“Dialoghi mediterranei”
1 luglio 2023
LA GABBIA DEL PATRIARCATO: IN DIALOGO CRITICO CON AUGUSTO CAVADI
Le note che seguono mi sono state suggerite dalla lettura del libro di Augusto Cavadi, L‘arte di essere maschi libera/mente. La gabbia del patriarcato (Di Girolamo, Trapani 2020). Vorrei mettere subito in chiaro che decido di recensire libri (ottemperare quindi a uno scopo promozionale) solo a queste condizioni: essere convinto della bontà del prodotto o dell’importanza del tema affrontato; poter dire la mia non sulla qualità del libro ma sulla questione che affronta, ammettendo che io abbia da aggiungere qualcosa a quanto il libro stesso dice e qualcosa che non sia soltanto mia semplice opinione. Detto questo sono contento di segnalare il libro di cui sopra all’attenzione generale fra altre ragioni perché (come nello stile dell’autore)
- ripresenta ai lettori i frutti non solo di una riflessione astratta e solitaria ma di un’esperienza di meditazione pratica e comune che già dal 2015 svolge l’associazione Noi uomini a Palermo contro la violenza sulle donne (Cavadi è uno dei soci fondatori),
- sforzandosi non solo di lanciare un mero messaggio politico - che ricompongo qui direttamente da una pagina del libro: «il contrasto alla violenza maschile […] deve far parte […] di una strategia di lungo periodo che si basi sull’analisi delle radici del fenomeno che si vuole estirpare […] e deve coinvolgere l’intera popolazione » (p. 13), strategia che non può non passare in primo luogo attraverso un itinerario di autocritica costruttiva (dettagliato alle pp. 81-106) delle prime vittime del patriarcato ovvero dei maschi stessi (pp. 10 s.),
- ma anche di rispondere alle obiezioni (pp. 107-121) di chi di fronte a questo messaggio nutre qualche riserva o perché è ideologicamente maschilista o perché crede in tutta sincerità — ma senza malanimo— alla bontà del patriarcato tradizionale bagatellizzandone gli effetti deteriori in nome di quelli positivi o perché non crede che tutti i maschi siano violenti o colpevoli di violenze perpetrate da altri maschi o perché è allergico/a a messaggi considerabili a torto o a ragione buonisti o politicamente corretti o lo è pregiudizialmente verso qualunque cosa si dice in giro (ho riassunto qui le posizioni-reazioni di amici ed amiche, intellettuali di professione e non, con cui ho discusso del libro e che hanno espresso molte obiezioni, alcune delle quali Cavadi stesso aveva previsto).
- E ancora, non ultimo dei meriti di questa pubblicazione, il tentativo di fare chiarezza su una questione di per sé molto complessa (quella del patriarcato), mescolata com’è ad altre questioni altrettanto difficili da affrontare e così animosamente discusse dai media e maltrattate dai politici e dalle politiche di turno da frustrare molte intelligenze quando si tratta di tradurre in pratica (discorsiva e civile) quanto se ne è potuto inferire. Sto parlando delle questioni della violenza, del rapporto fra biologia, sessualità e genere, dell’uguaglianza (sullo sfondo della libertà).
- Infine — visto che, come direbbero alcuni buddhisti, la conoscenza senza la compassione è inerte, nel senso che non va da nessuna parte, ma che neppure la compassione non accompagnata dalla conoscenza arriva molto lontano (in quanto la sua forza è subito vinta dalla sofferenza)— non posso che annoverare fra i meriti del libro anche quello di assumere una prospettiva intellettuale ma non fredda rispetto a un fenomeno urgente e necessariamente coinvolgente come quello della violenza maschile contro le donne (p. 7). Mirabile eccezione a quel che di norma dal ciel ci cade!
Sicché tenderei a prendere lo sforzo autocritico di questi palermitani, testimoniato dal libro, fondamentalmente come segno di buon auspicio per il futuro civile di tutte e tutti noi. Di fronte ai continui episodi di sevizie, stupri collettivi, maltrattamenti di persone di sesso femminile (come pure di fronte alla condizione maggioritariamente perdurante di violenza strutturale nei confronti delle donne sul pianeta) ritengo la sua denuncia condivisibile. Denunciare riuscendo a mantenere la calma, a riflettere e a far riflettere nel marasma degli eventi dà, letteralmente, ancor più senso alla denuncia. E che capirci di più per poter agire meglio sia il fine ultimo del libro si vede anche da scelte come questa: iniziare — più o meno— mettendo ordine nella confusione lessicale, primo sintomo della patologia che il libro cerca di guarire: quella mentale. Di grande utilità al riguardo il terzo capitolo (Un vocabolario aggiornato) che chiarisce le differenze fra il livello soggettivo e quello socioculturale della questione a monte del libro (quella della gestione da parte degli umani e delle umane dell’enigma di essere tutti/e di un’unica specie ma costituita da individui di sessi differenti) andando a separare i livelli a) fisico-morfologico (quello del sesso biologico) b) psicologico (l’identità di genere o sessuale che, contro la pratica comune, va scissa dall’orientamento sessuale) e c) quello relativo al cosiddetto ruolo di genere (livello socioculturale). Ma lasciamo le questioni di fondo e torniamo al problema che il libro affronta ovverosia quello della violenza maschile contro le donne.
La questione specifica: la violenza maschile sulle donne
L’autore invita a considerarla non come un’emergenza puntuale ma come connaturata al sistema patriarcale (l’aspetto di violenza strutturale). Passa quindi all’analisi delle radici del fenomeno da estirpare, dividendole in biologiche, socio-economiche, giuridico-culturali e simbolico-religiose (cap. 4-7). Invito i lettori a seguire da soli l’autore rispetto a questa parte del libro e sfrutto il mio privilegio di recensore per concentrarmi su quello che a me pare il nucleo più prezioso del discorso. Cavadi afferma chiaramente che (pp. 30 s.)
«non è sul piano della fisicità che si possa sradicare la ragion d’essere biologica della supremazia maschile, bensì a livello di elaborazione culturale: là dove è possibile, per maschi e femmine, maturare una mentalità più radicale e più ampia di superamento della conflittualità come lotta animalesca, bestiale».
E aggiunge (p. 31):
«Sino a quando, nel sentire comune, verrà legittimata la logica dello scontro armato […] come mezzo per risolvere le controversie, i maschi si avvertiranno, più o meno consciamente, come incarnazione ovvia del modello virilistico, militaristico, bellicistico: un modello che sarà rafforzato, non certo scalfito, dal progressivo accesso delle donne alle carriere militari».
Che c’è di così buono in questi due passi?
a) Il rapporto con la realtà biofisiologica veramente differente fra i sessi viene sì messo in secondo piano (e pressoché ignorato nell’argomentazione e dal mio punto di vista sminuito a mera conflittualità), ma almeno è esplicitamente accettato come fatto (e non è moneta comune nel paradigma degli studi di genere!)
b) l’accento viene giustamente posto sulle mentalità e il fronte della battaglia spostato all’interno della coscienza di ogni singola identità personale, che nella visione di Cavadi resta sempre radicalmente libera di elaborare a modo proprio la proposta d’identità sociale che riceve. È ovvio che una rielaborazione della maschilità nel senso di un dominio maschile cosciente e deciso sulle donne non è quella che Cavadi e compagni cercano di promuovere, ma riconoscere all’avversario una certa coerenza è concedergli una sorta di dignità identitaria (questi, si spera, non potrà che ricambiare e si comincerà a discutere) ed è segno di buona cultura politica e, ancora una volta, di realismo (altre rarità discorsive da queste parti…)
c) la lucidità unita alla pratica: avrebbe senso fare autocritica, promuovere programmaticamente una visione diversa della maschilità (pp. 101-106) — che evidentemente né vorrebbe né dovrebbe necessariamente cercare il dominio su (ma neppure la sottomissione verso) le donne—, se non si cambiassero gli obiettivi umani generali (cioè comuni agli uomini e alle donne che fanno parte delle comunità umane) che l’evoluzione stessa della maschilità e della femminilità (ammesso che queste esistano almeno come ruoli di genere) ha contribuito e continua a contribuire a raggiungere? Mi sembra giusto riconoscere all’autore sia l’aver intrapreso un percorso che si annuncia difficile (altri si sarebbero subito fermati) sia l’aver avvertito i propri compagni di strada del muro contro cui sono destinati a sbattere e che provo a delineare un po’ più chiaramente, almeno dal mio punto di vista, di quanto abbia fatto lui (usando cioè termini e paradigmi, forse anche idee, che non sono sue, riservandomi di approfondire più avanti). La differenza (ovvero la non-indifferenza) fra i sessi umani è un risultato evolutivo molto importante che si traduce in programmi comportamentali così profondamente iscritti nei nostri geni che la loro espressione storica, senza risultare automatica in ogni individuo (e men che mai legittimante a livello politico qualsivoglia gerarchia o pedagogia), resiste a qualunque programma culturale o condizione sociale abbia finora tentato di contrastarla. La resilienza di questi programmi comportamentali selezionati geneticamente ha ovviamente a che fare con la sopravvivenza della specie, con la capacità di evitare o assumere rischi (per gli individui dei due sessi) e di sconfiggere nemici (dell’intera comunità) ed è direttamente proporzionale alla resilienza delle situazioni belliche (o almeno rischiose) che finora abbiamo affrontato, riuscendo a farlo con successo anche grazie a questi programmi comportamentali; situazioni che purtroppo tendono a ripresentarsi. Anche perché si può sempre decidere di rinunciare alla guerra per dirimere le controversie internazionali (come fanno molte costituzioni, inclusa quella italiana) ma non è possibile (è anzi imprudente) credere che la propria rinuncia implichi quella degli altri. Io non credo (al contrario di Cavadi) che la risoluzione dei conflitti con metodi violenti porti necessariamente all’(auto)identificazione del solo maschio come leader ideale delle comunità: in primo luogo perché non si finiranno di contare i maschi obiettori di coscienza (a chiamate emesse da uomini e donne) e Cavadi stesso conosce molto bene i movimenti pacifisti e non-violenti, pieni di donne ma anche di uomini (e non da ieri o l’altro ieri); e poi perché, se di elaborazione culturale si tratta, nulla ma proprio nulla vieta che le donne elaborino la propria identità sociale in senso dominante, militarista o bellicista (e lo sa anche Cavadi). E poi uomini e donne possono benissimo decidere di rielaborare il tutto affidando la propria sicurezza a eserciti di mercenari e mercenarie di cui non desiderano neanche conoscere la faccia. Ma vorrei essere più preciso: ho presentato questi due passi del libro come perle preziose perché suggeriscono che Cavadi ha capito (come quasi tutto il pensiero femminista ormai) che la violenza maschile è sintomo di processi molto complessi, che vanno ben al di là della questione relativa al sesso o al genere. Ragionare in questi termini sposta la questione dal paradigma degli studi di genere a uno un po’ più grande e altrettanto centrale: quello dei cultural studies. Se parliamo di patriarcato, parliamo di potere, di violenza, di stati e identità sociali (soggettività, genere, etnie…), di cultura. E le cose si complicano…
Perché il patriarcato è un cattivo sistema
Il sistema patriarcale è certamente, ha ragione Cavadi, un cattivo sistema. E non solo perché genera, giustifica o normalizza la violenza maschile contro le donne (in senso, ricordo, sia puntuale che strutturale), ma perché implica che all’interno di un gruppo un’identità sociale non possa realizzarsi pienamente (a livello personale) senza il dominio o la subordinazione violenta di un’altra (violenza strutturale)[1]. A titolo di esempio: quella delle società schiaviste[2]. E poi perché è talmente settario (basato, cioè, ideologicamente, sulla separazione di caste) da correre un rischio serio di ingiustizia irrimediabile. Questo sistema tende infatti — una volta separate le identità in dominanti e dominate[3] — a 3 fortificare la posizione dominante talmente tanto da promuovere sia violenze puntuali che forti risentimenti sociali strutturali: ogni pratica violenta puntuale (il)legale esercitata dall’alto in basso nella scala sociale rischia infatti di apparire ideologicamente giustificabile giacché le caste dominate — che si trovano in svantaggio empirico— ad ogni accenno di protesta possono essere facilmente tacciate di tradire il patto sociale e di fronte alle ingiustizie subite non possono che accumulare rabbia e sete di vendetta. Inoltre mentre la classe dominante (al netto di qualche scrupolo morale) può ricorrere alla violenza puntuale come valore sociale di ascesa all’interno della propria casta, in prospettiva inversa il ricorso alla violenza potrà apparire alle caste dominate come l’unico mezzo efficace per riscattarsi socialmente. Qui un esempio che riporto da un recente volume di E. Dorlin[4]. Come osserva acutamente la filosofa il rapporto disequilibrato di potere materiale che vige nei nostri Stati, almeno dalla modernità in poi, può dare luogo all’uso di un dispositivo difensivo da parte degli individui dominanti che tende a narrare ogni processo autodifensivo (o di resistenza) da parte dei dominati e delle dominate come aggressivo ovvero illegittimamente violento. Il dispositivo (basato, ricordo, su abissali differenze di potere) fa sì che ogni sforzo di resistenza da parte dei dominati e delle dominate sia inabile ed esitante salvo essere percepito dai (e dalle) dominanti come pericoloso e minaccioso. Dorlin prende spunto da un episodio già commentato da J. Butler all’epoca del suo svolgimento: il terribile pestaggio subito dall’afroamericano Rodney King il 3 marzo 1991 da parte di alcuni agenti di polizia, con il suo seguito processuale e di rivolta sociale (6 giorni di rivolta urbana a Los Angeles, sedata dalla polizia e dall’esercito con un bilancio di 53 morti e più di 2000 feriti). Gli agenti — una ventina contro uno— sostenendo di essersi sentiti minacciati da King saranno assolti e due di loro, in un secondo processo, riconosciuti colpevoli ma non per aggressione violenta — come capiterebbe a qualunque cittadino/-a— ma per uso inutile della forza. L’elemento di prova più importante del processo è stato il video del pestaggio girato da George Holliday, proprietario di un appartamento situato di fronte al luogo del pestaggio. Chi ha lo stomaco forte può visionare su youtube quel che il pubblico statunitense potè vedere quella notte stessa in televisione (ometto il link per pietà umana nei confronti di chi sta leggendo). È chiaro che la versione degli agenti è stata giudicata a partire da una narrazione che supera di gran lunga il livello oggettivo dell’attacco e della difesa. Una narrazione secondo la quale la preda è costruita come aggressore illegittimo. In un ordine sociale a caste separate (si pensi a Israele), la tensione continua si traduce in un clima di altolà permanente che prima o poi farà scappare il morto/la morta. Il cerchio della violenza è destinato a non chiudersi mai.
Patriarcato come potere iniquo
Ho parlato di caste e non di generi separati. Perché persino ammettendo un rapporto causale fra sesso e ruolo di genere, in effetti, anche se facciamo finta di non vederlo (ma lo ha fatto giustamente notare il primatologo R. Wrangham nelle Tanner Lectures di Stanford, anno 2022, dedicate all’evoluzione storica del patriarcato), quando pratichiamo il patriarcato a essere ridotti/e a ruoli subalterni (dunque a essere trattati/e in modo strutturalmente violento) non sono solo le donne (certamente non tutte e non tutte relegate allo stesso grado di subalternità e impotenza), ma anche quei maschi che non assumono l’intero (o parte) del ruolo assegnatogli, vuoi perché non vogliono vuoi perché non possono. Esattamente come accade alle donne, il destino degli uomini nei patriarcati non è uno e uno solo per tutti. Non tutti sono colpevoli, non tutte sono innocenti e le zone grigie sono densamente popolate da entrambi i sessi. Chi non si conforma con l'andazzo generale, o si conforma troppo con la propria posizione subalterna[5], uomo o donna che sia, soffre [6]. La nostra storia, innegabilmente, ci ha consegnato un gioco di specchi: immagini quanto mai reali di violenza e pregiudizi di genere, omofobia, maschilismo, tradizionalismo, razzismo, (post)colonialismo e via dicendo ci passano continuamente davanti agli occhi. E sono immagini che tendiamo a percepire nella loro povertà nuda e cruda (p.e. la lunghezza delle barbe, quella dei burka e il sesso di chi è costretto a portare gli uni e le altre…) ma che probabilmente, proprio in virtù della loro forza comunicativa, nascondono alla nostra vista il nocciolo esistenziale degli eventi che narrano. Come quando di fronte ad alberi floridi e straordinariamente alti non possiamo non vederne le foglie e i rami lunghissimi ma non riusciamo a percepire intera la profondità delle radici, credo che di fronte alla gabbia del patriarcato ci sfugga parte dell’essenziale.
Cercherò di spiegarmi con un esempio fra i più classici: Agamennone, leader degli Achei, che attendono invano il vento per salpare verso Troia, è disposto a sacrificare la figlia Ifigenia per la riuscita dell’impresa. La moglie Clitemnestra, 10 anni dopo, vendicherà la morte della figlia facendolo pugnalare dall’amante Egisto. Entrambi saranno assassinati da un altro figlio di Agamennone e Clitemnestra, Oreste, che ucciderà la madre per vendicare il padre. Ricapitoliamo: Agamennone uccide legalmente Ifigenia e si guadagna il rispetto degli Achei che, nonostante o proprio per la sua spietata coerenza, lo tengono per un capo fortissimo che merita grande rispetto. Clitemnestra fa uccidere illegalmente Agamennone guadagnandosi la morte per mano del figlio Oreste. Come non vedere che dietro alle Clitemnestra, agli Agamennone, alle Ifigenia e agli Oreste, ai funzionari di sicurezza, ai rivoltosi e ai Rodney King di tutti i tempi e d’ogni luogo si nasconde un rapporto di potere radicalmente iniquo che affibbia a tutti, a turno, tanto il ruolo di vittime che quello di carnefici da questa o quella parte della legge e della giustizia[7]? Tutto questo non vuol dire che una società patriarcale — quando si tratta di definire i livelli di agentività delle identità sociali che la compongono (quando si tratta quindi di stabilire quel che è lecito/usuale o illecito/inusuale pensino e facciano liberamente le rispettive identità: p.e. gli uomini e più o meno contrariamente/contraddittoriamente le donne, o gli stranieri/le straniere, gli/le autonomi/-e, i/le dipendenti…) - non crei una cultura che tende a perpetuare una gestione del potere e un’educazione a trazione sessualmente connotata e che quindi, vista una differenza, non tenda perennemente a enfatizzarla, a farvi leva, attribuendo (anche in malafede) caratteristiche talmente divergenti all’una o all’altra casta da inibire ogni mobilità sociale. Vuol dire che, contrariamente alle apparenze, il sesso biologico, pur giocando un ruolo causale nel destino di molte persone, non è il nocciolo concettuale del patriarcato e men che meno quello politico. Se si guardano alcuni patriarcati da vicino si vede benissimo p.e. che molto spesso la violenza puntuale contro le donne (o almeno alcune fra loro) è duramente sanzionata (non solo nella teoria ma anche nella prassi) e in molti patriarcati (fra i quali conterei molte democrazie occidentali, almeno negli ultimi 25 anni) quella strutturale (e persino quella simbolica) viene combattuta seriamente (a livello strutturale e anche a livello simbolico). Oggi in molte società occidentali il sesso biologico ha smesso di determinare automaticamente l’intero destino di una persona[8]. Le società umane sono talmente preoccupate dal problema della giustizia, della libertà e dell’uguaglianza di ogni individuo (ossia dal valore potere e da alcuni dei suoi controvalori [9]) che alcune fra queste (quelle democratiche in particolare ma di certo non solo loro) hanno trovato istituti legali espliciti eprassi di contrasto agli abusi, alle violenze e alle ingiustizie collegabili anche a differenze o pregiudizi di genere. Questi istituti e queste prassi sono certamente migliorabili (come tristemente dimostra la nostra storia politica post-illuminista) ma (e andrebbe ammesso con maggior entusiasmo di quanto si è soliti/-e fare) sono nati e cresciuti all’interno di quegli stessi sistemi socio-economici, giuridico-culturali e simbolico-religiosi tradizionalmente patriarcali (basati cioè sulla separazione non dei sessi in generale, ma fra chi concretamente domina e chi è dominato/a), che avevano contribuito a implementare tanto le identità dominanti che quelle dominate o dominabili come pure a reiterare le situazioni in cui questi abusi, queste violenze e queste ingiustizie si sono per lungo tempo verificate (p.e. è noto che la condizione degli schiavi è migliorata da quando è stata regolata da Stati terzi rispetto a quando è stata vissuta in società più semplici, in cui il rapporto padrone/a schiavo/a era soltanto diretto[10]). Come sa bene lo stesso Cavadi, l’essere strutturalmente sulla buona strada o addirittura fuori dal tunnel non significa che violenze e abusi non continuino o non tornino a verificarsi (pp.111-114); né è facile rendersi conto di vivere nell’acqua se si è nati pesci (p. 15). Per questo è necessario mantenere sempre una sorveglianza adeguata e una disposizione aperta all’autocritica.
Patriarcato come tendenza a monopolizzare la legge
Ma perché pur avendo, all’interno del patriarcato stesso, trovato rimedi alle sue disfunzioni continuiamo a star male o, peggio ancora, corriamo il rischio di ricadere penosamente nella fase acuta della malattia? Perché il patriarcato da combattere, molto più spesso che un’istituzione rigida (o totale in senso foucaultiano, che basterebbe una rivoluzione a buttare giù), è una possibilità sociale ad altissima probabilità di incidenza e resilienza. Per chiarire questo punto diventa imprescindibile prolungare lo sforzo di chiarezza sui termini del problema iniziato da Cavadi. Wrangham segnala che nella letteratura si tende a fare confusione fra patriarcato domestico e patriarcato sociale. Il primo non è un universale umano (in molte case comanda Socrate, in molte altre Santippe e certo ognuno di noi conosce esempi in cui, cultura sì cultura no, comandano entrambi d’amore e d’accordo). Il secondo sì. Nessun patriarcato, nemmeno il più violento, ha mai avuto la forza (e in moltissimi casi neanche l’intenzione) di fermare, subordinare, reprimere del tutto tutte le donne. In altre parole[11]: il patriarcato sociale consiste non nell’esercizio monolitico di una violenza continua nei confronti delle donne (e degli uomini dissenzienti), in un’atmosfera di lotta bestiale e animalesca fra individui di sesso diverso (ripropongo il punto zero dell’argomentazione di Cavadi in forma volutamente semplicistica e destrutturata), in un clima di persecuzione casa per casa ad ogni accenno di potere femminile (escluse forse le polizie islamiste a caccia di donne al volante o con il velo fuori posto), ma nella tendenza a monopolizzare la legge da parte di un gruppo preciso di uomini (non dell’intero genere!). Detenere la maggioranza (o l’esclusiva) dei poteri legali facilita a chi li detiene la possibilità (non certo la licenza incondizionata!) di dare precedenza ai propri interessi rispetto agli interessi e a volte persino ai diritti legalmente riconosciuti a chiunque altro, donna o uomo che sia. E a detenere il monopolio della legge, vale a dire a esercitare il patriarcato sociale, sarebbero secondo Wrangham gli uomini su tutta la terra.
Qui so già che qualcuno insorgerà dicendo che questo discorso vale per le dittature e le democrazie corrotte e burocratizzate, ma non per le società egualitarie più semplici e di cultura orale al centro della lecture di Wrangham e quindi la tesi del primatologo sarebbe approssimativa in quanto applicherebbe criteri moderni (la presenza del diritto) a società antiche (che non lo avevano e non lo hanno). Rispondo che Wrangham usa qui legge nel senso antropologico universale di L. Pospišil ovvero: una qualunque procedura basata su norme o precedenti cui si ricorre per risolvere conflitti, procedura che si manifesta in una decisione, presumibilmente applicabile anche in casi analoghi, presa da un’autorità politica, decisione che contiene una definizione della relazione diritto-dovere fra le due parti disputanti e che viene realmente tradotta in una sanzione pratica: dal dileggio pubblico alla reprimenda verbale, dalla detenzione temporanea all’esecuzione capitale [12].
Aggiungo che l’egualitarismo dei cacciatori-raccoglitori ha anche esso le sue eccezioni (notoriamente genere ed età) ed è spesso effetto di rimbalzo bibliografico. In queste società egualitarismo non vuole certamente dire né mancanza di conflitti né indifferenza assoluta nella divisione dei compiti sociali (p.e. nelle funzioni esecutive). È semplicemente falso sostenere che nelle società di cacciatori-raccoglitori manchino vuoi la divisione dei compiti vuoi la dimensione del diritto[13]. Ora: i vantaggi dell’avere una legge (pur se discriminante fra chi la esercita e chi la subisce) sono sotto gli occhi di tutti e non desta meraviglia che tutte le società umane, dalle più semplici alle più complesse, vi abbiano fatto ricorso, anche con maggiore o minore energia nel difendere la giustizia nei confronti dei propri consociati e delle proprie consociate!
Perché non ci si ribella?
Sì ma perché le società umane tendono a mettere in conto insieme agli effetti positivi della legge anche quelli deteriori (p.e. gli abusi o gli svantaggi strutturali per alcune identità minoritarie o non al vertice della scala sociale) ribellandosi — tutto sommato— molto raramente? E poi bisognerà anche chiedersi perché nelle società umane a sforzarsi di monopolizzare la legge sono stati gli uomini invece delle donne (con diversi cedimenti, ampiamente testimoniati dall’archeologia e dalla storia: salvo poche eccezioni istituzionali rigidamente maschiliste — come p.e il papato e il sacerdozio nella chiesa cattolica romana o l’ayatollato iraniano— anche il patriarcato ha saputo darsi dei limiti!).
La prima questione è facile da risolvere: a godere degli effetti positivi della legge è sempre il gruppo (l’intero, fatto di dominanti e di dominati-e), a subire un abuso è sempre un(a) singolo-a (o un’identità minoritaria). L’abuso contro un(a) singolo-a non mette quasi mai seriamente a repentaglio il benessere del gruppo perché ne scalfisce appena la capacità di cooperare a grande scala proficuamente, la capacità (in cui la specie umana eccelle) che ci permette p.e. di mantenere sedute in buon ordine su un aereo intercontinentale centinaia di persone, di sesso diverso, che non si conoscono le une con le altre— uniche fra i primati a essere così pacifiche da riuscirci—, fiduciose tutte di arrivare a destinazione sane e salve: figurarsi che è possibile mettere insieme gli esseri umani più violenti di tutti (maschi giovani) per farli cooperare in modo meravigliosamente efficace (e generoso fino all’autosacrificio) contro un nemico in guerra! Sono proprio i benefici derivanti da questa capacità di cooperazione a grande scala che la legge garantisce e realizza, in primis attraverso l’azzeramento della libertà di aggressione mutua dei singoli e delle singole, nel tentativo, ahinoi vano, di livellare le ingiustizie. Di fronte all’abuso sul(la) singolo/a i vantaggi per il gruppo sembrano dunque prevalere. Sì, ma perché i singoli abusati/le singole abusate non si si ribellano? Perché, come affermano sostanzialmente gli studi postcoloniali, si autopercepiscono (sono percepiti/e e vengono aiutati/e a percepirsi) come minoritari/e (meno credibilmente potenti)[14].
Il secondo interrogativo è profondamente più complesso da risolvere. Perché dappertutto sono gli uomini a occupare posizioni di potere più spesso e più a lungo delle donne? Wrangham (con lontanissimi echi freudiani) ipotizza all’origine del patriarcato sociale un paradosso che riporto al condizionale perché lo trovo sostanzialmente convincente a livello teorico ma difficile da dimostrare (e da maneggiare con molta cura) a livello empirico: per incrementare l’agentività dei singoli e il benessere del gruppo rispetto all’agentività e al benessere del singolo alpha-male i nostri antenati maschi-beta si sarebbero coordinati in atti di TCK (Targeted Conspiratorial Killing). Si sarebbero cioè messi d’accordo per uccidere legalmente (mente a Pošpišil) maschi più forti e più aggressivi di loro (gli alpha). L’unione dei tanti maschi meno aggressivi avrebbe insomma fatto la forza… e la rovina dei pochi più aggressivi. Sarà, ma perché a congiurarsi non sono state le donne? Al riguardo Wrangham tace, salvo osservare che fra i nostri cugini bonobo sono proprio le bonobo-femmina a eliminare in modo organizzato i maschi che dànno segni di eccessiva aggressività. E guarda caso fra i bonoboa comandare sono le femmine… Sempre di una forma di violenza si tratterebbe insomma, che ne limita un’altra. Un modo di eliminare i geni del più forte o almeno di neutralizzarne la violenza attraverso l’esercizio di una violenza più efficace perché comunemente gestita.
Wrangham e la vera radice del patriarcato
Ma (e qui le cose diventano interessanti anche perché sono fisiologicamente differenti, come hanno ben descritto fra molti altri lo stesso Wrangham e lo psicologo D.M. Buss) non si uccide l’alpha-male come il toro, reagendo alla minaccia del drappo, travolge il torero nell’arena[15]. Né lo si abbatte predatoriamente (come il ghepardo azzanna la gazzella nella savana). L’aggressività e la violenza della legge sono proattive cioè pianificate freddamente (i processi ormonali e di neurotrasmissione coinvolti in questo tipo di atti sono molto diversi da quelli che ci aiutano a raggiungere i nostri obiettivi nelle situazioni di difesa solitaria o di caccia comunitaria o solitaria) ed eseguite dall’intero gruppo dominante (ex-dominato) con (almeno nelle intenzioni) il minor rischio possibile per chi sta attaccando. E come l’esperienza insegna, come Cavadi rimarca, la biologia conferma e la psicologia ne prende atto (si veda lo studio davvero imponente di J.F. Bennenson sulle differenze psicologiche fra bimbe e bimbi, ragazze e ragazzi e quindi uomini e donne)[16] quando si tratta di pianificare ed eseguire atti di violenza collettivi minimizzando i rischi per il gruppo (anche a rischio di sacrificare se stessi) i maschi sono molto più bravi delle femmine proprio perché sono naturalmente meglio attrezzati a farlo rispetto alle donne. Questo talento maschile per la cooperazione bellica biologicamente fondato avrebbe, se crediamo a Wrangham, permesso agli uomini di arrivare prima delle donne a giustiziare l’alpha-male e costituirebbe la vera radice storica del patriarcato. Ma chi (uomo o donna che sia) cederebbe di buon grado una posizione di potere faticosamente acquisita? Possibile che gustato il frutto proibito gli uomini tendenzialmente non lo abbiano più mollato? Si cede soltanto se si è obbligati/e o se si è matti/e (è il caso di Re Lear). Per convincersi della probabile correttezza di questa affermazione basta riflettere sulla storia di quasi tutte le cariche elettive che, la storia ci insegna, tendono prima o poi a diventare dinastiche, macinando in questo processo qualunque criterio prestabilito, persino quello della legittimità di genere. Perché si può insomma anche riconoscere in teoria che l’esclusione delle donne (o di chiunque altro) dai più alti centri di potere (esclusione di fatto in almeno sette ottavi del mondo) sia cosa moralmente abietta, ma persino nell’ottavo virtuoso del mondo fra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Mare in cui ci si può imbattere in venti nuovi e più freschi ma anche in relitti ormai in disuso, la cui memoria tuttavia è sempre riattivabile (ecco perché la sorveglianza, la testimonianza, l’apertura all’autocritica e l’attenzione verso chi soffre sono sempre necessarie). Tanto più che le differenze naturali, come quella sessuale, continuano ad esistere. Che le si usi, al momento, per determinare agentività identitarie (ovvero giustificare gerarchie sociali) o no.
Ma le cose stanno veramente così?
Personalmente trovo la spiegazione teorica della pervicacia del patriarcato sociale (come tendenza) assolutamente plausibile. Lo scenario cronologico (la gara di corsa fra i due sessi a chi uccide per primo il maschio alpha) molto meno. Credo che su questo punto siamo un po’ tutti vittime del paradigma epistemologico all’interno del quale siamo tornati a dibattere: la domanda relativa all’incapacità delle donne di coordinarsi per uccidere l’alpha-male è probabilmente predeterminata in eccesso dalla questione in cui sorge, quella del patriarcato, di per sé già iperconnotata dal punto di vista del genere (ovviamente nell’accezione comune, non in quella che mi sono sforzato di presentare in questa recensione). E non è un caso che Wrangham, con tutti i dati di cui dispone, non possa renderne conto in maniera convincente. Se qualcuno ci chiedesse perché gli uomini hanno più talento delle donne quando si tratta di menar le mani la risposta che tutti daremmo sarebbe più o meno questa: perché gli uomini sono più bravi a uccidere, sono più aggressivi (come dimostrano tutti gli studi), hanno più testosterone, sono più forti ecc. E avremmo tutte le ragioni del mondo di sostenere queste tesi. Lo stesso Cavadi sembra parlare al riguardo di supremazia fisica maschile, aggiungendo (p. 30) che oggi le donne, in società di relativo benessere economico, grazie alla cura della propria corporeità e particolarmente migliorando le loro tecniche di difesa, possono ridurre gli squilibri fra i sessi. Possibile. Ritengo tuttavia che qui si faccia confusione fra due stili fisio-/sociologici di violenza: quello individuale/ reattivo e quello sociale/proattivo. Un conto è la capacità di ogni singolo individuo di far del male, se necessario, agli altri e alle altre, ben altro quello di un’intera comunità. Credo che Cavadi stesso trovi questo punto evidente tanto che bandisce rapidamente il piano fisico-biologico dalla sua argomentazione. Si dirà (lo vedremo), con Bennenson[17], che gli uomini (osservati in natura e non in laboratorio) sono più bravi a formare gruppi ad hoc, squadre più grandi e più efficaci nello svolgere una missione (task forces) rispetto alle donne. Vero. Ma sospetto che l’errore (non di Cavadi ma dell’intero paradigma) sia più profondo. Cavadi guarda (come del resto Wrangham) alla differenza fra i sessi inquadrandola in comunità che hanno finito per essere tendenzialmente patriarcali, ma neppure Wrangham è disposto a pensare che in quelle comunità umane (fatte cioè di due sessi politicamente uguali) uomini e donne fossero in lotta permanente fra di loro.
Mi permetto allora di proporre una piccola modifica alla tesi di Wrangham. I maschi-beta hanno ucciso gli alpha non prima delle donne ma d’accordo con le donne. Sto immaginando dietro a ogni antenato-beta tante Lady Macbeth che sussurrano al proprio partner di uccidere l’alpha? No: ma posso tranquillamente figurarmi le nostre antenate scegliere liberamente come partner sessuali maschi-beta. Non solo perché non c’erano più gli alpha a tentare (invano) di monopolizzarne gli uteri e a castigare il libero amore, ma anche perché probabilmente quelli beta piacevano loro di più[18].
Torno ad appoggiarmi a Wrangham mettendo insieme tre sue famosissime ipotesi: la teoria TCK (di cui ho già discusso), la svolta culturale come aumento di cooperazione e la domesticazione dei sapiens… per vedere l’effetto che fa. La riduzione di aggressività reattiva (attraverso l’eliminazione fisica dei maschi più aggressivi, proattivamente pianificata da quelli individualmente meno aggressivi a caldo ma altrettanto malvagi a freddo e in compagnia) da un lato ha implementato la capacità cooperativa di tutto il gruppo (femmine comprese) e di conseguenza ne ha reso la cultura più ricca, dall’altro (pur avendo prodotto come effetto collaterale il patriarcato) ha fatto degli esseri umani che oggi siamo una specie simile a quelle addomesticate dall’uomo, una specie in cui le differenze ontogenetiche e fisico-biologiche fra maschi e femmine sono molto meno pronunciate che in natura[19]. Nello scenario che ho appena cercato di delineare, con gli strumenti della psicologia evolutiva e osservando le cose da un punto di vista biologico, i sessi presenti in una comunità non sono in alcuno stato di reciproca guerra originaria, sono semplicemente complementari. La ragione di tanta concordia è che lavorano allo stesso obiettivo: sopravvivere con giustizia (e ci riescono anche attraverso un minimo sindacale di felicità da condividere!). Che le cose potrebbero stare così, lo si capisce considerando serenamente lo studio di Bennenson. La psicologa (supportata da un numero esorbitante di dati raccolti sui cinque continenti e da società a diversi livelli di sviluppo socioculturale[20]) rileva che già molto presto nel corso del loro sviluppo (ovvero molto prima che i maschi superino in forza fisica le femmine e gli uni e le altre abbiano un concetto esplicito di ruolo di genere) i bambini e le bambine differiscono per quanto riguarda interessi e comportamenti. Questo dato empirico inequivocabile (sui grandi numeri! Non riscontrabile automaticamente in ogni singolo individuo!) costituisce un indice di differenza innata fra i sessi che molto probabilmente è il risultato di eventi selettivi, decisivi cioè per la riproduzione dei nostri antenati e delle nostre antenate. In sostanza i bambini e le bambine che avrebbero evitato una morte prematura (cosa che accadeva probabilmente a uno su due fra i e le sapiens sapiens che ci hanno preceduto ) sarebbero stati quelli e quelle più capaci di comportarsi in modo da evitare morti premature risultanti da situazioni rischiose. Questi individui avrebbero dunque avuto modo di seguire più a lungo e nel modo più efficiente possibile l’educazione della propria prole (fino a che questa si riproducesse a sua volta). I comportamenti attraverso i quali le femmine si sarebbero selezionate sarebbero grosso modo questi: prestare attenzione allo stato di salute del corpo proprio o altrui, evitare conflitti, trovare un partner affidabile eliminando la concorrenza, passare molto tempo con i bambini (o giocare a farlo). A fare la differenza per i maschi sarebbero stati il gusto di competere fisicamente con gli altri bambini e quindi con gli altri uomini (in senso ludico-sportivo e per i giovani anche bellico), la capacità di scegliersi degli amici forti e abili in ambiti diversi, competere all’interno di gruppi (in senso ludico-sportivo e in senso bellico). Bennenson non intende dire che alle donne non piaccia competere in gruppi né che i maschi provino indifferenza verso la propria prole. Si tratta semplicemente di tendenze e livelli di talento e/o gradimento differenti nello svolgere determinate attività. Non è un caso, continua Bennenson, che le differenze di intensità di tendenza rilevate armonizzino con il peso specifico delle madri rispetto a quello dei padri nella vita dei bambini: in molte specie animali (e anche fra gli esseri umani fino a non molto tempo fa) la morte di una madre scatenava automaticamente anche quella della prole. Questo fatto avrebbe reso la capacità di non rischiare la prima priorità di una femmina (che si difendeva essendo p.e. meno facilmente disposta a giocarsi la pelle o a rischiare di ferirsi in giochi pericolosi o interagendo con animali, di quanto non facesse un maschio). Sulla base di queste tendenze le donne si sarebbero specializzate nel prendersi cura dei e delle più fragili del gruppo (a cominciare da se stesse), gli uomini (specie se non padri) di combattere guerre a difesa o a vantaggio di tutto il gruppo. Nessuno di noi sarebbe cosciente di essere un warrior o una worrier — prosegue Bennenson—, si tratta in sostanza di programmi comportamentali base che ci lavorano dentro continuamente e che possono aumentare o diminuire d’intensità o incidenza a seconda delle situazioni in cui ci tocca vivere. Il che vuol dire che in assenza di guerre e in situazioni di scarsità riproduttiva uomini e donne (non bambini e bambine!) si comportano in modo estremamente simile[21].
Conclusione
Tiro le mie personali somme filosofiche da questi dati scientifici e da come sono stati interpretati (e nel farlo ricordo, se fosse necessario, che ciascuno-a è ovviamente libero/a di tirarsi le proprie!):
- le differenze fra i sessi sono un’evidenza morfologica la cui sdrammatizzazione biologica è andata a vantaggio di tutto il gruppo (aumento di cooperazione, comunicazione pacifica, accelerazione culturale).
- Se politicamente si procede in senso contrario alla natura (ovverosia si enfatizzano queste differenze) — come si tende a fare nel patriarcato sociale o in altre forme di organizzazione orientate a separare rigidamente le identità (precedute e supportate da retoriche supportanti visioni del mondo in cui si affibbiano a briglia sciolta vittimizzazioni e colpevolizzazioni collettive)
- alla lunga aumenteranno tanto il livello di ingiustizia che il gusto per la violenza (cioè l’impiego strutturale e in malafede della stessa)[22].
Sdrammatizzare politicamente differenze biologiche evidenti non vuol dire però neutralizzarle o virtualizzarle del tutto. Se è vero (e credo sinceramente che lo sia e che abbia ragione J. Butler al riguardo)
a) che il ruolo di genere è vissuto performativamente dagli esseri umani (che non sono monadi biologiche ma vivono in società che devono sforzarsi di essere giuste e penano a farlo ad intra, figuriamoci ad extra) e
b) che di certo sia intellettualmente onesto riconoscere che un essere umano non è solo la sua capacità di riprodursi (ovvero che il nesso di causalità fra il sesso biologico e l’identità sociale sia intellettualmente labile), non ritengo possibile ignorare radicalmente
a) né i risultati evolutivi della selezione naturale (che non parlano di lotta fra i sessi ma di complementarietà e aumento di cooperazione)
b) né i dati sessuali morfologici dati alla nascita (che di certo non vengono scelti liberamente da chi poi se li ritrova ma fino a non molto tempo fa nessuno poteva esserne chiamato a rispondere). Questi valori non sono neutri (portano con sé doti diverse), non vanno assolutizzati (di fatto nessuna educazione rinuncia a insegnare l’autocontrollo, anche se troppe lo limitano a chi fa parte del proprio gruppo) ma neanche ignorati. Freud ci ha avvertito dei problemi che una secolare educazione repressiva ci ha dato ma una deculturalizzazione radicale dell’educazione (laddove fosse possibile) non potrebbe che dare luogo a una ri-naturalizzazione della stessa[23]. In un mondo abbastanza improbabile in cui bambini e bambine fossero lasciati/e a se stessi/e ad agire resterebbero alla larga i programmi comportamentali individuati da Bennenson (salvo che non scegliessimo di selezionarci in senso contrario o diverso, come oggi in una parte del pianeta siamo teoricamente in grado di fare). Se è certo che questi programmi ci aiuterebbero a sopravvivere (come hanno fatto finora) è altrettanto probabile che gli effetti (tanto quelli positivi che quelli) deteriori in termini di violenza e (in)giustizia tornerebbero probabilmente anche essi a riprodursi. Ma — con riferimento all’avvertimento di Cavadi relativo al nesso fra tendenza patriarcale e militarismo bellicista, da me riformulato a posteriori—questo vuole forse dire che qualunque seconda possibilità, qualunque forma di autocritica, qualunque lente di auto-osservazione che ci permetta di identificare ed eliminare forme di violenza e ingiustizia inerenti al nostro stesso modo di vivere, siano condannate a restare un esercizio completamente inutile? Non credo proprio. Gli esseri umani (come moltissime altre specie sociali) fanno uso da milioni di anni di vari codici comunicativi utili a ridurre lo stress sociale (lo stress provocatoci dall’eccessiva vicinanza di altri individui): dal grooming alle risate comuni, dalle visioni del mondo condivise alle storie da raccontarsi[24]. E infine il linguaggio stesso: fin quando continueremo ad aver voglia di parlare (invece di picchiarci o darci le spalle) non sarà ora di spegnere la luce.
Francesco Azzarello
[1] Cavadi ne annoverava fra le prime vittime i patriarchi stessi.
[2] V. E. Dorlin, Sexe, genre et sexualités, Paris 2023 (3a ed.) pp. 71-89.
[3] Per una disamina dei notissimi rapporti fra la filosofia femminista, il post-moderno e gli studi 3 postcoloniali rimando a C. Enjalbert “La grande marche des éveillés” in Philosophie magazine, Dicembre 2022/Gennaio 2023, pp. 52-55.
[4] Se défendre. Une philosophie de la violence, Paris 2017, p. 31.
[5] Cf. P. Grosos, La philosophie au risque de la préhistoire, Paris 2023, pp. 133-137 riguardo alla visione aristotelica della diversa posizione di donne, infanti nonché schiavi e schiave, nella Grecia classica patriarcale.
[6] Sulla sofferenza come criterio di verità e legittimazione nella nostra contemporaneità si vedano O. Roy, L’aplatissement du monde. La crise de la culture et l’empire des normes, Paris 2022, pp. 183-204 e G. Bronner, Les origines. Pourquoi devient-on qui l’on est?, Paris 2023, pp. 29-65.
[7] Se non bastasse l’esempio che ho appena proposto invito lettori e lettrici a riflettere sulla pratica 7 neolitica di giustiziare e/o sotterrare donne e uomini non liberi (consenzienti o meno) insieme ai corpi dei loro ricchi proprietari in occasione del decesso di questi ultimi: v. A. Testairt, Morts d’accompagnement: la servitude volontaire I, Paris 2004. Più in generale sulla natura profonda del rapporto fra dominio e potere v. E. Dorlin, Sexe, genre et sexualités, cit., pp. 111-133.
[8] V. O. Roy, Op. cit. pp. 155-182.
[9] Per una teoria esaustiva intorno ai valori umani rimando a S.H: Schwartz “ An Overview of the Schwartz Theory of Basic Values” in Online Readings in Psychology and Culture, 2012, 2, 1 (on-line).
[10] V. A. Testairt, L’origine de l’État. La servitude volontaire II, Paris 2004 e relativamente al mondo 10 greco antico P. Ismard, La cité et ses esclaves. Institution, fictions, expériences, Paris 2019.
[11] Avverto chi mi legge che la visione positivista del patriarcato di Wrangham (che io ritengo 11 vantaggiosa per la riflessione e la soluzione del problema), se fosse conosciuta nel paradigma degli studi di genere, sarebbe probabilmente percepita come riduttiva.
[12] Adventures in the “Stone Age”. A New Guinea Diary, Praga 2021, p. 166 s. 12.
[13] E come ha dimostrato A. Testairt, in Les Chassseurs-cueilleurs ou l’origine des inégalités, Paris 1982, già la sedentarietà e lo stoccaggio alimentare (e non l’invenzione dell’agricoltura) hanno portato alle disuguaglianze sociali. Del resto, secondo gli archeologi persino il controllo del fuoco pretende una certa cooperazione e una certa divisione di compiti. La posizione più vicina al focolare degli artigiani paleolitici rispetto agli altri elementi del gruppo costituirebbe un primo segno evidente di gerarchia sociale (v. J. Demoule, Naissance de la figure. L’art du paléolithique à l’âge du Fer, Paris 2017, ed. rev.)
[14] V. il volume di E. Dorlin indicato nella nota 7, pp. 71-89. Semplificando un po’ a fini di chiarezza 14 direi che la stabilità di un sistema di potere è tutta questione di efficienza e percezione. Se il sistema funziona non c’è menzogna incapace di passare per verità né nefandezza inaccettabile. Se il sistema, al contrario, è inefficiente le verità di ieri prima o poi si rivelano conclamate bugie, il livello di tolleranza alle ingiustizie da parte dei singoli e delle singole scende drammaticamente (il singolo malumore unendosi al prossimo venturo) e il rispetto verso le autorità crolla prima ancora degli idoli che queste stesse hanno innalzato. L’aggressività sale e la violenza può seguirla velocemente. La propaganda può rallentare ma non fermare il processo. Molti di noi ricorderanno il discorso di Craxi alla camera su Tangentopoli (tutti sanno…), la gogna delle monetine al Raphaël e il triste seguito della storia.
[15] V. D.M. Buss, The Murderer Next Door. Why the Mind is Designed to Kill, New York 2005.
[16] Warriors and Worriers. The Survival of the Sexes, New York 2014 (with H. Markovits).
[17] Vedi nota precedente.
[18] So bene che certo pensiero femminista non riesce a percepire scelta libera alcuna in 18 qualsivoglia rapporto eterosessuale mai datosi sul pianeta (in particolare dall’invenzione dello stato moderno in poi). Comprendo il ragionamento (e ne vedo il senso per quanto riguarda gli effetti politici) ma non ne condivido la generalizzazione, non ne vedo insomma il realismo nel quotidiano individuale anche perché chi difende questa tesi al riguardo non considera quel che in altre occasioni dà per scontato, cioè che la sessualità (in tutti i primati, ma in particolare fra i bonobo e i sapiens, unici a scegliere di praticare la sessualità anche faccia a faccia) ha una funzione comunicativa e sociale che va al di là della semplice riproduzione (anche se non la esclude). Ritengo che lo stesso valga per l’istituzione matrimoniale, che non penso possa essere ridotta a una mera fabbrica di umani e a uno spazio legale per lo stupro, pur riconoscendo che in molto più di un caso e in molte culture lo è stata e lo può essere.
[19] E che gli uomini e le donne siano meno differenti che i maschi e le femmine nel resto dei primati 19 e nei nostri diretti antenati (i primi sapiens) lo confermano tanto l’archeologia che la genetica. Si veda, dello stesso R. Wrangham The Goodness Paradox. The Strange Relationship Between Virtue and Violence in Human Evolution, New York 2019 (che pur insistendo sul TCK non esclude una domesticazione soft realizzata cioè nella libertà sessuale).
[20] Vedi nota 16.
[21] Lo studio di Bennenson restituisce un’immagine priva di giudizi di valore di maschio e di femmina molto meno stereotipica e più variegata e di quanto sembri a prima vista e di quanto il paradigma degli studi di genere sia solito fare (anche rispetto a Cavadi relativamente ai maschi). P.e. la psicologa osserva che una volta superati i 25 anni, una volta trovata una partner o essersi riprodotti il livello di testosterone negli uomini diminuisce. Questo vuol dire che diventano più pazienti e più inclini ad interessarsi ai e alle più deboli (prendersene cura, esattamente come le donne). Per parte loro le donne (con tutte le loro qualità positive), che in genere vengono raccontate come più portate a lavorare in gruppo (le osservazioni di Bennenson stupirebbero anche al riguardo) e più pacifiche rispetto agli uomini sono capaci delle peggiori nefandezze (p.e. l’esclusione sociale o la maldicenza) quando si tratta di eliminare la competizione intorno al partner (e infatti preferiscono avere meno amicizie rispetto agli uomini). Ma mi fermo qui e rimando al libro per ulteriori dettagli prima di concludere.
[22] A proposito di impiego della violenza in malafede si veda il resoconto dell’omicidio 22 dell’afroamericano Trayvon Martin e del relativo processo riportato in E. Dorlin, Se défendre. Une philosophie de la violence, Paris 2017, pp. 357-360.
[23] Non sto dicendo che cultura e natura vadano contrapposte (come si faceva erroneamente fino a non troppi anni fa). Sto solo suggerendo che l’abbattimento degli edifici culturali non porterebbe a una tabula rasa, a uno spazio talmente vuoto da essere del tutto libero di riempirsi come gli pare. A una deculturalizzazione segue di norma un’acculturazione. E tenderei a non fidarmi di chi pensa che gli umani possano vivere senza cultura. Se oggi la rete non ci permette di percepire una cultura dominante magnificando di continuo subculture che fanno capolino fra le macerie delle culture andate, non è detto che in futuro le cose debbano restare così (V. O. Roy, Op. cit. pp. 49-69).
[24] V. R. Dunbar, Human Evolution, London 2014.
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