mercoledì 22 novembre 2023

UNA SPIRITUALITA' SENZA CASA IN "RELIGIONI E SOCIETA' "

 “Religioni e società”: una spiritualità senza casa

Nel maggio-agosto del 2023 (anno XXXVIII) è uscito il numero 106 di Religioni e Società. Rivista di scienze sociali della religione (editore Fabrizio Serra) dedicato a una tematica affascinante e attuale: Mistica selvaggia, spiritualità senza confini. Quasi quarant’anni per una rivista di sociologia della religione non sono certo pochi. Il merito principale va ad Arnaldo Nesti per la sua tenacia, ancor più per la sua capacità di tessere relazioni e di saper valorizzare ogni genere di collaborazione.

La chiave di lettura del numero monografico è offerta nell’editoriale a firma del Direttore e di  Mariangela Maraviglia: “Oggi assistiamo a una chiara e inoccultabile crisi della religione soprattutto nell’Occidente europeo e nordamericano. Chiese e religioni, legate a vecchi paradigmi espressi in linguaggi del passato, si rivelano incapaci di parlare a gran parte dell’umanità contemporanea, ma questo non impedisce di cogliere una domanda di senso, un’apertura verso un ‘altrove’ che resiste anche nelle traumatiche trasformazioni del presente” (pp. 9 – 10).

I dati statistici di questa crisi sono riportati, e interpretati, da Luca Diotallevi nel suo contributo “La messa è sbiadita”, La partecipazione a riti religiosi altamente istituzionalizzati in Italia tra il 1993 ed il 2019 (pp. 87 – 95), da cui si apprende che “la quota di individui con 18 anni d’età o più che dichiarano di aver partecipato ad un rito religioso (PRRAI) almeno una volta a settimana (…) passa dal 37,3% al 23,7%” (p. 89): né la situazione mostra segni di ritorno al passato dopo gli anni della pandemia e dei vari lockdown.

Il calo della frequenza alle liturgie ufficiali significa, direttamente, abbassamento della tensione religiosa e più ancora della dimensione spirituale in senso antropologico? Nell’ampio saggio di Romano Màdera  - Una mistica per tutti? Al crocevia dell’incontro e dello scontro tra crisi del sacro e desiderio di senso (pp. 19 – 29) – viene argomentata la risposta negativa: riprendendo il celebre saggio di Michel Hulin (La mistica selvaggia), che a sua volta si ricollega al Misticismo senza dei di Roger Bastide del 1931, il filosofo afferma, infatti, che “  ‘stati d’animo’ di tonalità spirituale che possiamo chiamare appunto «mistica selvaggia», «esperienza (o dimensione) estatica», «sentimento oceanico», siano  più comuni di quanto si possa ipotizzare, siano trasversali rispetto alle distinzioni tra persone religiose e non religiose, evochino un bisogno e uno slancio per qualcosa percepito come mancante nel mondo delle pratiche e dei valori che per lo più abitano e guidano la nostra vita quotidiana” (p. 20).

Anche il contributo sociologico di Stefano Sbalchiero e di Giuseppe Giordan , dedicato a Raccontare le spiritualità. Forme di credenza oltre la religione (pp. 69 – 78), conferma che i giovani italiani  (tra i 13 e i 20 anni) si auto-interpretano “spirituali, sì, ma non del tutto religiosi” (p. 76).

Simili fenomeni socio-psicologici non si verificherebbero nella storia se non fossero preparati, accompagnati e teorizzati da studiosi, spesso impegnati anche esistenzialmente nella ricerca: come è stato il caso illustrato da Giuseppe Cognetti nel suo Raimon Panikkar e la mistica (pp. 30 – 36). Per il pensatore indiano-spagnolo, il “mistico” è “originaria apertura al Mistero testimoniata in tutte le culture fin dalle «sterminate antichità», non è affatto un privilegio di pochi eletti ma «la caratteristica umana per eccellenza», dell’uomo cioè in quanto insieme essere corporale, animale razionale e «spirito», accoglimento di un Oltre irriducibile a ciò che è percepito dai sensi o inteso dalla mente” (p. 35).

La mistica, dimensione universale, non è certo estranea all’esperienza femminile. E’ quanto sostiene Annarosa Buttarelli nel suo La mistica come forma mentis femminile (pp. 52 – 57) e quanto testimonia, per così dire in prima persona, Antonietta Potente in Mistica. Umanissimi percorsi in cui il Mistero si svela (pp. 58 – 65). Entrambe le autrici sottolineano il legame strettissimo della mistica autentica con la vita in generale (per uscire da sé, per sperimentare l’estasi, bisogna concentrarsi sulla “vita, solo la vita, così come si presenta con la sua imprevedibile sorpresa”, p. 65) e con la politica in particolare (“la mistica femminile, aperta alla generatività dell’amore, è una forma delle pratiche politiche femminili, è una forma mentis differente guadagnata dalle donne pensanti, non mimetiche, non paritarie, capaci di decisioni pienamente erotiche” (p. 57).

La mistica esiste solo nella biografia, nella ‘carne’, dei mistici. Per questo nel quadrimestrale in esame si trovano alcuni profili di persone che l’hanno, più o meno consapevolmente, perseguita: Giannino Piana si occupa di un suo amico, Michele Do. Una esperienza spirituale pura e creativa (pp. 37 – 44), prete della diocesi di Alba, che ha dedicato l’esistenza a tentare di “fare cose (…) che meritino di non morire” e di imparare a “morire per le cose che meritano di non morire” (p. 38); Paolo Trianni, poi,  in “Un uomo religioso e basta”. L’itinerario spirituale di Franco Battiato (pp. 45 – 51), ha tratteggiato le cinque fasi in cui si può scandire la produzione discografica del cantautore siciliano, attraversate dal filo rosso di “due categorie”: “l’apofatismo e la mistica” (p. 47).

Nello scenario internazionale non mancano certo fenomeni in controtendenza rispetto alla dislocazione dalla religione alla spiritualità. E’ il caso, ad esempio, del “più grande network cattolico del mondo” (p. 79) analizzato da Roberto F. Scalon in Anticamera dei dieci segreti di Medjugorie. La pandemia da Covid-19 nella lettura escatologica di Radio Maria (pp. 79 – 86) e della diffusione del nesso tra Fondamentalismo e homeschooling negli Stati Uniti (pp. 96 – 102) illustrato da Paolo Di Motoli. In Brasile, poi, è il mondo del fondamentalismo conservatore protestante che si riconosce in Bolsonaro a tentare di bloccare ogni apertura ecumenica, interconfessionale, universalistica, come dimostra il documentato articolo in lingua francese, di Ari Pedro Oro e Claude Petrognani, Le Dieu des Brésiliens, de Lula et Bolsonaro. Considérations socio-anthropologiques (pp. 103 – 110):  anche il lettore italiano troverà spunti interessanti per orientarsi su alcuni processi registrabili nella politica ‘interna’, dove non mancano personaggi e partiti che tradiscono il messaggio evangelico (cui dichiarano strumentalmente di aderire) in nome di un Dio “exclusif, intolérant, violent et justicier” (p. 109) innalzato a protettore dei confini nazionali e difensore dei privilegi acquisiti dagli europei in cinque o sei secoli di imperialismo colonialista.

Fra le molte riflessioni che suggerisce questo numero di Religioni e Società rientra una questione: se la spiritualità resta un fenomeno “selvaggio”, caratterizzato dall’anonimato, dall’eccezionalità, dalla singolarità individuale, potrà davvero sostituire le confessioni dogmatico-gerarchiche del passato? O non sarebbe opportuno che – pur evitando ovviamente le costruzioni elefantiache, gli assembramenti oceanici e i leaderismi carismatici – si provasse ad offrire più numerose occasioni di incontro, di sostegno reciproco, a quanti hanno sete di autenticità? Chi ha abbandonato alle proprie spalle i templi, è oggi per lo più per strada: può restarvi perennemente o ha bisogno di qualche casetta, di qualche piccola oasi, dove fare tappa tra pellegrini della stessa stoffa?

 

Augusto Cavadi

“Adista/Segni Nuovi”  32/ 30.9.2023

domenica 19 novembre 2023

MARTEDI' 21 NOVEMBRE 2023 IN DIRETTA YOU TUBE : L'ENIGMA DEL MALE E IL BALBETTIO DEGLI UMANI


Con il curatore del volume, Paolo Scquizzato, proveremo a riflettere su qualche tematica trasversale ai 22 contributi, tra cui il mio Breve dialogo sulla morte, cifra e sigillo di ogni male (pp. 51 - 55).

Martedì 21 novembre ore 21

Diretta streaming YouTube https://bit.ly/3MIOGq2   

FB Gabrielli editori https://www.facebook.com/gabriellieditori 

(durata 1 ora circa)

 

Paolo Scquizzato, curatore del libro, biblista e scrittore
Augusto Cavadi, filosofo


presentano il libro

DEL MALE, DI DIO E DEL NOSTRO AMORE
ventuno dialoghi e un saggio

Gabrielli editori

 

In questi ultimi anni, pare gravare sul mondo e sull’umanità una quantità di male inaudito, tanto da essere inenarrabile. Per il fatto che oggi sia così concentrato e immediatamente avvertito, si ha come la percezione che sia in ogni caso immane, troppo.

Don Paolo Scquizzato, come accadde ai tempi della pandemia sul tema della preghiera con il testo La goccia cha fa traboccare il vaso, ha chiesto di scrivere un contributo sul tema del male, a partire dalla propria esperienza, ad amiche e amici: filosofi, teologi, medici, appartenenti ad altre confessioni (induisti e buddhisti), credenti, atei e agnostici.

 

INFO SUL LIBRO E GLI AUTORI 👉 https://bit.ly/46FyHl9


  

mercoledì 15 novembre 2023

SE NE E' ANDATO J.M.CASTILLO, TEOLOGO DEL POPOLO LATINO-AMERICANO

 

La morte di Castillo,  teologo del popolo latino-americano.

Domenica 12 novembre , all’età non esigua di 94 anni, si è spento il teologo spagnolo  José María Castillo, noto anche ai lettori italiani per alcuni suoi testi mitemente esplosivi (quali L’umanizzazione di Dio, Fuori dalle righe. Il comportamento del Cristo, Vittime del peccato, La laicità del vangelo, L’umanità di Gesù nonché quei post sul blog www.religiondigital.com che spesso Lorenzo Tommaselli ha tradotto e diffuso sulla rete). Come ha scritto il giornalista José Manuel Vidal, “Pepe era una persona speciale, che attirava l’attenzione per la sua saggezza, la sua empatia e la sua umiltà, ma soprattutto perché si faceva amare”.

La sua vicenda è tipica di molte intelligenze teologiche a cavallo fra il XX e il XXI secolo. Giovanissimo, partecipa al Concilio Vaticano II in quanto perito del cardinale Tarancón, ma – dopo la morte di Paolo VI e l’ascesa al pontificato di Giovanni Paolo II – viene destituito (ovviamente senza nessun processo) dalla cattedra della Facoltà di Teologia di Granada. La Compagnia di Gesù, di cui era membro, prova a proteggerlo affidandogli un’altra cattedra di teologia presso l’Università Centroamericana di San Salvador, dove diventa esponente di spicco della Teologia della Liberazione.

Quando anche questa seconda possibilità gli viene tolta dalle autorità vaticane, per non lasciarsi strumentalizzare dagli avversari dei Gesuiti, decide di lasciare l’Ordine e di proseguire a titolo del tutto individuale la ricerca e la divulgazione (anche con i suoi celebri “Quaderni di Teologia Popolare”, validi tanto per i candidati al ministero presbiterale quanto per i bambini in preparazione della Prima comunione). E’ ormai un “gesuita senza documenti” che gira, con la nuova compagna Marga, per le varie Comunità Cristiane Popolari dell’America Latina.

Dopo molti anni, un papa si ricorda di lui: si scrivono, si telefonano e infine si incontrano a Santa Marta  il 18 aprile del 2017.  “Ti ho perso negli anni Ottanta e ora ti ritrovo” gli dice Bergoglio. E ancora: “Ho letto i tuoi libri con grande piacere, fanno molto bene alle persone”. Castillo gli fa eco con una battuta (per comprendere la quale bisogna sapere che nella Chiesa cattolica, se si diventa vescovi, si deve lasciare l’Ordine religioso di provenienza): “Santità, siamo due gesuiti senza documenti”. Ovviamente Francesco ha sorriso divertito.

COMPLETARE LA LETTURA CON UN CLICK:

https://www.zerozeronews.it/addio-a-jose-maria-castillo-lapostolo-del-popolo-latino-americano/

lunedì 13 novembre 2023

INTERPRETAZIONE DELLA FIGURA DI P.PINO PUGLISI: UNA RECENSIONE E UNA NUOVA PRESENTAZIONE



Padre Pino Puglisi. Un leone che ruggisce di disperazione:  questo il titolo del volume, edito da Il pozzo di Giacobbe e scritto a 'quattro mani' da Augusto Cavadi e Cosimo Scordato, che oserei definire, anche ma non esclusivamente, chiarificante. Lo sguardo filosofico di Cavadi e lo sguardo teologico-pastorale di Scordato si intrecciano e comunicano fra loro aiutandoci a com-prendere l’esistenza complessa di un uomo che ha scelto, senza esitare, il Bene. Un modello (certamente non pubblicitario e di vuota propaganda) per la Chiesa di Palermo e per la Chiesa Universale che ancora oggi, a distanza di trent’anni, continua a interpellare tutte e tutti, credenti e non. Interessante come, nella breve dichiarazione di intenti, i due autori specificano i motivi e i desideri che li hanno spinti a mettere insieme ciò che poi ritroviamo nel corso della loro riflessione. Il desiderio è certamente la memoria di un prete ucciso dalla mafia, ma è molto altro ancora. È il fare sintesi - aggiungo - di un tema complesso, quali le mafie, in relazione al fatto ecclesiale, ai suoi intrecci e all’eredità rispetto alla lotta contro le ingiustizie.

Cavadi, giustamente, si chiede subito se i martiri sono davvero fiori all'occhiello di una Chiesa locale oppure no. E così afferma: "L'assassinio di Puglisi e la successiva proclamazione canonica a "beato" della Chiesa cattolica hanno dato una stura a una serie di dichiarazioni trionfalistiche […]. La presenza di un martire in più è stata accolta come un dono divino. Per chi come me è convinto che la logica divina può volare al di sopra, ma mai contro la logica umana, tale compiacimento collettivo non ha alcuna ragion d'essere; anzi, al contrario, dovrebbe lasciare il posto all'autocritica e al pentimento” (pp. 17-18).

Non c’è pentimento senza autocritica e non c’è autocritica senza presa di coscienza. Ma come dovremmo sviluppare questa sana presa di coscienza? Chi dovrebbe guidarci a ciò? È forse possibile autogestirsi in un percorso così complesso? Credo che anche su questo bisognerebbe riflettere ed è la stessa Chiesa locale che chiede - forse banalmente - di fare memoria del Beato che dovrebbe seriamente interrogarsi e aprirsi a nuovi modi di essere Chiesa.

Ma cosa dice l’eredità di don Pino in merito a questo? Cosa dice alla Chiesa? Cosa dice a noi che siamo Chiesa? Lo espone bene Cosimo Scordato nelle ultime pagine del libro: "La Chiesa [...] deve diventare spazio di resurrezione, ovvero di cambiamento radicale, che rende improbabile, se non addirittura impossibile, per la grazia del suo Signore, l'infiltrazione dell'associazione mafiosa e l'invadenza degli atteggiamenti e comportamenti mafiosi. Però, l'esperienza storica ha fatto toccare con mani che, nonostante la progressiva presa di coscienza da parte della Chiesa, permangono intrecci all'interno della comunità cristiana; passo ulteriore non può che essere il radicale ripensamento dell'immagine di Chiesa e del suo rapporto con la società (pp. 165- 166).

E se ecclesia semper reformanda , non deve certo muoversi dalla denuncia profetica alla progettualità testimoniale? La denuncia profetica, se non si evolve pienamente e profondamente in progetti testimonianti di qualcosa di concreto, come può dirsi credibile e autentica? Ed è proprio attraverso il farsi concreto della comunità cristiana - come afferma bene Scordato - che si ha quando essa stessa si impegna a tradurre nello spazio della visibilità sociale la vera risposta alternativa all'essere e all'agire mafioso dove, oltre alla denunzia, ci deve essere una capacità di annuncio fattuale nei gesti nuovi e creativi della comunità stessa.

La comunità cristiana, dunque, non può che favorire, attraverso la propria creatività umana e il sinergismo fra tutte le sue componenti, il cambiamento e la conversione sincera dei cuori e delle menti. Perché poi, lo si sa bene, è la forma-mentis che bisogna educare e coniugare al Bello e al Buono. Solo in questa prospettiva l’esperienza martiriale di don Pino Puglisi si tradurrà in eredità concreta per l’attuale e futura generazione, infra ed extra ecclesiam.

Questa è solo una minima parte delle riflessioni personali che il libro mi ha suscitato ed è la presa di posizione di Cavadi e Scordato che fa dei due autori sinceri testimoni di ciò che è stato e continua ad essere  il padre Pino Puglisi reale (non la sua immagine rivista e corretta). Lettura consigliatissima!

Giuseppe Canale

8.11.2023

https://www.girodivite.it/Padre-Pino-Puglisi-un-leone-che.html

domenica 12 novembre 2023

LA MEMORIA STORICA PER UNA PACE SOLIDA: LA LEZIONE DI GIUSEPPE DOSSETTI

 

LA MEMORIA STORICA ANTIDOTO ALLE GUERRE INFINITE

I miei amici che vivono in Germania sono molto preoccupati: anche se la grande stampa ne parla poco o niente, l’antisemitismo (specie nelle regioni orientali della Repubblica federale) monta di giorno in giorno. L’orrida reazione del governo israeliano ai vili attacchi di Hamas è stata un’occasione colta al volo per confondere legittimo dissenso politico con ingiustificabile odio razziale.

I tedeschi, dunque, non facendo sino in fondo i conti col nazismo, si condannano a registrarne rigurgiti tossici. Né le cose vanno meglio in Italia, dove la seconda carica dello Stato espone con orgoglio il busto di Mussolini e la guida del governo è in mano a un personaggio osannato pubblicamente da movimenti neo-fascisti incostituzionali. In questo scenario – nell’attesa che i cittadini fedeli alla Repubblica democratica smettano di litigare e trovino qualche riferimento in Parlamento disposto a difendere almeno alcuni dei valori costituzionali ampiamente disattesi in questi decenni anche da maggioranze di centrosinistra – che resta da fare?

Alcune risposte alla domanda si possono rintracciare in un testo del 1986 in cui Giuseppe Dossetti meditava sulla superficialità dimostrata dalla Chiesa, e più ampiamente dalla società, in Italia, nel dimenticare stragi nazifasciste come gli eccidi perpetrati nel settembre-ottobre 1944 nell’Appenino bolognese intorno a Monte Sole:  centinaia fra bambini, donne, anziani, malati, preti, suore, adulti di entrambi i sessi vengono falcidiati solo per lanciare un segnale di potenza (in realtà, a ben pensarci, di debolezza) alle squadre partigiane operanti nei dintorni.  Dossetti scrive queste pagine a Introduzione del volume di Luciano Gherardi Le querce di Monte Sole. Vita e morte delle comunità martiri fra Setta e Reno e parla da cattolico soprattutto ai cattolici: il suo patrimonio teologico, il suo universo simbolico, i suoi riferimenti liturgici sono tutti interni all’ortodossia cattolica. Tuttavia Fabrizio Mandreoli, curatore di questa nuova edizione del testo di Dossetti (“Finché ci sia tempo”. Pace, guerra e responsabilità storiche a partire da Monte Sole, Zikkaron, Bologna 2022, pp. 169, euro 12), è convinto che il messaggio travalichi i confini confessionali e – più o meno analogamente – possa riuscire illuminante anche per cittadini di fede religiosa diversa o di fede laica. Infatti Dossetti chiedeva una revisione degli schemi interpretativi tradizionali non solo ai suoi compagni di strada cristiani, ma anche a intellettuali e politici di vari orientamenti (altrettanto esposti alla tentazione di crogiolarsi in narrazioni ideologiche che, pur meritevoli di non essere gettate nella pattumiera della storia, necessitano comunque di profondi aggiornamenti). Lo dirà poco prima di morire con una lucidità di analisi storica apprezzabile – in tempi bui di guerre anche ai confini dell’Unione Europa - non certo solo da lettori di confessione cattolica:  “C’è un rimescolamento completo di situazioni, siamo ritornati in Europa a prima del 1914. Il rimescolio dei popoli, delle culture, delle situazioni è molto più complesso di quello che non fosse nel 1918. E’ un rimescolio totale. In più c’è la grande incognita dell’Islam, una incognita in qualche modo imprevedibile. Noi cerchiamo di rappresentarci questo sconvolgimento totale con dei modelli precedenti (…) ma sono tutti non proporzionati, perché il rinnovamento è assai più radicale. Siamo dinanzi all’esaurimento delle culture. (…) Siamo tutti immobili, fissi su un presente, che si cerca di rabberciare in qualche maniera, ma non con il senso della profondità dei mutamenti” (pp. 37- 38).

Dossetti stesso enumera in sei punti i passaggi principali della terapia che intravede:

a)     l’impegno per una lucida coscienza storica e perciò ricordare: rendere testimonianza in modo corretto degli eventi” (pp. 73 – 74);

b)     il ricordo deve essere continuato, divulgato e deve assumere sempre più ispirazione, scopi e forme comunitarie” (p. 75);

c)      occorre proporsi di conservare una coscienza non solo lucida, ma vigile, capace di opporsi a ogni inizio di «sistema di male» , finché ci sia tempo” (p. 77);

d)     occorre compiere una revisione rigorosa di tutto il proprio patrimonio culturale e specialmente religioso, purificandolo radicalmente da ogni infiltrazione emotiva e da ogni elemento spurio che non attenga al nucleo essenziale della fede e che possa favorire anche solo in maniera indiretta ritorni materialistici o idealistici capaci di alimentare miti classisti, nazionalisti, razzisti, ecc.” (p. 83);

e)      occorre coltivare “la sapienza della prassi” che “sta soprattutto nell’acquisizione di abiti virtuosi: che occorrono tutti non solo per agire, ma anche  e prima per pensare correttamente ed esaustivamente i giudizi e le azioni conseguenti” (p. 88); una sapienza che richiede (oltre alla virtù tipiche del credente: la fede, la speranza e l’amore agapico) “un delicatissimo equilibrio di esercitata prudenza e di fortezza magnanima; di temperanza luminosa e di affinata giustizia individuale e politica; di umiltà sincera e di mite ma reale indipendenza di giudizio; di sottomissione e insieme di desiderio verace  di unità, ma anche spirito di iniziativa e di senso della propria responsabilità; di capacità di resistenza e insieme di mitezza” (p. 89);

f)       Infine, “occorre rendere possibile, consolidare e potenziare il pensare e l’agire per la pace (…) con un ultimo elemento, il silenzio: molto silenzio, al posto dell’assordante fragore che ora impera. Il silenzio è una quarta dimensione di tutto. (…) Silenzio, calma, quiete ed abbandono, riposo vanno sempre più opposte all’urlo incessante della stampa, della radio e della televisione” (p. 94).

Per onestà intellettuale devo avvertire che, soprattutto a proposito degli ultimi due punti, Dossetti li incastona in una prospettiva confessionale. Ho tralasciato tali riferimenti teologici non per tradire il pensiero originario dell’autore (per il quale “la fede e la vita dei cristiani” non potrebbero nutrirsi “in modo genuino e completo” senza “una conoscenza diretta e amorosa della parola di Dio e dell’esperienza centrale del mistero pasquale come si realizza nell’eucaristia” , p. 86), ma per mostrare come, anche sottoposte a tagli, queste pagine di Dossetti hanno da dire molto anche ai ‘laici’ (e agli stessi cristiani  trans-teisti e post-religionali nel cui novero egli certamente non si è riconosciuto).

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

sabato 11 novembre 2023

LE DONNE SICILIANE E IL SISTEMA MAFIOSO

 

“Gattopardo”

Agosto 2023

 

LE DONNE SICILIANE E LA MAFIA

 

In che relazione il mondo femminile con il sistema mafioso? Per rispondere bisognerebbe distinguere almeno tre tipologie principali.

Una prima categoria: donne ‘esterne’ al mondo delle cosche. Molte di queste – insegnanti, magistrate, poliziotte, giornaliste... – sono impegnate a erodere alla mafia pezzi di dominio.

A una seconda categoria appartengono le donne ‘interne’ al sistema mafioso: svolgono un ruolo cruciale nell’educazione dei futuri mafiosi.

Tra la prima e la seconda, ampie 'zone grigie' di donne che s’illudono, estraniandosi dagli affari degli “uomini”, di restare equidistanti fra la Repubblica democratica e le organizzazioni criminali.

Tutte le donne siciliane, come in generale le italiane, sono ancora svantaggiate dall’assetto culturale-istituzionale del maschilismo patriarcale (che le conquiste del femminismo hanno incrinato, non smantellato). Ma chi di esse vive all'interno del mondo mafioso è prigioniera di una seconda gabbia: le regole di comportamento fondate sul primato dell'immagine pubblica e degli interessi materiali di Cosa Nostra. Così alcuni femminicidi sono stati ordinati da mafiosi per difendere, a un tempo, l' «onore» maschile e l' «onore» della 'famiglia'. Per questo, in linea di principio, il femminismo dovrebbe essere sempre anti-mafioso e il movimento anti-mafia sempre filo-femminista.

Augusto Cavadi 

www.augustocavadi.com

martedì 7 novembre 2023

IDENTIKIT DEL SAPIENTE. OGGI COME IERI.

 

I TRATTI DELL’AUTENTICO SAPIENTE DI IERI. E DI OGGI.

Quindici anni fa, nel marzo del 2008, moriva a 78 anni don Antonio Balletto: una figura di primo piano della cultura cattolica italiana più aperta alle ricerche teologiche e filosofiche europee. Infatti, oltre a pubblicare articoli e libri propri, promosse –  da vari ruoli, sino a presidente, nella casa editrice Marietti – la traduzione nella nostra lingua di rilevanti testi stranieri di autori di diversa inspirazione: non solo cristiani (Maria Zambrano, René Girard, Simone Weil), ma anche ebrei (Hannah Arendt, Martin Buber, Emmanuel Levinas) e ‘laici’  ( Jacques Derrida, Michel Foucault, Agnes Heller, Hans-Georg Gadamer) . In questi giorni mi sono ritrovato fra le carte gli appunti di una sua conferenza tenuta intorno alla metà degli anni Ottanta sul tema della “sapienza” e sono stato colpito dall’attualità delle sue considerazioni.

In essa infatti il prete ligure (che, in rotta con l’arcivescovo conservatore di Genova Giuseppe Siri, aveva chiesto e ottenuto l’incardinamento nella diocesi di Albenga) esordisce puntualizzando che, nel contesto culturale dei libri del Primo Testamento detti appunto “sapienziali”  - redatti fra il II e il I secolo a.C. - il termine ‘sapiente’ aveva una gamma di significati molto più ampia, e più viva, di quanto gliene attribuiamo abitualmente oggi. In prima approssimazione si potrebbe dire che il sapiente è uno ‘esperto’ della vita: come l’Ulisse omerico, è stato scaltrito dall’aver viaggiato molto e visto molte cose.

Più in dettaglio il sapiente è caratterizzato da una costellazione di caratteristiche, tra cui, innanzitutto, la disponibilità a lasciarsi coinvolgere intensamente dall’incontro con la realtà nelle sue varie sfaccettature. Non si ferma, dunque, alla superficie, ma accetta di fare esperienze ‘forti’, che impegnano integralmente la soggettività. Proprio questa predisposizione di fondo fa sì che – ecco una seconda caratteristica -  egli non si neghi alle esperienze anche ‘dure’, dolorose: non cerca le soluzioni consolatorie agli enigmi della vita, ma si esercita nella difficile capacità di penetrarli sin dove è possibile. Proprio per attrezzarsi a tale arduo compito il sapiente ama ritornare, criticamente, alle cose antiche: questa terza caratteristica non va confusa con l’ingenuità nostalgica di chi recupera vecchie leggende pur di avere un qualsiasi punto di riferimento per orientarsi nel labirinto della storia. Piuttosto va identificata con la riscoperta delle radici autentiche delle cose, riservata a chi cerca i valori essenziali per se stessi, anche quando sembrano (almeno provvisoriamente) sorpassati e oscurati dalle mode. L’apertura a ciò che di meglio ci consegna la tradizione è accompagnata nel sapiente da un’apertura almeno altrettanto grande a ciò che di meglio esiste fuori dai confini del suo territorio socio-culturale: questa quarta caratteristica si manifesta come sincera curiosità, desiderio di dialogo, cordiale accettazione dell’inedito. Il motto latino diversus est adversus  rivela grettezza. Solo l’insipiente si trincera in un diffidente provincialismo che assolutizza il noto.

L’incontro con il diverso può esigere una revisione, anche radicale, della propria visione-del-mondo. Per questo una quinta caratteristica del sapiente è di essere in cammino, in progress. Cerca di fare sintesi delle proprie conoscenze ed esperienze, ma non cede alla tentazione di ritenerla definitiva. Sa abbandonare gli schemi a cui si è affezionato tutte le volte che l’evidenza glielo impone. Insomma: è in grado di ricominciare ogni volta daccapo. E ciò non solo intellettualmente: sa ricrearsi, diventare una nuova personalità. Consapevole che, oltre un certo limite, la fedeltà a sé stessi diventa la virtù degli stupidi.

PER COMPLETARE LA LETTURA (IN VERSIONE ORIGINALE E ILLUSTRATA):

https://www.zerozeronews.it/don-antonio-balletto-un-sapiente-da-non-dimenticare/ 

sabato 4 novembre 2023

K.R. LINGS E GLI AMORI BIBLICI CENSURATI DAI TRADUTTORI IN MOLTE LINGUE

 "Viottoli"

anno XXVI - 2023 - 1

Nel suo Amori biblici censurati. Sessualità, genere e traduzioni erronee (Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2023, pp. 302, euro 28,00) K. Renato Lings si propone di evidenziare il “legame tra le attuali versioni della Bibbia da un lato e gli atteggiamenti negativi verso l’omoaffettività dall’altro” (p. 11). Non si tratta dunque di un’opera filologica ed esegetica soltanto, ma anche teologico-morale e direi politica: infatti la Bibbia, “grande codice” (N. Frye) della cultura occidentale, almeno sino ai nostri giorni, ha influenzato – nel bene e nel male – i giudizi e i comportamenti di tante popolazioni, indipendentemente dalle opzioni di fede individuali.

Alla radice di tante incomprensioni un dato di fatto storicamente incontrovertibile: i teologi cristiani, sino alla Riforma protestante e in molti casi anche oltre, hanno letto (e talora tradotto) la Bibbia senza conoscere la lingua del Primo dei due Testamenti, l’ebraico. E’ stata ritenuta sufficiente la padronanza del greco (la lingua della Bibbia dei Settanta in epoca ellenistica) e del latino (la lingua della Vulgata).

Un caso esemplare è costituito dai capitoli 14,18 e 19 del libro della Genesi:  la (falsa) interpretazione medievale, secondo cui le città di Sodoma e Gomorra sarebbero state “distrutte a causa dell’eccessiva propensione degli abitanti alle relazioni sessuali tra uomini e uomini” , ha comportato “conseguenze fatali per decine di migliaia di persone con relazioni omoaffettive” (p. 63). Come spiega Lings, nel Testamento ebraico “più e più volte i profeti usano il nome di Sodoma come metafora dell’arroganza, dell’abuso (di potere) e dell’oppressione dei deboli, in particolare delle vedove, degli orfani e degli stranieri” (pp. 98 – 99).

Un’intera sezione del volume (la terza) esamina, puntualmente, le forzature sessuofobiche – anzi, per la precisione, spesso omofobiche – delle traduzioni tradizionali (in lingua inglese, ma non solo) di passi cruciali quali:

·       Levitico 18,22 (“una frase ebraica ermetica e imbarazzante”, con almeno 17 interpretazioni,  nella traduzione viene semplificata per renderla “perfettamente appetibile al pubblico moderno” ) (p. 119);

·       Giudici 19-20 (due capitoli vengono che, impropriamente, letti come “immagine speculare” di Genesi 18 -19) (p. 122)

·       Prima Corinzi, 6, 9 – 10 (termini insoliti vengono sbrigativamente tradotti con vocaboli – quale “omosessuali” – coniati solo nel XIX secolo) (p. 146)

·       Romani 1, 26 – 27 (le frasi greche vengono “riferite a relazioni omosessuali anche quando descrivono semplicemente comportamenti non convenzionali”) (p. 163)

Una quarta sezione del libro è dedicata a degli “amori biblici” che, secondo l’autore, sono stati “censurati” dalle tradizioni ecclesiastiche: tra Naomi e la nuora Rut, tra Davide e l’amico Gionata, il centurione romano e il suo ragazzo, Gesù e il discepolo prediletto...E’ senz’altro la parte più problematica dell’opera, ma mi pare che l’autore abbia individuato la traiettoria più felice fra due possibili estremismi: da una parte negare che questi personaggi siano stati rappresentati come legati da vincoli affettivi particolari (non riducibili alle ‘normali’ relazioni di parentela o di amicizia), dall’altra applicare a tali vincoli straordinari le categorie odierne di “omosessualità” (e simili). Ciò che si può affermare con certezza è che la Bibbia conosce varie declinazioni dell’amore e che solo il bigottismo moderno ha tentato (e tenta) di separare nettamente le versioni ‘legittime’ dalle ‘illegali’ e ‘peccaminose’.

In una quinta, e ultima, sezione del libro si esaminano tre tematiche:

·       il profilo, mutevole a seconda dei luoghi e dei tempi, degli “eunuchi” che – lungo la traiettoria biblica – passano da minoranza marginale malvista a  soggetti pienamente integrati nel movimento cristiano

·       il rapporto maschio-femmina in Genesi (dove la donna è l’altro “lato” dell’uomo, non un derivato dalla sua “costola”);

·       il peccato d’origine che non è certo “sessuale” in quanto consiste nella idolatria.

 

Non mi pare ci sia necessità di aggiungere, dopo questa schematica sintesi, il consiglio di acquistare e di leggere con attenzione questo volume sommessamente rivoluzionario.

 

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com


giovedì 2 novembre 2023

GIANNI VATTIMO ED EMANUELE SEVERINO: AGLI ANTIPODI DEL PANORAMA FILOSOFICO CONTEMPORANEO

 

In morte di Gianteresio Vattimo, il teorico del post-moderno

Dopo la notizia del suo decesso, di Gianni Vattimo ( 4 gennaio 1936 - 19 settembre 2023) si è scritto, meritatamente, molto. Meritatamente per almeno due ragioni. La prima:  è stato uno dei pochissimi pensatori italiani di cui, negli ultimi quattro o cinque decenni, ci si è occupati anche all’estero (i suoi libri sono stati tradotti in varie lingue europee e non solo). La seconda ragione: è stato altresì tra i pochissimi filosofi ascoltati anche fuori dai recinti accademici. Poiché si è interessato spesso delle questioni del mondo ‘comune’, il mondo ‘comune’ si è interessato alla sua riflessione teoretica[1].

Se dovessi aggiungere qualche considerazione che non sia stata detta e ridetta in questi giorni da altri, per altro più qualificati di me, noterei che il suo profilo si staglia più nitidamente se lo si raffronta a un altro pensatore contemporaneo, che in molti sensi ne costituisce il polo opposto: Emanuele Severino (26 febbraio 1929  - 17 gennaio 2020  ).

Anche se le due caratteristiche di Vattimo appena evocate lo accomunano, un po’ paradossalmente, a Severino (il quale ha pure conquistato un suo pubblico oltre i confini nazionali e ha ritenuto non disdicevole, attraverso gli interventi sulla stampa quotidiana, mostrare le implicazioni ‘pratiche’ – dunque concernenti l’esistenza dei singoli e la storia dei popoli – delle proprie teorie metafisiche), i due pensatori si sono posizionati, per così dire, alle estremità di un’ideale linea teoretica contemporanea. In che senso? Con una formula sbrigativa come tutte le sintesi, Vattimo è stato un teorico del post-moderno e Severino del pre-moderno (anzi, del classico, o meglio ancora dell’ arcaico).

 Inoltre, il secondo si è presentato come esponente di un pensiero ‘forte’, anzi ‘fortissimo’ (Luigi Lombardi Vallauri ha proposto ironicamente l’aggettivo ‘forzuto’): la filosofia come sapere assoluto, incontrovertibile, in quanto fondato sulla verità evidentissima (per la prima volta enunciata da Parmenide tra il VI e il V secolo a. C.) che l’essere è (e non può non essere) e il non-essere non è (e non può essere). Da qui la negazione, ad opera della nostra ragione, di ciò che pure i sensi, ingannevolmente, attestano: che tutto diviene (passando dall’essere al non-essere e dal non-essere all’essere) e che il tutto è frammentato nel molteplice (ogni ente non è ogni altro ente). In positivo, questa duplice negazione di ciò che l’esperienza sensibile vorrebbe indurci ad ammettere (il continuo cambiamento e la molteplicità degli enti) equivale ad asserire che l’essere è indiveniente (immobile, eterno) e unico (indivisibile, compatto). Nessuno nasce, nessuno muore: siamo, da sempre e per sempre, l’Uno.

Vattimo capovolge la prospettiva di Severino qualificando la propria postura intellettuale come pensiero ‘debole’. Dunque la filosofia autentica non ambisce a nessuna verità ‘assoluta’, si accontenta di asserzioni ragionevoli, plausibili, provvisorie. La ragione radicale di questa modestia del conoscere umano sarebbe stata messa a fuoco da Nietzsche e da Heidegger (almeno secondo una certa interpretazione minimalista): l’essere è esso stesso ‘evento’, transitorio, temporale. Non si rivela mai come luce abbagliante, bensì come chiaroscuro equivoco. La nostra mente è limitata, ma anche se fosse notevolmente più ampia e penetrante non avrebbe nessun Oggetto immenso,  eterno,  da comprendere. Vattimo non esita a qualificare “nichilistica” questa concezione, ma attenzione: in certi commenti stupidotti ( o malevoli) di questi giorni, provenienti da ambienti tradizionalisti e conservatori, si auspica un superamento di Vattimo come se egli fosse stato un generatore di nichilismo e non un suo narratore. Se un medico rappresenta uno stato di salute che non ci aggrada, la soluzione è verificare la correttezza della diagnosi e, nel caso si rivelasse realistica, approntare una terapia; non certo squalificare il medico come menagramo. Non è tacendo sul nichilismo come fenomeno culturale e morale della nostra epoca, e zittendo le voci dei suoi annunciatori sostituendoli con altri più gradevoli cantori , che si mette alla porta l’ “ospite inquietante” di cui ha parlato anche Umberto Galimberti.   

E’ significativo notare che, pur da posizioni così distanti ontologicamente (intendo: sulla questione dell’essere), Severino e Vattimo sono arrivati a molte conclusioni convergenti. Per esempio sul tema della violenza nella storia. Per Severino essa è conseguenza dell’ignoranza: solo perché mi illudo di essere un io diverso, anzi contrapposto, a un altro io, posso progettare di attaccarlo, dominarlo, annichilirlo. Ogni conflitto cruento, ogni guerra fra eserciti, si basa sulla più colossale falsità: che siamo molti atomi in effervescenza e che possiamo ricacciare qualcuno dall’essere al nulla. Non è difficile leggere fra le righe molte assonanze con il monismo delle sapienze orientali induiste e buddhiste: “Anche tu (che vuoi colpirmi, annichilirmi) sei Lui (esattamente come me)”.

Non dissimili le conclusioni di Vattimo: se ogni manifestazione dell’essere (nella nostra esistenza come nelle altrui) è fragile, come accostarla con arroganza e prepotenza? Non abbiamo certezze assolute in nome delle quali autorizzarci a condannare chicchessia, a scomunicarlo, a perseguitarlo. Solo la cauta mitezza di chi si sa relativo può essere giustificabile nei rapporti intersoggettivi. Nessuna norma (statuale o ecclesiastica) va obbedita ciecamente, bensì interpretata alla luce di un criterio: la “riduzione della violenza” sia fisica che intellettuale; “l’esclusione di qualunque violenza identificata (…) con l’interruzione del domandare, con il tacitamento autoritario dell’altro in nome di princìpi primi” (G. Vattimo, Etica della provenienza in “Micromega”, Almanacco di filosofia ’97, p. 79).

La violenza, insomma, è comunque follia: sia agli occhi del filosofo che ritiene di aver capito l’essenziale (Severino) sia agli occhi del filosofo che, con sicumera non inferiore, ritiene di non di essere costitutivamente in grado di capirlo (Vattimo).

Un’altra significativa convergenza fra le due ottiche riguarda la religione, in particolare la religione cattolica in cui entrambi i pensatori sono stati educati da giovani e che da entrambi viene contestata e rifiutata. Severino non accetta l’idea di un Creatore che avrebbe operato il passaggio (in verità impensabile e impossibile) di qualcosa dal non-essere all’essere, Vattimo non accetta l’idea di un Rivelatore che avrebbe comunicato ai suoi prediletti delle verità indiscutibili, al di sopra di ogni dubbio e di ogni ripensamento.

Tuttavia non si può non notare una differenza.

Severino rifiuta il cristianesimo (come ogni altro creazionismo monoteistico, anzi come ogni forma di storicismo assoluto) senza appello: sarebbe infatti fondato sulla “follia”  originaria secondo cui qualcosa che non è comincia ad essere (anche se, per la verità, nella concezione corretta, che Severino dovrebbe ben conoscere, gli enti non provengono dal nulla, ma dal grembo dell’Essere).

 Vattimo rifiuta la versione dogmatica, metafisica, del cristianesimo offerta dal cattolicesimo (che si è ellenizzato per rendersi anche culturalmente potente), per appellarsi alla testimonianza e al messaggio originario di Gesù di Nazareth, nella cui vicenda storica i discepoli hanno visto la kenosis (abbassamento, umiliazione) di Dio stesso: un Dio fragile, dunque ‘debole’. Un Dio non di potenza, anzi di ‘onnipotenza’, quanto di accondiscendenza e di servizio: un Dio che lava i piedi agli uomini e mostra di amarli sino ad accettare la crocifissione. (Che Gesù sia davvero, sostanzialmente,  Dio o una sua icona, una sua metafora, carnale, sembra interessare molto poco al filosofo torinese).

Poiché il modo migliore di onorare un filosofo è dialogare con lui, anche quando la sua vita biologica cessa, mi permetto di aggiungere che non mi convince nessuna delle due posizioni (e forse le mie obiezioni, pur se non condivise, possono contribuire a capire meglio le tesi di Vattimo come di Severino). Entrambi mi danno l’impressione di rapportarsi alla Bibbia (per contestarla radicalmente nel primo caso, per riceverne inspirazione teoretica nel secondo) come se si trattasse di un testo di filosofia. Al contrario, la Bibbia, prima della Patristica e della Scolastica medievali, non si è mai presentata come una fonte di conoscenze (storiche, scientifiche o filosofiche), bensì come un insieme di racconti edificanti che – secondo la bellissima formulazione di Galileo Galilei – ci dicono non come è fatto il cielo, ma come si possa andare in Cielo. Anche se la stragrande maggioranza degli intellettuali ‘laici’ lo ignora, ormai le scienze esegetiche ci hanno dimostrato che la Bibbia è costituita da un complesso di opere letterarie (spesso poetiche) che mirano all’azione, alla saggezza pratica, e che, perciò, appartengono a un piano irriducibilmente altro rispetto al pensare, al ragionare dialetticamente, con lo scopo di conoscere la ‘verità’. L’essere umano è o no in grado di conoscere l’essere nella sua totalità? Tale essere va concepito monisticamente come un unico Essere indivisibile o come una varietà di innumerevoli enti irriducibilmente slegati fra essi o in altre prospettive ancora (come l’analogia fra Essere ed enti, né identici né radicalmente differenti)? Ogni filosofo deve argomentare la propria tesi con i propri strumenti intellettuali, senza ricorrere (né per cercare consensi né per misurare dissensi) alle Scritture ebraico-cristiane. Se lo ritiene opportuno, può certamente alimentare la propria meditazione anche sui Testi ‘sacri’, ma sapendo che essi sono stati concepiti come Via (Tao) per l’ortoprassi e non certo come supplemento soprannaturale allo scarso patrimonio cognitivo dell’umanità. Possono dunque sostenerci (se e quando ci riescono, il che non sempre avviene!) nel nostro allenamento alla pazienza, alla compassione, alla solidarietà, al servizio gratuito; non certo nella nostra faticosa ricerca di ciò che è vero e di ciò che è falso.

Augusto Cavadi

Chi volesse leggere la versione originaria (illustrata) può cliccare qui:



[1] Non posso dimenticare, con senso di gratitudine, la recensione che dedicò su “L’Espresso” a un mio libro (Il Dio dei mafiosi) che non era un testo di filosofia in senso tecnico né a firma di un illustre collega universitario. Ma i filosofi autentici sono umani e, alla Publio Terenzio, nulla di umano ritengono a sé estraneo.

mercoledì 1 novembre 2023

UNA DONNA ISRAELIANA E UN MILITANTE DI HAMAS SI SCAMBIANO UNA STRETTA DI MANO (by Carlo Sansonetti)

 TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO

Numero 5005 del primo novembre 2023
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXIV)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, e-mail: centropacevt@gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/


1. L'ORA. CARLO SANSONETTI: UNA COLOMBA DI PACE VOLA TRA I FALCHI DELLA GUERRA
[Ringraziamo di cuore Carlo Sansonetti per questo intervento]

L'immagine più forte, "la piu' dura", che mi e' rimasta impressa dei terribili accadimenti in Israele e Gaza dal 7 ottobre fino ad oggi, e' quella dell'ottantacinquenne israeliana Yocheved Lifshitz, rapita dai terroristi di Hamas insieme ad altre 200 persone in quel terrificante 7 ottobre e tenuta in ostaggio fino al suo rilascio lunedi' 23 scorso.
Yocheved, nel momento che viene consegnata dal miliziano di Hamas alla rappresentante della Croce Rossa, fa un improvviso dietrofront, allunga il magro e rugoso braccio verso il suo carceriere, gli stringe forte la mano e guardandolo fisso negli occhi gli dice, per due volte, chiara e decisa, la parola chiave della vita: SHALOM... SHALOM!
L'altro, coperto sul viso dalla sua kefiah (tipica sciarpa palestinese), sorpreso ma gia' complice della donna mentre ricambia la sua stretta di mano, annuisce con uno sguardo, del tutto oramai disarmato.
Non sappiamo se sia stato convinto a mai piu' usare violenza, ma in quel frangente e' stato chiaramente vinto dalla nonviolenza.
Tutto il resto, prima e dopo, e ovunque intorno, e' disperazione, e' rabbia, e' vendetta, e' orgoglio, e' pervicacia nella violenza, e' ostentazione di forza omicida, e' guerra, e' disumanita'. Tutto intorno a quel gesto e' solo morte.
La stessa politica sta facendo fatica a dire la parola "tregua", e' confusa su come raggiungere veramente la pace.
Le immagini dei bambini, anche in culla, che vengono decapitati sono talmente raccapriccianti che affondano il loro ricordo nelle viscere di tutti, nei nostri cuori, e non ci mollano piu': generano spavento e sgomento, e lo sgomento viene per lo piu' vinto dalla rabbia incontenibile e la rabbia sfocia nella violenza devastatrice. E' una rabbia che pero' semina, ancora e ancora, solo morte, incapace nella sua disperazione a riportare quei piccoli in vita.
La Bibbia stessa, libro sacro degli Ebrei, ricorda cosi', ancora oggi, l'orrore della violenza dei babilonesi, che uccidevano senza ritegno i bambini del suo popolo. Quell'orrore esige ancora vendetta, ma in questo caso la delega ad altri:
Figlia di Babilonia devastatrice,
beato chi ti rendera' quanto ci hai fatto.
Beato chi afferrera' i tuoi piccoli
e li sfracellera' contro la pietra.
(Salmo 137)
L'atteggiamento dell'anziana Yocheved cambia radicalmente prospettiva e si affida, con la semplicita' tipica dei bambini, all'umanita' che le vive dentro e che e' convinta stia palpitando anche nel cuore dell'altro.
Quel gesto di pace fa di Yocheved Lifshitz profetessa di speranza nei terribili e sanguinosi giorni nostri: lei sa bene che la violenza non si arrendera' mai alla violenza, ma rimarra' spiazzata e vinta solo dalla nonviolenza.