mercoledì 2 agosto 2023

ESSERI-PER-LA-MORTE O ESSERI-PER-INCOMINCIARE ?

SIAMO NATI “PER” MORIRE ?

 

Del filosofo tedesco Martin Heidegger si ricorda, in particolare, un’asserzione: l’essere umano è un essere-per-la morte. 

Questa affermazione si può intendere in almeno due prospettive.

La prima, descrittivo-fenomenologica, è più innocua, quasi banale: sulla linea di sant’Agostino, per il quale “nasciamo e, di questo, moriamo”, Heidegger starebbe osservando – per usare le sue stesse parole – che “dacché un uomo nasce è abbastanza vecchio per morire”.

In una seconda prospettiva, ontologico-esistenziale, Heidegger asserisce qualcosa di assai meno ovvio, scontato: che nasciamo “per” morire. Detto in altri termini, il decesso biologico non è solo - come per ogni vivente - la fine, ma il fine. La frase, come nello stile di Heidegger, è volutamente provocatoria e può prestare il fianco a interpretazioni nichilistiche dalle quali ha preso le distanze Hanna Arendt. Nonostante il legame intellettuale e sentimentale che la legava al maestro, infatti, ella ha scritto: «Gli uomini, anche se devono morire, sono nati non per morire ma per incominciare».

Ma Heidegger non era un nichilista (o, se lo era, non in maniera così smaccata): egli pensava che l’essere umano è congenitamente correlato non al Niente, al Nihil, ma all’Essere, alla Totalità, all’Intero del reale; solo che, a suo convincimento, questo Essere non ha alcuna stabilità, alcuna permanenza. Questo Essere non è Eternità, ma Tempo. 

In questo scenario  - siamo esseri divenienti radicati in un Essere diveniente – come si potrebbe interpretare allora la sua formula, apparentemente disperata e disperante, per cui esistiamo “per” morire? 

Molto probabilmente egli intendeva evidenziare che la morte può essere affrontata come un incidente imprevisto da maledire (è quanto avviene abitualmente per chi non è attrezzato alla riflessione filosofica), ma anche ‘anticipata’ consapevolmente come criterio di orientamento: in questo modo essa può, costruttivamente,  illuminare l’esistenza e darle sapore, significato. 

Un poeta contemporaneo cino-francese, François Cheng,   ha elaborato a modo suo l’intuizione heideggeriana: “Ci viene dunque offerto un mutamento di prospettiva: invece di limitarci a fissare la morte come uno spauracchio, a partire da questo lato della vita, potremo integrare la morte nella nostra visione e guardare la vita a partire dall’altro lato, che è la nostra morte. In questa posizione, mentre siamo in vita, il nostro orientamento e i nostri atti sarebbero slanci verso la vita” (Cinque meditazioni sulla morte ovvero sulla vita, Bollati Boringhieri, Torino 2015, p. 19). 

Allora la morte acquista i lineamenti del frutto il quale indica “uno stato di pienezza e, al tempo stesso, il consenso alla fine, alla caduta al suolo” (ivi, p. 22). Il poeta Rilke ha scritto: “Noi siamo solo la buccia e la foglia. /La grande morte che ognuno ha in sé/ è il frutto attorno a cui tutto cambia”.  Cheng, memore delle sue origini orientali, così commenta: “Rilke esprime l’ardente desiderio che la morte di ogni essere sia una morte che appartenga a quello stesso essere, perché nata da lui, come un frutto. E non manca di constatare, come tutti noi, che se il frutto cade a terra finisce per trovarsi accanto alle radici; fecondando la terra, partecipa del loro potere rigeneratore. Non dimentichiamo che il frutto in cinese si chiama quo-zi, che significa involucro contenente l’essenza e i semi. Vuol dire anche una forma di compimento e una possibilità di rinascere altrimenti” (ivi, p. 23).


 

PER COMPLETARE LA LETTURA BASTA UN CLIC:


https://www.zerozeronews.it/siamo-nati-per-morire-o-per-vivere/

 

Nessun commento: