Negli ultimi tre millenni almeno il Mediterraneo si è presentato ambivalentemente come crocevia di sapienze, ma anche di conflitti. Le cronache incredibilmente dolorose di questi giorni lo confermano. Cosa possono fare le Chiese cristiane in generale e la Chiesa cattolica in particolare?
Con
Edgar Morin direi, innanzitutto, che ogni riforma seria parte da una revisione
del pensiero. Ho curato nel 2019 l’edizione italiana di un suo breve, ma
intenso testo (Pensare il mediterraneo, mediterraneizzare il pensiero), di cui non saprei restituire i finissimi
ricami intellettuali. In sintesi un po’
brutale si potrebbe dire che occorre da una parte conoscere il Mediterraneo,
la storia delle sue civiltà antiche, delle sue religioni tuttora perduranti,
delle sue tensioni politiche e socio-economiche attuali; ma, dall’altra,
lasciare modificare dal Mediterraneo la propria mente, la propria postura intellettuale. Che, tra
molto altro, significa consentire alla pluralità dei punti di vista di impedire
l’irrigidimento dei fondamentalismi esclusivisti ed escludenti; di imparare che
“relatività” non è “relativismo” perché, se ritengo inaccettabile ogni
assolutizzazione, non posso assolutizzare neppure il principio di relatività.
Ma – la domanda s’impone – nelle scuole
cattoliche, nelle facoltà cattoliche, nelle associazioni cattoliche, nelle
parrocchie vi è questa conoscenza elementare del contesto geo-culturale
in cui ci è capitato di nascere? Che sappiamo della sapienza greca,
dell’ebraismo, dell’islamismo (ammesso che sappiamo qualcosa del
cristianesimo)? E, soprattutto, vi è la
consapevolezza che essere cristiani non
significa possedere in maniera totale la verità sull’uomo, sulla storia,
sull’universo? Se non vogliamo trastullarci con giochi di prestigio non
possiamo negare che la fede monoteista, che si ritiene che rivelata in
Scritture sacre, costituisce un grave rischio: chi è convinto di avere il
monopolio del Divino difficilmente tollera concorrenti e, ancora meno, si pone
in ascolto per ricevere da altri correzioni e integrazioni.
L’autocritica
intellettuale in ambito cattolico può considerarsi a buon punto solo quando si
perviene alla conclusione che la ricerca della verità teoretica è
irrinunciabile nell’esperienza antropologica, ma che in questa ricerca il
vangelo non ci può essere di particolare soccorso. Esso, infatti, racconta la
vicenda straordinaria di un predicatore nomade palestinese che non era un
intellettuale, bensì un testimone. Un maestro di vita, di azione, di
atteggiamento rispetto all’umanità e alla natura: la sua filosofia, più che
amore per la sapienza (in senso greco), era sapienza dell’amore (in senso
ebraico). Il tentativo rivoluzionario di papa Francesco – che gli attira non
per caso gli strali più feroci da parte di preti e fedeli sedicenti
conservatori – è proprio questa conversione di registro: ricordare che il
cristianesimo non è nato come ortodossia di una scuola, ma come ortoprassi di
un movimento religioso e sociale. Qualcuno ha detto acutamente che la prima
vera enciclica di papa Bergoglio non è stata la Lumen fidei del 2013 che
Benedetto XVI aveva redatto in gran parte e aveva lasciato per così dire in
eredità da firmare, bensì il suo viaggio a Lampedusa. Se questa torsione dal
primato della teoria al primato della pratica fosse evangelicamente fondata, si
imporrebbe un’altra domanda: cosa stanno facendo i credenti per dare un proprio
contributo ai terremoti costituiti dai flussi migratori in corso? Periodici
giornalistici di chiaro orientamento partitico, ignari di fare buona
pubblicità, hanno accusato alcuni
vescovi di finanziare delle ONG dedite al salvataggio di migranti in mare e, da
varie fonti ufficiali, si sa dei canali “umanitari” di immigrazione legale
attivati in sinergia da associazioni cattoliche come Sant’Egidio e alcune Chiese
riformate: ma le centinaia, anzi migliaia, di parrocchie, conventi ormai in
disuso o trasformati in alberghi, seminari vescovili occupati da giovani in numero
decrescente…perché non accolgono stabilmente degli immigrati, anche
impiegandoli in dignitose attività remunerate? Sarebbe una strategia efficace
materialmente e, almeno altrettanto, simbolicamente.
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