamente successivi al disastro della Seconda
guerra mondiale, in cui l’Italia era stata criminalmente coinvolta da Mussolini
e dai suoi complici.
Del fedele segretario
Longhi, l’autore di questa monografia riporta una testimonianza su qualche
aspetto privato del cardinale la cui immagine pubblica era, volutamente,
circonfusa del fasto a suo parere dovuto a un “principe” della Chiesa cattolica:
“Pochi, forse, conobbero la frugalità della sua mensa
quotidiana (<<Lo stomaco – affermava – è un monello da educare>>) e
la povertà di conforti della cameretta, la piccola alcova dello studio
personale. Soltanto dopo il menzionato incidente [nel 1960, in seguito ad una
caduta, si era spezzato il femore], che lo costrinse a letto, accettò una
camera accogliente con servizi normali. Non volle mai, per sé, né riscaldamento
né condizionatore d’aria” (p. 46).
Più rilevanti, ovviamente, le opere sociali progettate
e realizzate (in epoca – ricordiamo – in cui non esisteva il Servizio sanitario
nazionale per ogni cittadino e l’obbligo scolastico sino ai 14 anni era ampiamente
disatteso):
“a) Servizi di pronto
intervento (unificati nelle opere arcivescovili di assistenza): aiuto
economico, oratori arcivescovili, colonie estive, soccorso invernale, corsi
scolastici per adulti, assistenza lavoratori;
b) Contributo
all’avvio e allo sviluppo del servizio sociale: servizio sociale aziendale,
servizio sociale scolastico, servizio sociale rurale, servizio sociale in enti
pubblici;
c) Opere e servizio
socio-sanitari, educativo-promozionali: poliambulatorio, centri di servizio
sociale, Istituto “Angelo Custode”, Villaggio Cardinale Ruffini, Scuola
Superiore di Servizio Sociale <<Santa Silvia>>, scuole materne,
Villaggio dell’ospitalità, pensionati femminili, Casa della Gioia, Centro di
formazione professionale <<S. Giuseppe>>, Pensionato <<S.
Saverio>>, Casa della serenità, Casa della misericordia;
d) Collaborazione con
enti in altre città mediante il servizio sociale missionario: scuole di
servizio sociale, servizi sperimentali in alcune diocesi” (pp. 50 – 51).
La conclusione di
Conigliaro è davvero lusinghiera (soprattutto se si tiene presente il confronto
implicito tra Ruffini e il suo celebratissimo successore Salvatore Pappalardo):
“A mio sommesso parere, è stato il più grande arcivescovo palermitano del secolo
XX. Certamente il più santo, il più onesto, il più intelligente ed il più
colto” (p. 147).
Forse posso qui riferire,
a conforto di Conigliaro, un piccolo aneddoto autobiografico che conferma
l’umanità caratteriale del presule. Quando avevo cinque anni i miei genitori mi
accompagnarono in chiesa per una celebrazione con l’arcivescovo e, al momento
della distribuzione dell’eucarestia, mi incolonnai in fila per ricevere la mia
particola. Una suora se ne accorse e, alla fine della messa, chiamò i miei
genitori e li trascinò allarmata in sacrestia per informare il presule del
sacrilegio: non avevo ancora completato il corso di catechismo né mi ero mai confessato. Ruffini rispose con
un sorriso rassicurante: “E voi pensate che oggi abbia dato la comunione a
qualcuno più innocente di questo bambino?”
Limiti del cardinale
Qua e là l’autore richiama anche aspetti problematici
del suo amato personaggio: ad esempio una severità sproporzionata verso i
seminaristi, come quando sospese l’ordinazione diaconale dello stesso
Conigliaro minacciandolo di allontanamento definitivo perché, insieme ad altri,
si era permesso di andare, “ senza autorizzazione, a vedere, il film La
Bibbia di John Huston” (p. 9). (Un altro prete, mio docente di religione al
liceo, mi raccontò di essere stato, ancora seminarista, convocato da Ruffini
per essere duramente ammonito: il giovane non si era inginocchiato per strada
al passaggio dell’automobile cardinalizia preceduta come di solito da due
motociclisti delle Forze dell’ordine). Oppure la sua “ingenuità” che lo
induceva
“a valutare positivamente ciò che per
principio non poteva non essere positivo. Ecco perché per lui era impensabile
che uomini di Chiesa, chiamati a vivere come discepoli del Signore, potessero
essere compromessi con la mafia, che si macchiava di crimini efferati, e non
dubitava mai degli uomini delle istituzioni, dei quali dimostrava sempre di
avere un alto concetto” (pp. 6 – 7),
tranne quando questi uomini – “e qui ingenuità si
aggiungeva ad ingenuità” (p. 7) – si dimostravano poco combattivi contro “le
forze politiche di sinistra”: il suo
“anticomunismo deciso” (ivi) impedì qualsiasi rinnovamento nella composizione
delle giunte di governo regionale, contribuendo involontariamente al degrado
etico della Democrazia Cristiana, troppo sicura di ottenere comunque la
maggioranza dei voti ad ogni elezione. (Conigliaro avrebbe potuto aggiungere
che il cardinale in campagna elettorale invitava per iscritto preti, suore e
fedeli a votare per il “partito cattolico” ed anzi chiamò dalla Lombardia il
figlio di un fratello, Attilio Ruffini, che costruì proprio a Palermo una
rapida carriera politica sino ai vertici del governo nazionale, conclusasi in
maniera brusca e assai poco limpida). In una nota a piè di pagina Conigliaro
afferma che
“non si riesce
a capire la ragione per cui lo stesso cardinale, che per il seminario diocesano
s’impegnò al massimo delle possibilità e dei mezzi di cui disponeva sia per
l’edilizia che per la qualità della vita dei seminaristi, nel settore degli
studi consentì il porsi di un processo continuo di degradazione, soprattutto a
motivo della graduale dequalificazione dei docenti (ci furono professori
improvvisati anche nel corso teologico) e della totale incuria della biblioteca
(quella esistente, a motivo di un irragionevole smembramento, fu resa
inutilizzabile e non fu aggiornata)” (p. 53).
Qui è Conigliaro stesso a peccare d’ingenuità come il
suo amato arcivescovo: Ruffini era un testardo conservatore in teologia (mons.
Emanuele Parrino ci raccontò di essere stato chiamato in curia dove il presule,
appena tornato da Roma dopo l’approvazione della Costituzione conciliare Dei
Verbum, tra le lacrime, gli confidava l’angoscia per la protestantizzazione
della Chiesa cattolica sul tema del rapporto tra Bibbia e Tradizione: “I miei
confratelli vescovi hanno distrutto la Chiesa !”); sapeva benissimo quali
sommovimenti erano in atto nella Chiesa ad opera dei biblisti e dei
“sistematici” più esperti (egli stesso era stato docente di Scienze bibliche a
Roma); dunque non poteva fare spazio ai novatores né in carne ed ossa né
attraverso le loro pubblicazioni. Si capisce benissimo perché consentisse
d’insegnare solo a chi era disposto pappagallescamente a trasmettere la
“dogmatica” ottocentesca (talora per mancanza di coraggio, talora per ambizione
di carriera, talaltra proprio perché in buona fede convinto che l’impalcatura
concettuale edificata dal Medioevo al XX secolo fosse ben fondata sulle
Scritture e sulla ragione naturale) e perché vietasse di acquistare libri che
potessero contribuire a quell’ “aggiornamento” che Ruffini avrebbe
pervicacemente contrastato nel corso del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962 –
1965). In questa logica censoria rientrava il divieto per gli aspiranti al
sacerdozio di acquisire anche titoli accademici rilasciati da università
statali , divieto di cui lo stesso Conigliaro dichiara di essere stato vittima
(cfr. p. 8): il prete ruffiniano non doveva essere troppo informato di ciò che
accadeva nella cultura “laica” né tanto meno possedere una laurea ‘civile’ che,
in caso di “pentimento”, gli consentisse un lavoro fuori dalle strutture
ecclesiastiche. Più in generale, il cardinale interpretava in maniera
paternalistica il suo ruolo di “pastore” sul presupposto che i fedeli fossero
troppo ignoranti e immaturi per regolarsi da sé: anche se Conigliaro non ha
modo di ricordarlo, la diocesi di Palermo era forse l’unica al mondo in cui si
incorresse nella scomunica latae sententiae (per intenderci: automatica,
senza bisogno che qualche autorità gerarchica la comminasse esplicitamente ad
personam) se si entrava in un tempio valdese o anglicano, anche solo per
ragioni turistiche e senza assistere a nessun culto “ereticale”. Né Ruffini
mostrava particolare fiducia nei suoi più stretti collaboratori. Celebre il
breve discorso in cui egli diede l’annunzio della nomina del suo vescovo
ausiliario, mons. Filippo Aglialoro (discorso a braccio che mi è stato riferito
da uno dei preti presenti):
“Oggi L’Osservatore
Romano dà notizia della nomina, da parte del Santo Padre, di monsignor
Aglialoro a vescovo ausiliario di Palermo. Di lui tutto si può dire tranne che
non sia obbediente. Si potrebbe obiettare che le sue condizioni di salute non
siano eccellenti, ma non dovrà lavorare molto: l’abbiamo scelto a ornamento dell’arcidiocesi”.
Conigliaro riporta una serie di citazioni che
attesterebbero una sorta di conversione finale di Ruffini alle conclusioni del
Concilio ecumenico Vaticano II (pp. 231 – 234): se tale conversione è davvero
avvenuta, non posso che rallegrarmi per la buonanima del presule. Ma senza
trascurare che sarebbe avvenuta soltanto a circa un anno dalla sua morte
improvvisa per infarto subito dopo aver deposto la scheda in occasione di elezioni amministrative. Se è
vero l’aneddoto che circolò allora – una battuta confidenziale di Paolo VI
rattristato per la resistenza anticonciliare di Ruffini e del suo amico
Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova: “Sapete se ci saranno anche in Liguria
delle elezioni amministrative nell’immediato futuro?” – la notizia della
tardiva conversione del “tradizionalista” Ruffini non dovette arrivare
tempestivamente in Vaticano.
Ruffini ha negato l’esistenza della mafia?
Il cuore del volume, come annunziato già nel
sottotitolo (Ruffini dice che la mafia esiste), è costituito dalla
decostruzione di due asserzioni comunemente e falsamente attribuite al
cardinale lombardo: che “la mafia non esiste” e che essa è piuttosto
“invenzione del socialcomunisti” (p. 139). Questa accusa si basa su un’esegesi
tendenziosa di una lettera di Ruffini, in risposta a monsignor Angelo
Dell’Acqua che, dopo la strage di Ciaculli (1963), a nome del papa Paolo VI,
aveva lodato un’iniziativa del pastore valdese Pier Valdo Panascia e
sollecitato l’arcivescovo di Palermo a
promuovere “un’azione positiva e sistematica […] per dissociare la mentalità
della cosiddetta ‘mafia’ da quella religiosa” (p. 138). In questa risposta alla
Segreteria di Stato vaticana, Ruffini aveva letteralmente scritto:
“Mi sorprende alquanto che si possa supporre che la
mentalità della cosiddetta mafia sia associata a quella religiosa. E’ una
supposizione calunniosa messa in giro, specialmente fuori dall’isola di
Sicilia, dai socialcomunisti, i quali accusano la Democrazia Cristiana di
essere appoggiata dalla mafia” (p.139).
Conigliaro
contesta la “ermeneutica antiruffiniana” (p. 139) di queste righe che
opera “un duplice massacro: quello del
testo della lettera e quello della persona di Ruffini” (p. 140). Egli cita in
proposito una lunga serie di intellettuali che, come una valanga, si sarebbero
sommati avviluppandosi l’un dopo l’altro in questa accusa di “negazionismo”: padre
Ennio Pintacuda (pp. 141 – 142), Antonio Roccuzzo (pp. 142 – 144), Roberto
Scarpinato (pp. 145 – 146), Enzo Biagi (pp. 146 – 148), Luciano Mirone (p.
148), padre Nino Fasullo (pp. 148 – 155, 177 – 180, 190 – 193, 225 – 226ò), don
Rosario Giué (pp. 155 – 159, 180 – 182, 189 – 190, 211-214, 217 – 222, 228 - 237),
Saverio Lodato (p. 156), Nino Alongi (pp. 182 - 183), mons. Domenico Mogavero
(pp. 171 – 172). Don Francesco Michele Stabile è l’interlocutore principale del
libro di Conigliaro, dalla prima all’ultima pagina: sarebbe “caposcuola” (p.
189) dell’ermeneutica “antiruffiniana” , ma non responsabile delle
esasperazioni interpretative che gli studiosi successivi avrebbero tratto dalla
sua ricerca storiografica.
A
parere di Conigliaro – e mi pare che qui difficilmente gli si possa dar torto –
nel passaggio appena citato della lettera a Dall’Acqua, Ruffini non ha negato
l’esistenza della mafia, ma l’esistenza di un collegamento fra mafia e
mentalità religiosa; inoltre ha accusato i socialcomunisti di aver inventato
non la mafia, ma il collegamento della mafia con il partito cattolico, la
Democrazia Cristiana.
Ciò
precisato, dal punto di vista per così dire filologico-esegetico, Conigliaro
ammette onestamente che comunque le opinioni del compianto arcivescovo non
siano condivisibili. Infatti egli, ragionando in maniera astratta, era convinto
che “tra autentica mentalità religioso-cristiana e mentalità mafiosa non è
pensabile alcuna associazione” (p. 140) e, “applicando la propria ingenua
logica deduttiva, escludeva che tra cristiani (nella mentalità, nella Chiesa e
nella politica) e mafia ci potessero essere complicità” (pp. 140 – 141). Su
questo tema “l’analisi storica ha dato torto a Ruffini” (p. 140) : “aveva
torto, ma tutto ciò che a questo proposito gli si può rimproverare è, oltre
l’ingenuità, la sottovalutazione della mafia, delle sue attitudini e delle sue
possibilità” (p. 141). Veramente a Ruffini si potrebbe rimproverare un’altra
cecità (ma questa comune a molti papi, vescovi e teologi, Conigliaro incluso):
che se il nucleo originario dell’evangelo cristiano è davvero
incompatibile con una mentalità mafiosa, non altrettanto incompatibile con
questa lo è il complesso dogmatico, etico, simbolico, giuridico, linguistico costituito
dal cattolicesimo mediterraneo (intriso di antropomorfismo teologico,
patriarcato, gerontocrazia, familismo, misoginia, sessuofobia e molto altro)[1].
Ruffini non ha negato , insomma, l’esistenza della
mafia. E mi pare prezioso il riferimento ad una intervista, che non
conoscevo, in cui lo stesso Ruffini - 4
anni prima allo scambio di lettere con Roma – dichiara a F. Rosso de La
Stampa di Torino:
“ Qui abbiamo
problemi enormi da risolvere, pensi a cosa è la mafia, alla sua rete di
delitti. Già i mezzi per combatterla sono insufficienti e come se non bastasse
arriva una nuova amnistia. Faccia il calcolo di quante amnistie sono state
concesse dalla fine della guerra, una ogni due anni” (p. 155).
Ha parlato della mafia, ma in termini riduttivi, come
mero fenomeno delinquenziale di ordine pubblico. E’ vero che in questo
condivideva l’opinio communis attestata perfino dai magistrati siciliani
nei loro interventi pubblici, ma Conigliaro deve ammettere che il Parlamento
aveva varato una Commissione antimafia (di cui Ruffini mette in evidenza, per
criticarla, il “carattere marcatamente politico”, p. 157) e che il quotidiano L’Ora
del tempo divulgava un’idea più ampia di mafia come soggetto non solo militare,
ma anche economico, politico e culturale. Potremmo aggiungere che questa
visione più articolata del sistema mafioso era stata offerta a chi avesse avuto
sincera volontà di capire già dal liberale Franchetti nel 1876 nella sua
relazione su Le condizioni sociali e
amministrative della Sicilia e, in
tempi più vicini a Ruffini, da intellettuali come Mario Mineo, Michele
Pantaleone, Leonardo Sciascia ed altri (tra cui Danilo Dolci su cui torneremo
fra breve). Di queste voci ‘profetiche’ non mi pare tengano conto i
commentatori di ogni orientamento, i quali convergono univocamente nella
considerazione (attenuante) che “l’approccio ruffiniano a quell’epoca era
quello stesso dei procuratori della repubblica di Palermo e, si può aggiungere,
dei prefetti, dei questori e dei generali dell’arma dei carabinieri” (pp. 201 –
202). Ruffini, condizionato dalla
presunzione di essere esponente apicale di una Chiesa docente in nome e per
conto dello Spirito Santo, non ebbe nessun desiderio di imparare da fonti
“laiche” competenti come, in quegli stessi anni, molti dei suoi confratelli
riuniti in concilio al Vaticano raccomandano ai fedeli per decifrare le
problematiche storico-sociali. Secondo
Conigliaro, sarebbe persino eccessivo affermare che Ruffini si sia preoccupato
di tenersi lontano dalle “tesi proprie della sinistra”:
“Tenendo conto
del tipo che era Ruffini e dell’idea che aveva di quelli che egli chiamava
socialcomunisti, escludo che ciò possa essere accaduto consapevolmente: credo
di poter sostenere che non ha neppure preso in considerazione quelle tesi” (p.
163).
Si potrebbe notare che Ruffini non ha avuto orecchie
neppure per le rare voci del mondo cattolico che mostravano di intuire le reali
dimensioni del sistema di dominio mafioso, come il vescovo di Agrigento G.B.
Peruzzo (cfr. pp. 133 -135) e don Luigi Sturzo (di cui neppure Conigliaro
ricorda il testo teatrale Mafia).
L’autore di questo volume ricorre a una Lettera
pastorale di Ruffini, di nove mesi successiva all’infelice risposta a
monsignor Dall’Acqua, intitolata Il vero volto della Sicilia (1964) ,
per rafforzare la sua tesi: Ruffini non solo ha parlato della mafia, ma ne ha
parlato in termini storico-sociologicamente aggiornati. Infatti, dopo aver
redatto le famigerate frasi
“In questi ultimi tempi si direbbe che è stata
organizzata una grave congiura per disonorare la Sicilia: e tre sono i fattori
che maggiormente vi hanno contribuito: la mafia, il Gattopardo, Danilo Dolci”
(p. 168),
- frasi
nelle quali, incredibilmente, la malattia (la mafia) viene equiparata per
pericolosità al medico (Danilo Dolci) - recependo le
analisi di G.G. Loschiavo in 100 anni di mafia (Roma 1962), egli scrive:
“Qui è necessario richiamare le
condizioni dell’agricoltura nella Sicilia Centrale e Occidentale di quei tempi
[la seconda metà dell’Ottocento]. Venuta meno la difesa che proveniva
dall’organizzazione feudale e infiacchitosi il potere politico, i latifondi
ebbero bisogno di assoldare squadre di picciotti e di poveri agricoltori per
assicurare il possesso delle loro estese proprietà. Si venne così a costituire
uno Stato nello Stato, e il passo alla criminalità, per istinto di
sopraffazione e di prevalenza, fu molto breve. Tale può ritenersi, in sostanza,
l’origine della mafia contemporanea” (p. 169).
Dunque sino a quando i feudatari, in
barba a tutti i provvedimenti costituzionali che dal 1812 in poi avevano
abolito il feudalesimo, si fanno un esercito privato per impedire ai contadini
di diventare proprietari delle terre che coltivano da secoli in condizioni
peggiori della schiavitù, per Sua Eminenza (e per il suo generoso apologeta
Conigliaro) saremmo nella legalità. Il “passo alla criminalità” sarebbe stato compiuto
quando questo esercito privato decide di emanciparsi dalla sudditanza nei
confronti dell’aristocrazia feudale e, “per istinto di sopraffazione e di
prevalenza” (!), di esercitare in proprio la violenza. Della tragedia dei Fasci
siciliani nell’ultimo decennio del XIX secolo non c’è neppure una labile
traccia. Direi per fortuna, perché temo che nella mentalità spaventosamente
medievale di Ruffini la repressione dei contadini in rivolta, per il diritto
elementare di non morire di fame e di non vedersi sottrarre totalmente il
frutto del proprio sudore, operata congiuntamente dall’esercito e dai mafiosi,
sarebbe stata esaltata come un ritorno dalla “criminalità” alla legalità del
possesso nobiliare dei latifondi. Neanche una linea neppure sulle numerose
stragi politico-mafiose del Secondo dopoguerra di cui Portella della Ginestra
(1947) è solo la punta più eclatante. Molto opportunamente don Stabile nota che
il tentativo di Ruffini di incrementare l’impegno civile dei cattolici
“rimase circoscritto alla lotta anticomunista
e a una solidarietà che rimaneva sul piano del servizio sociale e assistenziale
e non arrivava alla rivendicazione sociale della terra (come invece avrebbe
voluto mons. Peruzzo, vescovo di Agrigento), perché la riforma della proprietà
fondiaria avrebbe potuto spezzare il fronte anticomunista con le destre” (pp.
204 – 205).
In (provvisoria) conclusione
Per dirimere la questione
se Ruffini abbia negato o meno la mafia bisognerebbe accordarsi,
preliminarmente, su una questione lessicale. Se per mafia intendiamo, come
intende Ruffini, una delle tante forme di criminalità operanti da sempre (e
direi per sempre) in tutte le aree del pianeta, Ruffini non ne ha negato
l’esistenza. Anzi, l’ha stigmatizzata ripetutamente. Se, invece, con lo stesso
termine indichiamo un soggetto militare, economico, politico e culturale
costituito da “una sparuta minoranza” di siciliani che contano sulla complicità
di una molto più consistente minoranza (Tommaso Buscetta sosteneva che i circa
5.000 “uomini d’onore” delle “famiglie” mafiose potessero contare su circa un
milione di siciliani di ogni strato sociale, dunque su un quinto della
popolazione complessiva dell’Isola), Ruffini ne ha negato l’esistenza. E’
davvero stupefacente sostenere ai nostri giorni, come fa don Conigliaro, che “
Ruffini ha parlato della mafia e ne ha colto perfettamente la natura” (p. 192)
e che, “se si vuole continuare a parlare di sottovalutazione della mafia anche
a proposito della lettera pastorale di quest’anno [1964], è necessario
precisare che essa rimane a livello pastorale-pratico, ma non più a livello
teorico” (p. 194).
Se Ruffini abbia negato il vero volto della mafia per dolo o
in buona fede è un’altra questione che va distinta dalla prima (e che,
pertinendo alla sfera della coscienza individuale e delle intenzioni
soggettive, è forse impossibile dirimere).
E se in questa negazione (o
intenzionale o inconsapevole) sia stato preceduto, affiancato e seguito da una
pletora di studiosi, di magistrati, di politici, di insegnanti, di preti è
un’altra questione ancora: se errore ci fu, le attenuanti non lo azzerano.
La necessità epistemica di distinguere queste tre questioni è quanto ho ricavato, alla fin dei conti, dalla lettura del libro di Conigliaro. E potrebbe essere un istruttivo punto di (ri)partenza per quanti in futuro vorranno occuparsi della vicenda.
Augusto Cavadi
* Chi volesse vedere questo articolo nella versione illustrata può entrare con un click dentro il bimestrale (scaricabile gratuitamente) "Dialoghi mediterranei" (che contiene molti contributi interessanti a firma di vari autori):
[1] Cfr. A. Cavadi, Il Dio dei mafiosi, San Paolo, Milano 2009 e il saggio Una chiave di lettura complessiva contenuto nel volume da me curato Il Vangelo e la lupara. Documenti e studi su Chiese e mafie, Di Girolamo, Trapani 2019, pp. 9 – 58. Per entrambi gli scritti sono debitore agli spunti ‘pionieristici’ di don Cosimo Scordato nel suo Abbozzo di una riflessione teologica 'cattolica', originariamente ospitato con il titolo Chiesa e mafia sulla rivista "Il Regno-attualità" (1992,37), poi ripubblicato nella mia raccolta Il Vangelo e la lupara. Materiali su Chiese e mafia, vol. I (Storia. Teologia. Pastorale), Edizioni Dehoniane, Bologna 1994, pp. 157 - 162. .
1 commento:
Una disamina davvero preziosa. Grazie, Augusto.
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