“Adista/Segni nuovi”
16.12.2023
ANCHE I CAPITALISTI ANDRANNO IN PARADISO ?
La classe operaia andrà in paradiso? Non sappiamo. Ma non tutti i padroni andranno all’inferno. A chi ne dubitasse, andrebbe
consigliato il libro a quattro mani, di R. Colm e C.Mendoza, Gesù imprenditore. Il paradosso del denaro
(Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2023, pp.
224, euro 18,00). Infatti il volume è stato scritto per dimostrare che,
nonostante l’apparenza (cfr. passi come Mt 6,24: “Nessuno può servire a due
padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà
l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza”), non vi sia nessuna
inconciliabilità fra il “denaro” (“termine che indica la ricchezza in generale
ed è adottato per indicare per metonimia il molto più vasto mondo economico:
generare profitti, fare impresa, lavorare con l’obiettivo di realizzare
maggiore sviluppo economico, profitto, ricchezza, ma anche crescita personale,
ecc.”) e il “Vangelo” (p. 13).
Dico subito
che ho apprezzato l’idea di riaprire una teologia – implicante un’etica - del
denaro nell’ambito cattolico dove è consuetudine volare alto verso le tematiche
mistiche e liturgiche, bypassando le questioni (ritenute, a torto, basse e
inquinanti) legate agli usi e ai costumi quotidiani.
Nel merito,
poi, ho trovato più di uno spunto interessante: ad esempio l’idea che lo Stato
debba vigilare stabilmente per difendere l’imprenditoria ‘pulita’ dalla
‘sporca’, in particolare dalle infiltrazioni delle mafie (un riferimento tanto
più significativo dal momento che nessuno dei due autori vive e opera nel
Meridione italiano). O ancora: il riferimento critico a Stati in cui prospera
l’economia capitalistica, anche grazie alla ‘remissione di debiti’ fruita dopo
la Seconda guerra mondiale (come nel caso della Germania), che però diventano
esigenti rigorosamente verso altri Paesi in difficoltà (come la Grecia). O là
dove ci si chiede come mai nelle omelie la raccomandazione di evitare di
peccare assai raramente si estenda sino a toccare il dovere di pagare le tasse.
Sarei
insincero, però, se tacessi su un retrogusto complessivo di insoddisfazione alla
lettura del testo dal momento che esso mi appare inficiato da almeno tre lacune.
Nobiltà e rischi del mestiere di imprenditore
Sono stato sempre convinto che la
condizione spirituale degli imprenditori capitalisti è simile alla condizione
dei politici di professione: possono vivere e morire onestamente come ogni
altro concittadino, anzi - se operano con equità e dedizione al Bene comune - sono
da considerare autentici santi. La loro funzione sociale non è equiparabile a
nessun’altra: sono, per così dire, candidati naturali all’esemplarità. Ciò che
gli autori di questo libro non dicono – o non dicono con la forza necessaria –
è che politici e imprenditori sono anche più esposti di qualsiasi categoria alle
tentazioni più perfide e che la stragrande maggioranza vi cede, tradendo la
missione. I latini lo affermano con icasticità intraducibile: corruptio
optimi pessima (che grosso modo in questo caso potrebbe suonare: più elevata
è la funzione di qualcuno, più odiosa risulta la sua corruzione). Anche le
Scritture cristiane riportano, come uscite dalle labbra del Signore, la dura
ammonizione: “E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che
un ricco entri nel regno di Dio” (Mc 10,25). C’è un test infallibile per
misurare l’autenticità di una persona di potere (politico e/o economico): se,
quando deve scegliere fra la fedeltà alla propria coscienza morale e i propri
interessi privati, sacrifica questi ultimi alla prima. Come è stato capace
Thomas More (secondo la lettura che ne ha dato Hans Kűng nel suo prezioso libretto Libertà nel mondo, ripubblicato
da Il pozzo di Giacobbe): benché padre di famiglia, ricco possidente e altissimo
esponente del Regno, quando Enrico VIII gli ha chiesto di tradire le sue più
profonde convinzioni etiche non ha esitato a rinunziare agli affetti familiari,
alle proprietà, al ruolo politico, anzi alla sua stessa vita.
Un’esegesi a fisarmonica
Una seconda ragione di perplessità deriva dalla pretesa degli
autori di dimostrare troppo: non solo che il vangelo e l’iniziativa economica
non sono incompatibili, ma che addirittura nelle prediche e nelle parabole di
Gesù vi sarebbero delle indicazioni istruttive su come fare bene
l’imprenditore. Un esempio fra i tanti: la “parabola dei lavoratori a giornata”
(Mt 20, 1 – 16) suggerirebbe al buon imprenditore cristiano alcuni “principi
d’azione” come “creare occupazione e ridurre sistematicamente la disoccupazione”
(p. 19), “definire e assegnare una giusta retribuzione” (p. 24), “arricchire il
mondo del lavoro offrendo opportunità inclusive” (p. 30). In quest’ottica si
può perfino riportare – senza prenderne le distanze – la lezione che dalla
parabola ha tratto un imprenditore interrogato su di essa: “la decisione del
top management va eseguita” senza obiezioni, secondo il verso dantesco “Vuolsi
così dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare…” (p. 28). Ma così non si
smarrisce il focus principale della parabola che non è certo di ordine
organizzativo-legale dal momento che vuole, scandalosamente, annunziare un Dio
che trascende in direzione del dono e del perdono i criteri della giustizia
umana? In tutto il volume incontriamo
una strana metodologia esegetica a fisarmonica: di norma si adotta un
letteralismo ingenuo, quasi commovente (come quando si riferisce, come
indiscutibile fatto storico, che Gesù abbia esercitato le “proprie capacità
divine perché Pietro trovasse lo statere nel pesce”, p. 185). Non c’è neppure
il sospetto che Mt 17, 24 – 27 sia un testo metaforico, un racconto costruito
dalla comunità dei credenti per difendere il Maestro e se stessi dall’accusa di
essere evasori fiscali. Ma quando si tratta di passi in cui il medesimo
protagonista, Gesù, si pronunzia con
radicalità sulla necessità di liberarsi dalle preoccupazioni economiche per
dedicarsi all’annunzio del regno di Dio imminente, ecco allora che si abbandona
il terreno dell’esegesi letterale e si ricorre al registro metaforico, giungendo
ad affermazioni tra il patetico e il ridicolo: “La conclusione di Gesù:
<< Così chiunque di voi non rinuncia a tutti suoi averi, non può essere
mio discepolo>> (Lc 14,32) non significa altro che porre ogni speranza in
Dio e non nel denaro” (pp. 186 – 187). Conseguenzialmente la portata dirompente
della beatitudine dei poveri viene esorcizzata sottolineando che si tratta di
poveri “in spirito” (p. 189): senza precisare, dunque, che si tratta di
un’aggiunta redazionale posteriore e, soprattutto, senza riferire che secondo i
biblisti specializzati sul tema (come p. Jacques Dupont) Gesù aveva proclamato
felici i ‘poveri’ in senso materiale, socio-economico, perché l’imminenza
dell’azione di Dio avrebbe comportato la loro ormai prossima liberazione (qui e
ora, non in altro mondo e in altra vita) . Capisco che, se si insegna alla Pontificia
Università della Santa Croce di Roma (l’ateneo fondato e diretto dall’Opus
Dei), si debbano ammorbidire certe asserzioni rivoluzionarie, ma c’è un limite
oltre il quale non è esagerato parlare di vanificazione. Qualcosa del genere
aveva denunziato nel Seicento il buon Pascal, nelle Lettere provinciali, a proposito della tendenza dei Gesuiti a far
rientrare nel “necessario” da tenere per sé e per i propri familiari tanti di
quei beni, comodità e privilegi da lasciare ben poco al “superfluo” di cui si è
debitori, in quanto cristiani, ai fratelli più poveri.
Il capitalismo: non da sempre, non per sempre
La terza riserva nei confronti di questo volume è la più
radicale: gli autori non sembrano sfiorati dal dubbio che l’universo culturale,
valoriale e simbolico, del capitalismo non sia né unico né eterno. Propriamente
parlando non c’era ai tempi della redazione dei vangeli (il capitalismo dei
manager odierni arriva circa un millennio e mezzo dopo la nascita del
cristianesimo) e non ci sono motivi cogenti per escludere che possa essere
sostituito da altri regimi socio-economici così come esso ha scalzato il feudalesimo.
I consigli che, indirettamente, Gesù
avrebbe dato agli imprenditori – secondo gli autori di questo libro - sono
dunque doppiamente problematici: sia perché si tratterebbe di imprenditori
all’interno di un contesto molto differente dal nostro, in cui i margini di
manovra dei soggetti economici erano molto maggiori dei meccanismi anonimi
odierni (in cui certe forme di sfruttamento sono talmente sistemiche che
neppure un capitalista ‘buono’ potrebbe da solo disinnescarle) ; sia perché –
anche se fossero consigli azzeccati agli imprenditori di ieri e di oggi - se ne debba prevedere l’inefficacia in un
eventuale, futuro, assetto complessivo post-capitalistico. Ciò che mi pare più
verisimile è che l’essenziale del vangelo trascenda le circostanze storiche e
socio-economiche in cui di secolo in secolo si va ‘inculturando’. E spero,
dunque, che Dio possa avere misericordia
di singoli imperatori romani, di singoli feudatari medievali, di singoli
monarchi moderni, di singoli capitalisti contemporanei, ma che il messaggio del
suo Inviato non si lasci imbrigliare da nessun sistema politico-istituzionale.
Il vangelo è attuale proprio perché mai adeguatamente attuato: esso può operare
sotto molti cieli, ma solo a titolo di “riserva critica”. Il regno di Dio –
inteso come “pienezza dei doni messianici” ( giustizia, libertà, solidarietà, pace…) – è l’utopia che può dare nei momenti
più bui della storia, come l’attuale, un’estrema motivazione a camminare oltre.
Augusto Cavadi
1 commento:
Ecco dunque scoperta la fonte del ministro Lollobrigida quando afferma che "I poveri da noi mangiano spesso meglio dei ricchi". Fonte e sinossi del libro medesimo.
Posta un commento