In dialogo con Spinoza, filosofo post-teista
Nel linguaggio comune si identifica il filosofo con lo storico della filosofia. In alcune personalità, effettivamente, la passione per la ricerca teoretica si coniuga splendidamente con la competenza esegetica, ma si tratta di preziose rarità. Più comunemente si può essere ottimi conoscitori dei “classici” della storia della filosofia (e bravi docenti) senza avvertire nessuna inquietudine intellettuale così come autentici filosofi senza un’adeguata padronanza dei testi (e impegnati professionalmente in altri ambiti disciplinari): come avvertiva Nietzsche, la ricerca della verità non è questione d’intelligenza o d’istruzione, ma di coraggio.
Alla seconda di queste due categorie (entrambe essenziali, per carità!) appartiene un giovane, empatico, prete che presta la sua attività pastorale nella città di Bolzano. Non è – non ha scelto mai di diventare – un esperto lettore di opere filosofiche. Ma è animato da autentico eros filosofico e ciò lo induce a viaggiare, fisicamente e mentalmente; a dialogare senza pregiudizi; a mettere in discussione certezze (vere o presunte) della cultura di appartenenza. Frutto di un incontro a suo parere illuminante è il recente volume Conversando con Baruch. Spinoza, un filosofo “oltre le religioni” (Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2022) che, secondo l’autore stesso,
«non vuole essere uno studio su Spinoza, ché ne sono stati scritti tanti e sicuramente più accurati del mio, ma uno strumento accessibile a molti, per confrontarsi, pensare in modo politicamente/religiosamente scorretto, lasciarsi provocare e destabilizzare senza paura. Consci che la verità rimane tale per sempre, e che ciò che non è costruito sulla verità, prima o poi scompare».
La sua postura intellettuale ed esistenziale è, dunque, ben differente rispetto a quei professori di filosofia, anche illustri, che rimangono abbarbicati al Platone o al Tommaso d’Aquino, al Vico o al Marx (e, ovviamente, allo stesso Spinoza) degli anni giovanili, preferendo la tranquilla certezza di essere dalla parte giusta alla sconcertante scoperta di essersi sbagliati per decenni.
Grazie alla sua insolita onestà intellettuale, il giovane teologo cattolico del XXI secolo – in un’immaginaria conversazione per le vie di Amsterdam – accetta con libertà d’animo che il pensatore ebreo del XVII gli insegni molte cose di cui egli non aveva avuto notizia (almeno, non così chiaramente e nettamente) durante gli anni di formazione ecclesiastica nel pur prestigioso Seminario Maggiore di Bressanone. La lista completa sarebbe troppo lunga.
Per esempio, la liceità dell’obiezione di coscienza:
«non c’è cittadino migliore che desideri di più il bene della collettività, di colui che mette in discussione di fronte all’autorità una legge irragionevole o dannosa. Egli ne chiede con convinzione l’abolizione, astenendosi da comportamenti sediziosi o contrari alla legge».
E ancora: che le religioni istituzionali, confessionali, dividono gli esseri umani e li aizzano gli uni contro gli altri, laddove
«la religione ‘naturale’, quella cioè che anima ogni uomo, almeno il più avveduto”, è invece “la ricerca della verità, e, “essendo Dio la verità, ricercare la verità” significhi “conoscere Dio. Una verità, però, percepibile attraverso l’intelletto, il lume naturale, che ognuno di noi possiede e che ci garantisce una conoscenza certa».
Un’altra questione illustrata da Spinoza a don Zambaldi riguarda la nozione di “rivelazione” e la figura dei “profeti”:
«Io non sono d’accordo con la dottrina della rivelazione, così come la intende ad esempio l’ebraismo. [...] Per rivelazione o manifestazione di Dio agli uomini, intendo la conoscenza naturale, cioè la conoscenza certa, razionale di un fatto, conoscenza rivelata/partecipata da Dio agli uomini, a tutti gli uomini (non unicamente ai profeti). [...] Dunque le espressioni come “il profeta ebbe lo Spirito di Dio” [...] non significano altro che i profeti e poi i discepoli di Gesù possedevano una virtù (morale) singolare e al di sopra del comune, che essi percepivano la mente o il pensiero di Dio con particolare vivezza (come i poeti che hanno doti di sensibilità, immaginazione e intuizione particolari, pur essendo uomini comuni) e che erano ritenuti connessi direttamente con Dio solo “perché gli uomini ignoravano le cause della conoscenza profetica e l’ammiravano e perciò, come tutti gli altri prodigi, la riferivano a Dio”».
Dal momento che l’ebreo Spinoza ha lottato tutta la vita contro “l’antropomorfizzazione di Dio”, non ha mai ritenuto Gesù un «Dio che addirittura assume la carne di un uomo». Tuttavia non gli è sembrato corretto, neppure, appiattirlo sullo stesso livello dei profeti vetero-testamentari:
«Cristo per Spinoza era colui che aveva con l’Eterno una comunicazione da «mente a mente», cioè non legata ad immagini o segni, a condizionamenti o capacità. Quello che Cristo comprendeva e faceva comprendere era un Dio non più appartenente a un popolo, a un tempo, a un’elezione, ma un Dio che semplicemente era «vita che genera vita», eterno, perfetto, amabile, conoscibile, un Dio che permeava di sé tutta la Natura e in essa l’uomo. Dunque al di fuori di questo “insieme” non esisteva altro di separato, di diverso, di trascendente e dunque non c’era per Gesù la necessità di trovare un oltre/altro per il sacro, né uno spazio, né un culto, né una casta sacerdotale. Egli spostava il tempio nel quale spesso si mercanteggiava la salvezza, dentro l’uomo, dentro la natura, unico luogo in cui Dio si manifesta. Il Dio di Gesù, come il Dio di Spinoza dunque è colui che spezza i recinti delle ortodossie e della Legge, è la Verità alla quale tutti possono guardare, sempre e per sempre. Il Cristo di Spinoza è l’uomo, oltre le religioni. Il profeta adulto che non riduce Dio a una risposta alla precarietà del vivere, ma lo comprende come unica possibilità del mondo, unica fonte di vera sapienza, alla quale egli ci permette di partecipare in eterno».
È evidente che in una concezione così essenzializzata, quasi severa, del rapporto fra l’unica “Sostanza” infinita (Deus sive Natura) e gli innumerevoli “modi” finiti (tra cui gli esseri umani) in cui tale Sostanza si dispiega, quasi fosse un Prisma dalle infinite facce, non c’è posto per «riti, culti, segni» né, ancor meno, per i “miracoli”:
«Dio non può cambiare le leggi (pro o contro di noi), perché tutto ciò che egli vuole, o determina, implica eterna necessità ed eterna volontà. In Dio, infatti, non possiamo distinguere l’intelletto dalla volontà. Dio pensa e vuole in un unico atto. Dunque, le leggi della natura, come le ha pensate, sono i suoi veri decreti, la sua manifestazione. Se dunque quelle leggi venissero violate (con un miracolo) agirebbe contro se stesso, violerebbe la sua stessa natura. [...] . Per cui i miracoli più che farci conoscere Dio ce ne farebbero dubitare».
Don Paolo, credente e addirittura ministro ordinato della Chiesa cattolica, a questo punto della conversazione con Baruch, non senza vincere «l’irresistibile tentazione di tacere», solleva una questione davvero centrale: questo Dio-Natura ci ama come, da un capo all’altro della Bibbia, viene ribadito? La risposta dell’interlocutore – che, secondo gli stupendi versi di Borges riportati in esergo al volume, ha forgiato «Dio con geometria raffinata» – è rigorosamente in linea con Aristotele e gli altri Greci per i quali l’amore verso qualcuno di altro da sé
«non può in nessun modo appartenere agli attributi di Dio. Perché se così fosse vorrebbe dire che la sua perfezione non sarebbe tale, che sarebbe spinto da una causa ‘esterna’ a mutare se stesso, sarebbe condizionato nei suoi rapporti col mondo e con l’uomo. In realtà Dio è semplicemente perfetto in se stesso. È sostanza eterna e immutabile, immanente alla natura. Non ha bisogni, né desideri, né tantomeno sentimenti. [...] Come possiamo allora descrivere il suo amore per noi? Il suo amore per noi è in realtà il suo esserci come causa e possibilità infinita del tutto».
Don Paolo non nasconde «un vuoto, una delusione…una strana malinconia» all’idea che Dio non sarebbe più il Dio padre/madre/sposo/amante della tradizione biblica. Spinoza non ignora che le sue conclusioni logiche siano spiazzanti e dunque precisa che:
«dicendo che Dio non ama gli uomini non voglio dire che li abbandoni a se stessi per così dire, ma al contrario che l’uomo, come tutto ciò che esiste, è in Dio, di modo che Dio sta in tutte le cose, e per parlare con proprietà, non vi può essere in lui amore per nessun’altra cosa che per se stesso perché tutto è in lui».
A questo genere di amore divino, disincantato, l’essere umano non può che rispondere altrettanto disincantatamente:
«credo che l’amore per Dio debba essere amore per la sua sapienza immanente che rende l’universo e l’uomo quello che è. Credo che sia il riconoscerlo sempre presente nel tutto come legge e sostanza e ragione che quel tutto rende possibile. È dunque un amore ‘razionale’, frutto dell’intelletto, non un sentimento suscitato da non sempre limpide passioni».
Per Borges questa interpretazione dell’amore umano per Dio (e, in Dio, per tutti gli esseri in cui egli si squaderna negli universi noti e ignoti) non è una deminutio rispetto alla concezione corrente, ma un’espansione e una maturazione. All’ «ebreo/di tristi occhi e di pelle olivastra» fu elargito «il più generoso amore»: «l’amore che non chiede di essere amato».
Qualcuno potrebbe sospettare che questo genere di riflessioni teoretiche, metafisiche, siano oziose, senza incidenza nella pratica quotidiana della gente né nelle opzioni politiche degli Stati. Sarebbe, però, una supposizione infondata. Infatti il monismo ontologico spinoziano – secondo cui l’essere umano, come per altro ogni altro essere, non è una sostanza individuale autonoma ma un “modo” finito di concretizzarsi/manifestarsi dell’unica Sostanza assoluta – detronizza l’umanità dal ruolo, che nei millenni si era illusa di occupare, di signora e regina del cosmo. Tuttavia è proprio scardinando tale antropocentrismo che l’umanità può sperare in un futuro meno disastroso. Dal Rinascimento in poi l’uomo, emancipatosi da ogni limite eteronomo di origine teologica, si era attribuito
«la disponibilità d’uso del creato, inteso come animali, materie, suoli, acqua e aria. Tutto a disposizione del suo genio, della sua creatività, dei suoi progetti di sviluppo. E ora Baruch sosteneva che l’uomo non era altro che una parte della Natura, seppure di una Natura che partecipava alla stessa essenza di Dio. Questo significava che se l’essere umano avesse operato contro la natura, se l’avesse distrutta o ritenuta sua proprietà esclusiva, avrebbe agito contro la sua stessa essenza, la sua stessa vita…in definitiva contro Dio stesso. Come sarebbe cambiato il mondo e il nostro sguardo su di esso, se avessimo preso in considerazione il filosofo olandese! [...] Abbiamo bisogno di un ripensamento del nostro modo di comprenderci come esseri umani, dobbiamo passare da un paradigma antropocentrico di dominio assoluto, ad un concetto più ampio che ci fa sentire come esseri in relazione, parti di un tutto più interconnesso e dinamico. Per operare questa transizione, divenuta fondamentale per la sopravvivenza stessa del sistema terra, dovremmo riflettere sul nostro rapporto con il mondo».
Non tutte le implicazioni antropologiche ed etiche del sistema onto-teologico spinoziano suonano altrettanto incoraggianti. L’olandese, infatti, da una parte ha sostenuto che «Dio non è libero e dunque non può in nessun modo porsi delle finalità. E aggiungo nemmeno l’uomo è libero!»; ma, dall’altra (rinunziando, per citare un’ultima volta Borges, alla «fama, che è riflesso/ di altri sogni nel sogno dello specchio» e all’ «amore pudico delle vergini»), ha dedicato tutte le sue energie all’impresa di liberare i simili da ignoranza e scelte disastrose. Come conciliare la sua tesi teorica con la sua azione storica? Se noi esseri umani non siamo capaci di «scelte o atti di volontà», in quanto inseriti in «una catena di eventi che determinano necessariamente» la nostra prassi, a che scopo offrirci insegnamenti e consigli? Non ci comporteremo, comunque, come siamo programmati, deterministicamente, a comportarci?
Sulla questione, sembrerebbe che don Paolo si accontenti della tesi del fisico Carlo Rovelli:
«La nozione di scelta libera, anche se è una nozione approssimata e basata sull’ignoranza delle cause, resta quindi la più efficace per pensare a noi stessi, come voleva appunto Spinoza».
Insomma: non è vero che sono libero, ma ci credo. La vita (individuale e ancor più sociale) sarebbe molto più complicata se non vivessimo come se fossimo liberi.
Più che evocare altre tematiche, preferisco chiudere con due osservazioni di fondo. La prima concerne l’aspetto stilistico del volume: poiché in esso è adottato il registro linguistico tipico della conversazione, i testi originali di Spinoza risultano alleggeriti dalla frequente aridità sentimentale che è il prezzo – forse evitabile – del suo approccio “geometrico”.
La seconda osservazione riguarda i contenuti. Sin dalla prefazione di p. Paolo Gamberini S.J., nel libro si ribadisce in più passaggi che il dialogo con Spinoza è stato suggerito dall’attenzione dell’autore per il dibattito attuale (in vari continenti, soprattutto nelle due Americhe) sul “post-teismo”: una corrente teologica di cui don Zambaldi condivide, pur senza dogmatismi, istanze e risposte. Anche a proposito di questo suo volume, dunque, andrebbero riprese alcune perplessità e alcune precisazioni sul “post-teismo” che ho avuto modo di avanzare altre volte [1]. In queste pagine di don Paolo trovo un elemento di novità metodologica che potrebbe indicare un sentiero di ricerca a tutta la variegata, effervescente, arcobalenica e (per fortuna) crescente costellazione del “post-teismo”: man mano che ci si avventura nell’esplorazione dell’inedito, scavare per rintracciare le radici. Quando ci si muove nell’ambito del “post” è inevitabile dare l’impressione di essere sbarcati su un’isola sconosciuta e di dover inventarsi tutto daccapo come naufraghi appena scampati a un naufragio, come se il “post-teismo” non avesse il pregio e il limite di essere, inevitabilmente, anche un “pre-teismo” (talora addirittura arcaico). Zampaldi lo raccomanda esplicitamente –
«bisognerebbe ripartire proprio da quei pensatori del passato, e non, che troppo spesso abbiamo deciso di ignorare: da Spinoza a Feuerbach, da Teilhard de Chardin a Paul Tillich, da Lloyd Greering a Spong e tanti, tanti altri…» –
ma, soprattutto, ne dà una convincente, appassionata, testimonianza. Si potrebbe scoprire che certe tesi “post-teiste” sono state discusse, e criticate, dalle origini del pensiero umano (non solo occidentale) a oggi. E che dunque possono certamente venir riproposte, ma a patto che si dimostri di conoscerne le versioni originali e di saperne confutare le confutazioni. Non so se veramente ci siano stati pensatori catalogabili come “teisti” nell’accezione, talora un po’ caricaturale, che i “post-teisti” danno a questo termine. Ma se ci fossero stati (e Tommaso d’Aquino o Leibniz, Kant o Kierkegaard, Bultmann o Rahner, Küng o Drewermann rientrassero tra questi) a noi simpatizzanti del “post-teismo” spetterebbe un compito immane: in qualche modo poterli raggiungere prima di ritenere d’averli superati.
1 commento:
Mi trovo vicino al pensiero di don Paolo, con una minuta perplessità. Penso che questo percepirsi in buona, antica e affidabile compagnia, nani sulle spalle di giganti, fratelli di chi ben prima di noi ha attraversato i limiti del teismo oltrepassandolo -qualcuno col sacrificio della propria vita, numerosi altri con sofferenze che grazie a loro ci sono risparmiate-, mantenendo con questi nostri fratelli che ci hanno preceduto un costante rapporto di conoscenza, dialogo e stimolo per andare oltre, sia il presupposto per un post-teismo valoroso e proficuo, come sostengo da tempo. Il post-teismo che si percepisce orgogliosamente e insipientemente inedito è invece ben poca cosa, condannato alla deriva di una datata reattività mangiapreti o in quella di misticheggianti visioni New Age. La minuta perplessità è che sto considerando che tra gli innumerevoli modi relativi in cui la Sostanza si esprime, potrebbe anche esserci posto, relativamente a qualche essere umano, per la credenza nei riti, culti, segni e pure nei miracoli. Un po’ come per il libero arbitrio non sono cose vere ma se qualcuno ci crede, perché credendoci si adatta meglio alla vita (intendo adattarsi anche in senso darwiniano), perché no? In nome di cosa giudicarli nell’errore? In nome della razionalità? Facendolo non corriamo il rischio di ipostatizzare la razionalità a religione? Non rischiamo di vivere un post-teismo poco pluralista e un po’ integralista? Mi sembra più che lecito e pure utile che qualcuno viva culti e segni all’interno di una dimensione esistenziale simbolica e narrativa procreatrice di senso, invece a livello sociale e politico, fuori da questo dominio personale ingiudicabile, è evidente che la demitizzazione sia invece necessaria per evitare deliri e esaltazioni.
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