L'ultimo numero della rivista "Phronesis" - organo dell'omonima associazione di consulenti filosofici italiani: https://www.phronesis-cf.com/rivista/ ("Phronesis", n. 6, seconda serie, dicembre 2023), scaricabile gratuitamente - contiene una sezione dedicata ai 20 anni dell'Associazione professionale. Per l'occasione, alcuni consulenti filosofici più ‘anziani’ sono stati intervistati dalla Redazione. Qui di seguito le domande che mi sono state rivolte e le mie risposte.
1) Per prima cosa ritorniamo
all’inizio degli anni Duemila, quando il movimento della P4C, fondato da
Matthew Lipman negli anni '70 del Novecento, aveva già una consistenza e la
Consulenza Filosofica di Gerd Achembach era ancora poco conosciuta fuori dalla
Germania. Cosa ti ha portato a fare il salto da quella che lo stesso Achenbach
definisce la filosofia “somministrata” a quella che poi è stata definita la
Svolta Pratica e quindi alla Consulenza Filosofica?
·
Quando,
tramite Neri Pollastri conosciuto via internet, venni a sapere di Achenbach e
della sua proposta di “praxis filosofica”, non ho avuto l’impressione di
scoprire nuovi territori, bensì di riconoscere voci amiche. “Allora - mi son detto – non sono proprio un pazzo
isolato!”. Infatti non avevo mai concepito la filosofia altrimenti che come modo
di essere al mondo e di sollecitare col dialogo le altre persone a vivere con
la stessa tensione verso la consapevolezza (e dunque verso la libertà
effettiva). Però non vorrei dare l’idea errata che, da allora, non ho imparato
nulla ! Innanzitutto Achenbach, Pollastri e via via altri amici - incrociati prima grazie all’AICF (Associazione
italiana per la Consulenza Filosofica) e successivamente grazie a Phronesis (in
particolare Alessandro Volpone, Giorgio Giacometti e Davide Miccione) – mi
hanno fornito gli strumenti intellettuali per capire meglio la mia esigenza
piuttosto indeterminata a vivere ‘praticamente’ la filosofia; in secondo luogo
mi hanno instradato in direzione della “consulenza filosofica” (una pratica
che, a differenza di altre, non avevo mai sperimentato nella mia vita; almeno
non esplicitamente e, soprattutto, in maniera scevra da posture di
consigliere).
2) In quella fase pionieristica,
avete cercato contatti con l’Accademia? Come vedeva quest’ultima il nascente
movimento?
Sin
dagli anni iniziali dell’AICF abbiamo collaborato con docenti universitari,
alcuni dei quali (penso ad Andrea Poma) erano proprio interni alla squadra.
Dopo alcuni anni (soprattutto quando AICF si è sciolta ed è nata Phronesis)
abbiamo capito che il rapporto con gli accademici non era ‘paritetico’: noi
eravamo davvero desiderosi di imparare dalla loro competenza storica e
teoretica, ma quasi mai essi mostravano lo stesso desiderio di imparare dalla
nostra pratica professionale (o, comunque, dalle nostre pratiche sperimentate
nei decenni precedenti). Eravamo i cugini poveri di campagna, simpatici ma
ruspanti. In alcuni convegni ho avuto poi dei casi eclatanti: a Reggio Emilia,
ad esempio, subii un attacco sarcastico da Maurizio Ferraris e fui felice che
Enrico Berti (che non avevo individuato fra il folto pubblico) prendesse la
parola in difesa del nostro diritto di filosofi-in-pratica di essere “giudicati
dai frutti”.
3) Dal punto di vista teorico la
consulenza filosofica era un “terreno vergine”, tanto che ogni consulente era
la rappresentazione del detto del fondatore: la consulenza filosofica è il
filosofo. Quale era allora la tua idea della disciplina, come la sviluppasti e
cosa ne è adesso?
·
Come
accennavo prima, avevo idea ed esperienze di altre pratiche filosofiche - ad
esempio ho lanciato le “vacanze filosofiche estive per non…filosofi (di
professione)” nel 1983 – ma non della consulenza filosofica (come l’abbiamo
perimetrata in Phronesis). Dunque la concepisco, e tento di realizzarla,
secondo il modello Achenbach-Pollastri-Miccione (modello che ho avuto modo di
approfondire, anche in relazione ad altre proposte epistemologiche, nel corso
di un dottorato di ricerca post-laurea conclusosi con un elaborato finale che è
diventato anche un libro: Filosofia di strada. La filosofia-in-pratica e le
sue pratiche). Che poi ci riesca bene o meno, non sta a me giudicarlo. Di
solito ricevo feed-back positivi da parte dei consultanti (particolare
gratificazione ho ricevuto una volta da una persona che era stata in precedenza
sconsigliata, da una collega di Phronesis, di sperimentarmi come consulente filosofico),
ma sappiamo che non tutte le ciambelle riescono col buco. Soprattutto se non si
è pasticcieri infallibili.
4) La consulenza filosofica di
Phronesis nasce professionale, così definita sin dallo statuto, ma proprio la
sua professionalizzazione è stato un argomento divisivo all’interno
dell’organizzazione. Qual era e qual è la tua posizione?
·
Che
si debba lavorare affinché un laureato in filosofia, addestratosi in Phronesis ,
possa vivere sia pur sobriamente con gli onorari di consulente filosofico, mi
pare fuori discussione. In questi venti anni abbiamo constatato che questo tipo
di ‘professionalizzazione’ è riuscita in rarissimi casi, tra i quali non
rientra il mio. Il fatto che la maggior parte delle pratiche filosofiche da me
condotte si svolga a titolo gratuito (nel migliore dei casi con forme di
rimborso delle spese) e che i colloqui di consulenza filosofica in senso
proprio comportino degli introiti irrisori non mi induce a sentirmi meno
professionale che se guadagnassi come un professionista in altri rami. Che la
professione sia legata alla ricompensa economica non mi scandalizza, ma non mi
convince la tesi che tale compenso costituisca un elemento necessario della
categoria ‘professionalità’. Infatti non posso dimenticare che il nesso è interno
a un sistema economico (il capitalismo liberal-borghese) il quale, a sua volta,
non è né l’unico né vige da sempre né vigerà per sempre. Può darsi che
un’umanità che raggiunga altri livelli evolutivi capisca che ciascuno vivrebbe
meglio se vivesse – liberamente - in comunione di beni materiali e culturali.
Nell’avverbio “liberamente” c’è il baratro che divide questa mia ipotesi dalla
teoria comunista marxista-leninista (a cui non ho aderito neppure quando, nel
Sessantotto del secolo scorso, era quasi moralmente obbligatorio aderirvi…).
5) I venti di anni di Phronesis
corrispondono più o meno anche al periodo in cui si è evoluto, è maturato ed è
mutato il panorama filosofico inquadrato nella “svolta pratica”. Ti aspettavi
che tanto il movimento in generale quanto la consulenza filosofica potessero
riscuotere una maggiore risonanza nella società italiana, oppure, ritieni che
il cammino percorso possa essere considerato soddisfacente?
·
Distinguo
la risposta in due momenti. Se non prendo un abbaglio colossale, la “svolta
pratica” cui fai riferimento dovrebbe essere, indissolubilmente, una svolta teorica
e una svolta etica e direi addirittura antropologica: i filosofi dovrebbero,
per citare Mounier, non sapere più se vivono il loro pensiero o pensano la loro
vita. Se così dovesse essere, non ho gli elementi per giudicare lo stile di
vita dei milioni di filosofi di professione che pullulano sul pianeta negli
ultimi decenni. Nel piccolissimo campionario statistico che posso osservare
intorno a me, mi pare di poter dire che i teorici della svolta pratica siano
più numerosi di quanti l’abbiano effettivamente attuata.
In
relazione alla consulenza filosofia come professione ho le idee più chiare:
venti anni fa mi aspettavo un radicamento e una diffusione lenti nella società,
ma non così scarsi. Sapere che le stesse difficoltà sono state incontrate in
tante altre nazioni (compresa la Germania di Achenbach), tranne pochi casi e
spesso di imbonitori che attraggono ingenui insicuri in cerca di guru, non mi
conforta. Mi sembra che sia uno dei campi in cui non è per nulla vero che mal
comune equivalga a mezzo gaudio.
6)
Rileggendo articoli e interviste del tempo, una delle critiche mosse alla CF
era quella relativa al suo appiattimento del modello filosofo/consultante su
quello psicologo/cliente. Secondo te questa era l’unica strada percorribile
dalla CF? Si è forse rivelata un freno per la sua migliore identificazione
presso il pubblico?
*
Il fatto che fossimo accusati di effettuare tale appiattimento non significava
che lo effettuassimo davvero. Anzi, la preoccupazione di mostrarci ‘altri’
rispetto ai colleghi psicoterapeuti è stata costante nella nostra esposizione
pubblica, forse addirittura eccessiva. Qui abbiamo scontato la superficialità
degli operatori di cultura (docenti universitari e medi, giornalisti,
romanzieri) che hanno parlato del nostro lavoro senza leggere una riga di ciò
che esso è per noi. Che lo abbiano fatto soggetti in polemica con noi (penso a
sociologi come la buon’anima di Dal Lago o a spocchiosi accademici come il
Ferraris sopra citato), dispiace ma lo si può capire. Ciò che mi viene più
difficile capire è che lo abbiano fatto anche soggetti simpatizzanti per la
nostra professione: ad esempio il consulente filosofico del romanzo La cura Schopenhauer è la caricatura
del consulente filosofico come l’intendiamo noi. Peccato! L’autore è bravo e
sarebbe stata un’ottima occasione di promozione della nostra immagine sociale.
6) Il discorso
teorico-epistemologico sulla CF si è affievolito da qualche anno, forse con il
raggiungimento della maturità. Secondo te c’è ancora qualcosa di inesplorato?
*
Per la struttura stessa della CF ogni avanzamento teorico-epistemologico
potrebbe realizzarsi solo in connessione con il moltiplicarsi delle esperienze
pratiche. Se queste ultime sono poco numerose, non mi pare possibile – né
auspicabile – che si verifichi il primo.
8)
Se la consulenza filosofica è nata con Phronesis, il gruppo dei “pionieri”
oltre a inventare una professione quasi dal nulla ha anche messo le basi per la
formazione di altri professionisti. Qual è secondo te il requisito fondamentale
per un filosofo pratico, per un consulente filosofico e come si possono
insegnare?
*
Non saprei esprimermi meglio di Davide Miccione quando, ancora operante fra noi
in Phronesis, si occupava della formazione di nuovo colleghi: “Più che formare
i nuovi consulenti, possiamo riconoscerli”. Ci vuole una grande apertura etica
per rinunziare a ore preziose delle proprie giornate e dedicarle alla relazione
dialogica con uno sconosciuto (a meno che non si sia così poco filosofi da
ritenere che lauti onorari – per altro improbabili – compensino il tempo
sottratto alla propria ricerca) e ci vuole una altrettanto grande
apertura mentale per dialogare con qualcuno (per giunta quasi sempre non
filosofo di professione) allo scopo di cercare, insieme a lui, di affrontare un
suo problema, senza atteggiarsi (più o meno scopertamente) a maestro di
vita. Questa doppia disponibilità morale e intellettuale non la si può
insegnare, la si può se mai individuare e valorizzare in qualche soggetto che
ne sia già dotato. Forse la si può contagiare testimoniandola a qualcun altro che ti affianchi nelle tue attività ( qualcosa di
simile alla “comunicazione indiretta” alla Kierkegaard).
9)
In quei primi anni ruggenti la consulenza filosofica manifesta una vocazione
rivoluzionaria: da una parte nella messa in questione del cosiddetto paradigma
terapeutico, quel pensiero che medicalizzando ogni ambito dell’esistenza la
rende più controllabile, dall’altra nella responsabilità sociale di costituire
lo spazio pubblico come luogo filosofico che le attribuisce Thomas
Polednischek. Quanto vedi realizzato di quest’ambizione e quanto ti ritrovi in
questa visione oggi?
*
Sulla prima tematica mi pare che si facciano i conti soprattutto in sede di
consulenza filosofica interpersonale. Nella sostanza avevamo e abbiamo ragione:
non ogni disagio è una malattia (ed è a questo aspetto che alludevo nel titolo
del mio libro di venti anni fa Quando ha problemi chi è sano di mente).
Va aggiunto, autocriticamente, che con ogni probabilità non siamo stati
abbastanza furbi da praticare la mossa ‘ironica’, suggerita da Giacometti nel
saggio Una professione impossibile ?
, di far finta di essere ciò che il consultante si aspetta che siamo
(degli oracoli da consultare) per accompagnarlo a capire ciò di cui veramente
ha bisogno (nonostante non sappia di averne): un’autonomia di pensiero. La sua
domanda è di essere curato in senso terapeutico, ma – se non è effettivamente
da affidare a uno psicoterapeuta - noi vogliamo guarirlo dall’illusione,
deresponsabilizzante, di aver bisogno di
un terapeuta.
Sulla seconda tematica mi pare che siamo interrogati soprattutto quando ci dedichiamo ad altre pratiche filosofiche di gruppo. Qui rendiamo “lo spazio pubblico” come “un luogo filosofico” sia volendolo che non volendolo, sia sapendolo che non sapendolo: infatti ogni volta che organizziamo un assetto di confronto tra più soggetti non possiamo non orientarli (con il tema prescelto, con le regole della discussione, con il ruolo che ci ritagliamo, soprattutto con le nostre valutazioni di merito) in un senso politico. In senso democratico, partecipativo o autoritario, passivizzante: comunque in un senso politico.
Augusto
Cavadi
www.augustocavadi.com
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