LA FELICITA’ SI "CONQUISTA" O CI SI "DISPONE AD ACCOGLIERLA"?
Almeno dal 1776 (anno in cui, nella Costituzione degli Stati Uniti d’America, all'articolo 1 la felicità è stata qualificata come un “diritto innato e inalienabile”), si sono moltiplicati i corsi, i seminari, le conferenze, i manuali su come raggiungere la felicità. A tanto investimento intellettuale non pare abbiano corrisposto risultati proporzionati. Anzi, per dirla con franchezza: la felicità, negli spazi individuali e ancor più nei collettivi, scarseggia. Che non ci sia, allora, qualche errore d’impostazione?
Innanzitutto, probabilmente, non è azzeccato il vocabolo “diritto”. Esso presuppone logicamente un “dovere”: il diritto di un bambino a essere nutrito è correlato al dovere dei genitori di nutrirlo così come il diritto di un dipendente a un equo salario è correlato al dovere di un datore di lavoro di pagarlo. Ma chi ha il “dovere” di renderci felici? La società, la natura, Dio, la sorte, lo Stato?
Allora dovremmo essere più precisi: ogni essere umano ha il diritto di non essere impedito nella sua ricerca della felicità o, al massimo, di essere favorito nella sua ricerca della felicità.
La “palla” viene gettata dal campo avversario al nostro: siamo noi che dobbiamo fare i conti con la felicità. E, come primo passo, dobbiamo chiederci che cosa essa sia per noi.
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