In morte di Gianteresio Vattimo, il teorico del post-moderno
Dopo la notizia del suo decesso, di Gianni Vattimo ( 4
gennaio 1936 - 19 settembre 2023) si è scritto, meritatamente, molto.
Meritatamente per almeno due ragioni. La prima:
è stato uno dei pochissimi pensatori italiani di cui, negli ultimi
quattro o cinque decenni, ci si è occupati anche all’estero (i suoi libri sono
stati tradotti in varie lingue europee e non solo). La seconda ragione: è stato
altresì tra i pochissimi filosofi ascoltati anche fuori dai recinti accademici.
Poiché si è interessato spesso delle questioni del mondo ‘comune’, il mondo
‘comune’ si è interessato alla sua riflessione teoretica[1].
Se dovessi aggiungere qualche considerazione che non sia
stata detta e ridetta in questi giorni da altri, per altro più qualificati di
me, noterei che il suo profilo si staglia più nitidamente se lo si raffronta a
un altro pensatore contemporaneo, che in molti sensi ne costituisce il polo
opposto: Emanuele Severino (26 febbraio 1929
- 17 gennaio 2020 ).
Anche se le due caratteristiche di Vattimo appena evocate lo
accomunano, un po’ paradossalmente, a Severino (il quale ha pure conquistato un
suo pubblico oltre i confini nazionali e ha ritenuto non disdicevole,
attraverso gli interventi sulla stampa quotidiana, mostrare le implicazioni
‘pratiche’ – dunque concernenti l’esistenza dei singoli e la storia dei popoli
– delle proprie teorie metafisiche), i due pensatori si sono posizionati, per
così dire, alle estremità di un’ideale linea teoretica contemporanea. In che
senso? Con una formula sbrigativa come tutte le sintesi, Vattimo è stato un
teorico del post-moderno e Severino del pre-moderno (anzi, del
classico, o meglio ancora dell’ arcaico).
Inoltre, il secondo si
è presentato come esponente di un pensiero ‘forte’, anzi ‘fortissimo’ (Luigi
Lombardi Vallauri ha proposto ironicamente l’aggettivo ‘forzuto’): la filosofia
come sapere assoluto, incontrovertibile, in quanto fondato sulla verità
evidentissima (per la prima volta enunciata da Parmenide tra il VI e il V
secolo a. C.) che l’essere è (e non può non essere) e il non-essere non è (e
non può essere). Da qui la negazione, ad opera della nostra ragione, di ciò che
pure i sensi, ingannevolmente, attestano: che tutto diviene (passando
dall’essere al non-essere e dal non-essere all’essere) e che il tutto è frammentato
nel molteplice (ogni ente non è ogni altro ente). In positivo, questa duplice
negazione di ciò che l’esperienza sensibile vorrebbe indurci ad ammettere (il
continuo cambiamento e la molteplicità degli enti) equivale ad asserire che
l’essere è indiveniente (immobile, eterno) e unico (indivisibile, compatto).
Nessuno nasce, nessuno muore: siamo, da sempre e per sempre, l’Uno.
Vattimo capovolge la prospettiva di Severino qualificando la
propria postura intellettuale come pensiero ‘debole’. Dunque la filosofia
autentica non ambisce a nessuna verità ‘assoluta’, si accontenta di asserzioni
ragionevoli, plausibili, provvisorie. La ragione radicale di questa modestia
del conoscere umano sarebbe stata messa a fuoco da Nietzsche e da Heidegger
(almeno secondo una certa interpretazione minimalista): l’essere è esso stesso
‘evento’, transitorio, temporale. Non si rivela mai come luce abbagliante,
bensì come chiaroscuro equivoco. La nostra mente è limitata, ma anche se fosse
notevolmente più ampia e penetrante non avrebbe nessun Oggetto immenso, eterno,
da comprendere. Vattimo non esita a qualificare “nichilistica” questa
concezione, ma attenzione: in certi commenti stupidotti ( o malevoli) di questi
giorni, provenienti da ambienti tradizionalisti e conservatori, si auspica un
superamento di Vattimo come se egli fosse stato un generatore di nichilismo e
non un suo narratore. Se un medico rappresenta uno stato di salute che non ci
aggrada, la soluzione è verificare la correttezza della diagnosi e, nel caso si
rivelasse realistica, approntare una terapia; non certo squalificare il medico
come menagramo. Non è tacendo sul nichilismo come fenomeno culturale e morale
della nostra epoca, e zittendo le voci dei suoi annunciatori sostituendoli con altri
più gradevoli cantori , che si mette alla porta l’ “ospite inquietante” di cui
ha parlato anche Umberto Galimberti.
E’ significativo notare che, pur da posizioni così distanti
ontologicamente (intendo: sulla questione dell’essere), Severino e Vattimo sono
arrivati a molte conclusioni convergenti. Per esempio sul tema della violenza
nella storia. Per Severino essa è conseguenza dell’ignoranza: solo perché mi
illudo di essere un io diverso, anzi contrapposto, a un altro io, posso
progettare di attaccarlo, dominarlo, annichilirlo. Ogni conflitto cruento, ogni
guerra fra eserciti, si basa sulla più colossale falsità: che siamo molti atomi
in effervescenza e che possiamo ricacciare qualcuno dall’essere al nulla. Non è
difficile leggere fra le righe molte assonanze con il monismo delle sapienze
orientali induiste e buddhiste: “Anche tu (che vuoi colpirmi, annichilirmi) sei
Lui (esattamente come me)”.
Non dissimili le conclusioni di Vattimo: se ogni
manifestazione dell’essere (nella nostra esistenza come nelle altrui) è
fragile, come accostarla con arroganza e prepotenza? Non abbiamo certezze
assolute in nome delle quali autorizzarci a condannare chicchessia, a
scomunicarlo, a perseguitarlo. Solo la cauta mitezza di chi si sa relativo può
essere giustificabile nei rapporti intersoggettivi. Nessuna norma (statuale o
ecclesiastica) va obbedita ciecamente, bensì interpretata alla luce di un
criterio: la “riduzione della violenza” sia fisica che intellettuale;
“l’esclusione di qualunque violenza identificata (…) con l’interruzione del
domandare, con il tacitamento autoritario dell’altro in nome di princìpi primi”
(G. Vattimo, Etica della provenienza in “Micromega”, Almanacco di
filosofia ’97, p. 79).
La violenza, insomma, è comunque follia: sia agli occhi del
filosofo che ritiene di aver capito l’essenziale (Severino) sia agli occhi del
filosofo che, con sicumera non inferiore, ritiene di non di essere
costitutivamente in grado di capirlo (Vattimo).
Un’altra significativa convergenza fra le due ottiche
riguarda la religione, in particolare la religione cattolica in cui entrambi i
pensatori sono stati educati da giovani e che da entrambi viene contestata e
rifiutata. Severino non accetta l’idea di un Creatore che avrebbe operato il
passaggio (in verità impensabile e impossibile) di qualcosa dal non-essere
all’essere, Vattimo non accetta l’idea di un Rivelatore che avrebbe comunicato
ai suoi prediletti delle verità indiscutibili, al di sopra di ogni dubbio e di
ogni ripensamento.
Tuttavia non si può non notare una differenza.
Severino rifiuta il cristianesimo (come ogni altro
creazionismo monoteistico, anzi come ogni forma di storicismo assoluto) senza
appello: sarebbe infatti fondato sulla “follia” originaria secondo cui qualcosa che non è
comincia ad essere (anche se, per la verità, nella concezione corretta, che
Severino dovrebbe ben conoscere, gli enti non provengono dal nulla, ma dal
grembo dell’Essere).
Vattimo rifiuta la
versione dogmatica, metafisica, del cristianesimo offerta dal cattolicesimo
(che si è ellenizzato per rendersi anche culturalmente potente), per appellarsi
alla testimonianza e al messaggio originario di Gesù di Nazareth, nella cui
vicenda storica i discepoli hanno visto la kenosis (abbassamento,
umiliazione) di Dio stesso: un Dio fragile, dunque ‘debole’. Un Dio non di
potenza, anzi di ‘onnipotenza’, quanto di accondiscendenza e di servizio: un
Dio che lava i piedi agli uomini e mostra di amarli sino ad accettare la
crocifissione. (Che Gesù sia davvero, sostanzialmente, Dio o una sua icona, una sua metafora,
carnale, sembra interessare molto poco al filosofo torinese).
Poiché il modo migliore di onorare un filosofo è dialogare con lui, anche quando la sua vita biologica cessa, mi permetto di aggiungere che non mi convince nessuna delle due posizioni (e forse le mie obiezioni, pur se non condivise, possono contribuire a capire meglio le tesi di Vattimo come di Severino). Entrambi mi danno l’impressione di rapportarsi alla Bibbia (per contestarla radicalmente nel primo caso, per riceverne inspirazione teoretica nel secondo) come se si trattasse di un testo di filosofia. Al contrario, la Bibbia, prima della Patristica e della Scolastica medievali, non si è mai presentata come una fonte di conoscenze (storiche, scientifiche o filosofiche), bensì come un insieme di racconti edificanti che – secondo la bellissima formulazione di Galileo Galilei – ci dicono non come è fatto il cielo, ma come si possa andare in Cielo. Anche se la stragrande maggioranza degli intellettuali ‘laici’ lo ignora, ormai le scienze esegetiche ci hanno dimostrato che la Bibbia è costituita da un complesso di opere letterarie (spesso poetiche) che mirano all’azione, alla saggezza pratica, e che, perciò, appartengono a un piano irriducibilmente altro rispetto al pensare, al ragionare dialetticamente, con lo scopo di conoscere la ‘verità’. L’essere umano è o no in grado di conoscere l’essere nella sua totalità? Tale essere va concepito monisticamente come un unico Essere indivisibile o come una varietà di innumerevoli enti irriducibilmente slegati fra essi o in altre prospettive ancora (come l’analogia fra Essere ed enti, né identici né radicalmente differenti)? Ogni filosofo deve argomentare la propria tesi con i propri strumenti intellettuali, senza ricorrere (né per cercare consensi né per misurare dissensi) alle Scritture ebraico-cristiane. Se lo ritiene opportuno, può certamente alimentare la propria meditazione anche sui Testi ‘sacri’, ma sapendo che essi sono stati concepiti come Via (Tao) per l’ortoprassi e non certo come supplemento soprannaturale allo scarso patrimonio cognitivo dell’umanità. Possono dunque sostenerci (se e quando ci riescono, il che non sempre avviene!) nel nostro allenamento alla pazienza, alla compassione, alla solidarietà, al servizio gratuito; non certo nella nostra faticosa ricerca di ciò che è vero e di ciò che è falso.
Augusto Cavadi
[1] Non posso dimenticare, con senso di gratitudine, la
recensione che dedicò su “L’Espresso” a un mio libro (Il Dio dei mafiosi)
che non era un testo di filosofia in senso tecnico né a firma di un illustre
collega universitario. Ma i filosofi autentici sono umani e, alla Publio
Terenzio, nulla di umano ritengono a sé estraneo.
2 commenti:
Bello il confronto che fai tra Severino e Vattimo.
Ciao, e.
Non si poteva dire meglio, e in modo così essenziale.
Complimenti, Augusto!
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