2023-2024: tra guerre e fascismo incombente, non essere ciechi al futuro
TOMASO MONTANARI - volerelaluna.it -
29/12/2023
Sull’orlo
di questo anno terribile che si chiude, mentre se ne apre un altro che si
annuncia non meno tremendo, penso che almeno questo dobbiamo impararlo: non
dobbiamo distogliere lo sguardo dalla realtà. «Al futuro siamo ciechi, non meno dei nostri padri»
Mai come in questi
ultimi mesi ho sentito acuta
la tentazione di una fuga nella vita privata, e nello studio: la
tentazione del silenzio. Perché di fronte al dilagare sanguinoso della guerra in nome dei “valori dell’Occidente”, di fronte al fascismo di nuovo trionfante, di fronte a un senso
comune che pare aver irrimediabilmente divorziato dal buon senso, si ha l’impressione che davvero tutto, e anche e soprattutto
la parola, sia vano. Ma è una tentazione alla quale bisogna resistere. Pensando a chi, prima di noi, è passato,
anche personalmente, attraverso ben altre prove. E pensando a chi, dopo di noi, ha il diritto di ascoltare parole di verità,
e di vita. In questo senso, il passaggio simbolico tra un anno che si chiude e uno che si apre appare fecondo di significati, e di impegni: è il momento in cui riannodare il filo che lega passato e futuro.
Un filo di consapevolezza e di lettura
del mondo. Un esercizio di discernimento, che
possa aiutarci a prendere coscienza intera dell’inferno dei viventi che ci si spalanca
davanti, e quindi a «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare,
e dargli spazio»
(così, notoriamente, il Marco Polo
delle Città invisibili di Italo
Calvino).
Nella sua Lettera ai
giudici (che è un giudizio sulla guerra fondato sulla Costituzione, e sul Vangelo), don Lorenzo Milani scrive che «la scuola siede tra il passato e il futuro, e deve averli presenti entrambi». In queste ore, tutti noi sediamo tra passato e futuro, tra un anno finito e uno da iniziare: come Giano, dio delle soglie, abbiamo un volto rivolto al passato e uno al futuro, e riusciamo per qualche tempo a vederli entrambi. Questa è la scuola che dobbiamo frequentare: la scuola di un passato che ci aiuti a costruire un futuro diverso.
Così, ho ripreso in mano un libro che da troppo tempo non rileggevo, e che è stato
pubblicato quando avevo
quindici anni, la stessa età che ha oggi mio figlio minore:
I sommersi e i salvati, di Primo Levi (1986).
In questo cannocchiale prospettico sento un uomo della generazione dei miei nonni che parla a me, per essere inteso dai miei figli. Un uomo che parla a fatica,
sapendo di essere poco ascoltato e temendo di non essere
inteso: «L’esperienza di cui siamo portatori noi superstiti dei Lager nazisti è estranea
alle nuove generazioni dell’Occidente, e sempre più estranea si va facendo a mano a mano che passano
gli anni. […] Si affaccia all’età adulta una generazione scettica, priva
non di ideali ma di certezze,
anzi, diffidente delle grandi verità rivelate; disposta invece
ad accettare le verità piccole, mutevoli di mese in mese sull’onda convulsa delle mode culturali,
pilotate o selvagge». Levi non era pessimista, era realista: l’arrivo al potere
della mia generazione, dei nati tra la metà degli anni Sessanta e l’inizio
degli anni Ottanta, ha significato il definitivo distacco dall’esperienza e dall’eredità morale della generazione della
guerra e dei lager. Con noi – lo dico con vergogna, e con dolore
– sono tornati il fascismo e la guerra. E ora ci interroghiamo con angoscia sul futuro che prepariamo
ai nostri figli.
Rileggere Levi oggi significa
ritrovare argomenti, forza e lucidità
per ricominciare a leggere
in pubblico i segni di questi nostri tempi, per denunciare pubblicamente un futuro nerissimo prima che possa essere troppo tardi per
fermarlo. Quando oggi qualcuno tenta di dire, nel discorso pubblico, che il fascismo può tornare a governare
l’Europa, che la guerra può
tornare a straziare le nostre città
e i nostri corpi; quando qualcuno prova a indicare i
sintomi premonitori del male che torna, la reazione prevalente è di screditarlo come una cassandra (dimenticando che Cassandra diceva il
vero). Si risponde
che il passato è incommensurabile al presente; che la democrazia è
solida; che parlare
di fascismo non crea consenso, o simpatia; che abbiamo a che fare con buffoni,
non con boia; che la guerra qui è impensabile; che l’atomica mai sarà
usata… e così via.
Ecco,
rileggiamo allora Levi: «Dobbiamo essere ascoltati: al di sopra delle nostre
esperienze individuali, siamo stati collettivamente testimoni di un evento fondamentale ed inaspettato, fondamentale appunto perché inaspettato, non previsto
da nessuno. È avvenuto contro ogni previsione; è avvenuto in Europa; incredibilmente,
è avvenuto che un intero popolo civile,
appena uscito dalla fervida fioritura culturale di Weimar, seguisse
un istrione la cui figura oggi muove al riso; eppure Adolf Hitler è stato obbedito
ed osannato fino alla catastrofe. È avvenuto, quindi può accadere di nuovo:
questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire. Può accadere, e dappertutto». Queste
parole del 1986, non vi sembrano
oggi più sinistre e minacciose? In un mondo che ha conosciuto Trump alla Casa Bianca e Putin al Cremlino, che vede Israele
sull’orlo di commettere
un genocidio, che vede l’Italia in mano a un partito di matrice fascista, che vede
l’Europa dominata dalla xenofobia e da destre estreme, queste parole di quarant’anni
fa non vi paiono ancora più terribilmente profetiche? «Pochi paesi – continuava Levi – possono
essere garantiti immuni
da una futura marea di violenza,
generata da intolleranza, da libidine
di potere, da ragioni economiche, da fanatismo religioso
o politico, da attriti razziali. Occorre quindi affinare i nostri sensi, diffidare dai profeti,
dagli incantatori, da quelli che dicono e scrivono “belle parole” non sostenute
da buone ragioni». L’argomento, tanto speso
anche nei media
italiani, che qualcuno avrà pur votato i nuovi fascisti
giunti al governo nei vari paesi, il nostro compreso, non è certo un’attenuante, semmai un’aggravante: «Sia ben chiaro
– è ancora Levi – che
responsabili, in grado maggiore o minore, erano tutti, ma dev’essere altrettanto chiaro che dietro la loro responsabilità sta quella della grande maggioranza dei tedeschi, che hanno accettato all’inizio, per pigrizia
mentale, per calcolo
miope, per stupidità, per orgoglio nazionale, le belle parole del caporale Hitler, lo
hanno seguito finché la fortuna e la
mancanza di scrupoli lo hanno favorito, sono stati travolti dalla sua rovina». Polonia,
Ungheria, Brasile, Argentina non devono forse insegnarci qualcosa? E gli stessi
Stati Uniti d’America non sono un monito terribilmente allarmante su quanto
veloce potrebbe essere lo scivolamento in uno scenario distopico?
Nel punto
di congiunzione tra passato e presente, è esattamente qua che dobbiamo guardare: e un segnale strettamente – molto più strettamente di quanto non si pensi – legato al ritorno dei fascismi è l’onda nera del terribile amore per la guerra che ha
contagiato anche i commentatori più ‘moderati’ dei paesi occidentali, il nostro
per primo: «la guerra mondiale voluta dai nazisti e dai giapponesi è stata una
guerra suicida: tutte le guerre dovrebbero essere temute come tali», ammoniva
Levi. Oggi terribilmente inascoltato.
Ma – si dice, e lo si dice anche nel mondo più tiepidamente antifascista, o meglio a- fascista –, si sbaglierebbe a temere un
ritorno del fascismo: “cosa pensate, che le camicie nere tornino a sfilare sulla via dell’Impero”? In fondo – si aggiunge – Meloni,
Lollobrigida, La Russa sono più grotteschi e ridicoli, che pericolosi. Forse rivedere il Grande dittatore
di Chaplin gioverebbe a costoro: non erano forse ridicoli e grotteschi
anche i capi di un secolo fa? E poi, insegna Levi, «bisogna guardarsi
dall’errore che consiste
nel giudicare epoche e luoghi lontani col metro che prevale nel qui e nell’oggi:
errore tanto più difficile da evitare quanto
più è grande la distanza
nello spazio e nel
tempo. […] Molti europei di allora, e non solo europei, e non solo di allora,
si comportarono e si comportano […] negando l’esistenza delle cose che non dovrebbero
esistere. Secondo il senso comune, che Manzoni accortamente distingueva dal ‘buon senso’, l’uomo minacciato provvede, resiste o fugge; ma molte minacce di allora, che oggi
ci sembrano evidenti, a quel tempo erano velate dall’incredulità voluta, dalla rimozione,
dalle verità consolatorie generosamente scambiate ed auto catalitiche. Qui sorge la domanda d’obbligo: una contro domanda. Quanto
sicuri viviamo noi,
uomini della fine del secolo e del millennio? e, più in particolare, noi europei?». Per provare
a rispondere a questa
domanda dobbiamo leggere
le parole e le decisioni di quelli che oggi governano, e capire dove intendono andare. Mi è stata annunciata, ma non mi è
ancora dato di leggerla,
una querela del ministro Lollobrigida per un articolo in cui ho scritto
che chi parla di “sostituzione etnica” usa le parole e i pensieri di Adolf Hitler e di Benito
Mussolini: se sarò chiamato a risponderne in tribunale, sarà una buona
occasione per fare in pubblico
quell’esercizio di discernimento dei tempi che Primo
Levi, col suo stile asciutto e reciso, ci supplica di non smettere di fare.
Il
Governo Meloni ha presentato una riforma che di fatto distrugge la Costituzione
antifascista del 1948 ed è funzionale al comando di uno solo:
davvero non corriamo pericoli? Lo stesso Governo
sta costruendo un lager per migranti in Albania, un’idea distopica e apparentemente folle:
che però rischia
di diventare reale.
Dobbiamo irriderla, o cogliere il terribile segnale
di pericolo che
essa contiene? Ha scritto Primo Levi
(stavolta in Se questo è un uomo,
1947): «A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere,
più o meno inconsapevolmente, che “ogni straniero è nemico”. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta
solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema
di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo,
allora al temine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione
del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la
concezione sussiste,
le conseguenze ci minacciano. La storia dei campi di distruzione
dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo». Non è forse chiaro
che i segni premonitori di un ritorno
del morbo ci sono tutti?
Non è evidente che la distruzione della dignità dello straniero, del migrante, oltre ad essere mostruosa in sé, annuncia
che la stessa cosa verrà presto fatta a tutte e a tutti coloro che si sentono al sicuro? In I
sommersi e i salvati Levi ricorda: «Non che della strage mancassero i
sintomi premonitori: fin dai suoi primi libri e discorsi, Hitler aveva parlato chiaro, gli ebrei (non solo quelli tedeschi)
erano i parassiti dell’umanità, e dovevano essere eliminati come si eliminano gli insetti nocivi.
Ma, appunto, le deduzioni inquietanti hanno vita difficile: fino all’estremo, fino alle incursioni dei dervisci nazisti
(e fascisti) di casa in casa, si trovò
modo di disconoscere i segnali, di ignorare il pericolo, di confezionare verità
di comodo».
Ecco, sull’orlo di questo anno terribile che si chiude, mentre se ne apre un altro che si annuncia
non meno tremendo,
penso che almeno questo dobbiamo
impararlo: non dobbiamo distogliere lo sguardo dalla realtà. «Al futuro siamo ciechi, non meno dei nostri padri», constatava lucido Levi: che forse anche per questo decise di farla finita
poco dopo averlo scritto. Provare ad ascoltarlo, provare a non ignorare
sintomi e segnali di pericolo
è l’unico modo di onorare
insieme il sacrificio dei nostri padri e di amare davvero i nostri figli. Potremmo non avere molto tempo, per farlo.
2023-2024:
tra
guerre
e
fascismo
incombente,
non
essere
ciechi
al
futuro
TOMASO
MONTANARI
-
volerelaluna.it
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29/12/2023
Sull’orlo di questo anno terribile che si chiude, mentre se ne apre un altro che si annuncia non meno
tremendo, penso che almeno questo dobbiamo impararlo: non dobbiamo
distogliere
lo
sguardo
dalla
realtà.
«Al
futuro
siamo
ciechi,
non
meno
dei
nostri
padri»
Mai
come
in
questi
ultimi
mesi
ho
sentito
acuta
la
tentazione
di
una
fuga
nella
vita
privata, e nello studio: la tentazione del silenzio. Perché di fronte al dilagare
sanguinoso
della
guerra
in
nome
dei
“valori
dell’Occidente”,
di
fronte
al
fascismo
di
nuovo trionfante, di fronte a un senso comune che pare aver irrimediabilmente
divorziato
dal
buon
senso,
si
ha
l’impressione
che
davvero
tutto,
e
anche
e
soprattutto
la
parola,
sia
vano.
Ma
è
una
tentazione
alla
quale
bisogna
resistere.
Pensando
a
chi,
prima
di
noi,
è
passato,
anche
personalmente,
attraverso
ben
altre
prove.
E
pensando
a
chi,
dopo
di
noi,
ha
il
diritto
di
ascoltare
parole
di
verità,
e
di
vita.
In
questo
senso,
il passaggio
simbolico
tra
un
anno
che
si
chiude
e
uno
che
si
apre
appare
fecondo
di
significati,
e
di
impegni:
è
il
momento
in
cui
riannodare
il
filo
che
lega
passato
e
futuro.
Un
filo
di
consapevolezza
e
di
lettura
del
mondo.
Un
esercizio
di
discernimento,
che
possa
aiutarci
a
prendere
coscienza
intera
dell’inferno
dei
viventi
che
ci
si
spalanca
davanti,
e
quindi
a
«cercare
e
saper
riconoscere
chi
e
cosa,
in
mezzo
all’inferno,
non
è
inferno,
e
farlo
durare,
e
dargli
spazio»
(così,
notoriamente,
il
Marco
Polo
delle
Città invisibili
di
Italo
Calvino).
Nella
sua
Lettera ai giudici
(che
è
un
giudizio
sulla
guerra
fondato
sulla
Costituzione,
e
sul
Vangelo),
don
Lorenzo
Milani
scrive
che
«la
scuola
siede
tra
il
passato
e
il
futuro,
e
deve
averli
presenti
entrambi».
In
queste
ore,
tutti
noi
sediamo
tra
passato
e
futuro,
tra
un
anno
finito
e
uno
da
iniziare:
come
Giano,
dio
delle
soglie,
abbiamo
un
volto
rivolto
al
passato
e
uno
al
futuro,
e
riusciamo
per
qualche
tempo
a
vederli
entrambi.
Questa
è
la
scuola
che
dobbiamo
frequentare:
la
scuola
di
un
passato
che
ci
aiuti
a
costruire
un
futuro
diverso.
Così,
ho
ripreso
in
mano
un
libro
che
da
troppo
tempo
non
rileggevo,
e
che
è
stato
pubblicato
quando
avevo
quindici
anni,
la
stessa
età
che
ha
oggi
mio
figlio
minore:
I
sommersi
e
i
salvati
,
di
Primo
Levi
(1986).
In
questo
cannocchiale
prospettico
sento
un
uomo
della
generazione
dei
miei
nonni
che
parla
a
me,
per
essere
inteso
dai
miei
figli.
Un
uomo
che
parla
a
fatica,
sapendo
di
essere
poco
ascoltato
e
temendo
di
non
essere
inteso:
«L’esperienza
di
cui
siamo
portatori
noi
superstiti
dei
Lager
nazisti
è
estranea
alle
nuove
generazioni
dell’Occidente,
e
sempre
più
estranea
si
va
facendo
a
mano
a
mano
che
passano
gli
anni.
[...]
Si
affaccia
all’età
adulta
una
generazione
scettica,
priva
non
di
ideali
ma
di
certezze,
anzi,
diffidente
delle
grandi
verità
rivelate;
disposta
invece
ad
accettare
le
verità
piccole,
mutevoli
di
mese
in
mese
sull’onda
convulsa
delle
mode
culturali,
pilotate
o
selvagge».
Levi
non
era
pessimista,
era
realista:
l’arrivo
al
potere