E. Putz, Franz Jägerstätter. Un fulgido esempio in tempi bui, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2023,
pp. 209, euro 16,90
In tutti i periodi bellici – e purtroppo a ottant’anni dalla
fine della II Guerra mondiale sul pianeta non ci sono stati ancora periodi non
bellici – la maggioranza della popolazione ritiene ovvio (non solo più comodo,
ma perfino più giusto moralmente) adeguarsi alle decisioni dei rispettivi
governi in carica e imbracciare le armi. Solo sparute minoranze, prima di
obbedire agli ordini, ritengono lecito – anzi, doveroso – pensare. E giudicare
se la guerra a cui dovrebbero partecipare sia una guerra di difesa da invasori
ingiusti (e, in questa ipotesi, se la difesa armata sia la più efficace) oppure una guerra aggressiva, scatenata per
motivi imperialistici.
Anche durante il nazifascismo tedesco (1933 – 1945) la
maggioranza della popolazione accettò come sacrosanta la politica di Hitler e
dei suoi sadici collaboratori e solo una piccola, ma significativa, minoranza
espresse un rifiuto netto e argomentato. Fra questi obiettori di coscienza
rientra il contadino austriaco Franz Jägerstätter (1907 – 1943) che, benché marito
innamorato e padre affettuosissimo di tre bambine, a soli 36 anni accettò la
ghigliottina pur di non tradire la sua coscienza civile (di austriaco) e
religiosa (di cattolico). Lo scrivono gli stessi giudici della sentenza di
condanna a morte: “Era giunto alla convinzione che, come cattolico credente,
non potesse prestare servizio militare: non poteva essere contemporaneamente
nazionalsocialista e cattolico: ciò era impossibile” (p. 177).
Questa motivazione teologica, che alle orecchie di molti di
noi contemporanei potrebbe suonare laudativa, nell’intenzione dei magistrati
meritava di essere sottolineata in quanto aggravante che legittimava
l’indifferibilità della pena capitale: infatti, dal momento che la maggioranza
degli austriaci si dichiarava cattolica, la decisione di Jägerstätter si sarebbe potuta rivelare
pericolosamente contagiosa. Il renitente alla leva (per quanto disposto a prestare servizio nei
settori sanitari), già isolato dalla maggioranza dell’episcopato, del clero e
dei correligionari della sua nazione, andava stroncato al più presto. La
strategia sembrò ottenere risultati talmente efficaci che, ancora per decenni
dopo la fine del conflitto mondiale, la Chiesa cattolica (austriaca, ma non
solo) si adopererò per evitare che la vicenda del suo eroico figliolo venisse
conosciuta. Prevalse il timore (fondato!) che “i reduci di guerra avrebbero
domandato perché mai la Chiesa non avesse detto loro in tempo che i veri eroi
sono coloro che non combattono” (p. 167). Si sarebbe dovuto fare apertamente
autocritica, chiedere perdono per un atteggiamento talmente cauto da rivelarsi
pavido; ma, “chiaramente, non si voleva perdere la faccia in questo modo”
(ivi). Fu necessario, dopo un travagliato iter, attendere la messa per il 40°
anniversario dell’assassinio di Jägerstätter (1983) perché il nuovo vescovo
della sua diocesi di appartenenza (Linz) lo presentasse come “un autentico esempio di vita cristiana
e questa volta senza più tentennamenti né riserve” (p. 171). Solo nel 2007 la
Congregazione vaticana delle cause dei santi riconoscerà il martirio di Franz,
“aprendo così la strada alla beatificazione” (p. 172), celebrata nello stesso
anno. La sua testimonianza, nella misura in cui non viene relegata a vicenda
eccezionale di un credente illuminato da ammirare più che da imitare (come
sostenne il vescovo Fließer, p. 162), “ pone in crisi” – come
scrive, nella sua incisiva Postfazione, Sergio Tanzarella – “qualsiasi giustificazione
dell’area grigia della società che, allora come ora, non partecipa al male ma
lo permette restando semplicemente anonima spettatrice” (p. 193).
Tra le numerose sollecitazioni che questa storia affascinante
suscita in noi credenti del XXI secolo vorrei sottolinearne una. Franz Jägerstätter è stato sostenuto da una fede
forte, essenziale, ma tutta interna a un orizzonte cattolico tradizionale (oggi
diremmo ‘religionale’ e ‘teistico’): nei momenti di sconforto, egli si aggrappa
alla certezza di un giudizio immediato di Dio subito dopo la morte; all’idea di
incontrare Gesù risuscitato e la sua Madre; alla interpretazione letterale dei
moniti evangelici di preferire la volontà di Dio ai legami familiari più cari
in questo mondo…Che faremmo oggi, al suo posto, noi credenti che, per amore
della verità (per quanto sinora accessibile), abbiamo dovuto rinunziare al
conforto di una “religione” che prescrive, sin nei minimi dettagli, ciò che è
giusto e ciò che è sbagliato in questa vita e che anticipa, “infallibilmente”,
cosa ci attende dopo il nostro decesso biologico? Troveremo, anche in uno
scenario ‘de-mitizzato’, le ragioni e la forza esistenziale per opporci
all’Ingiustizia? Sarà una sfida impegnativa. Potremo rimpiangere le fasi della
nostra vita in cui – come per il contadino austriaco – nessuna sofferenza
veniva considerata vana dal momento che Dio stesso la conservava nella sua
infinita memoria a nostro credito; ma ci potrà consolare della perdita
dell’antropomorfizzazione del Divino l’idea che, forse, proprio questa perdita
ci avvicina al Gesù della storia: lo stesso che ha sudato sangue nell’orto e ha
urlato sulla croce l’angoscia dell’abbandono. Il rinnovato senso del Mistero ci
priva di preziosi supporti psicologici e di ambigue illusioni trionfalistiche,
costringendoci a seguire i dettami della coscienza ‘laicamente’, senza né
promesse di paradisi né minacce di inferni. Una coerenza di questo genere sarà meno
protetta dalle garanzie della “religione”, ma animata da una “fede” più
autentica perché più ardua.
Augusto Cavadi
“Viottoli”, 2023 /2
1 commento:
Grazie.
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