«Le nuove frontiere della scuola», anno 2023, marzo, n. 60
Dodici stereotipi sul fenomeno mafioso
Già negli anni Ottanta (del secolo scorso) un’attenta sociologa, Graziella Priulla, notava la transizione, in tema di mafia, «dal silenzio al rumore»[1]. Il rumore sulla mafia è polifonico: intessuto di vecchi miti, interpretazioni folcloristiche, chiacchiere da caffè, narrazioni strumentali, pregiudizi di vario genere...Ecco perché ogni discorso sensato – intendo: documentato e argomentato - sul sistema di dominio mafioso non può non partire da una bonifica che sbarazzi il campo dagli stereotipi (o luoghi comuni). Anche se si tratta di un’operazione non facile dal momento che
«gli stereotipi assolvono soprattutto a due funzioni: la prima è una funzione rassicuratrice, di avallo della giustezza delle rappresentazioni e dei comportamenti dati, cioè dei conformismi sedimentati; la seconda è quella di rimozione e demotivazione di processi di conoscenza che porterebbero alla problematizzazione e messa in crisi delle idee e dei comportamenti correnti»[2].
Un primo stereotipo potremmo qualificarlo come genetista o, più brutalmente, razzista: la mafia è una caratteristica del DNA dei meridionali italiani e, in particolare, dei siciliani. Se ne possono smussare le manifestazioni, ma non può essere certo estirpato. In quanto tale è un fenomeno localistico, circoscrivibile, che può macchiare con i suoi schizzi altre aree del Paese e del mondo (vedi Stati Uniti d’America) solo attraverso i flussi migratori: se si controllano questi, si controlla il contagio inter-regionale e internazionale.
In evidente opposizione a questo primo luogo comune ne è stato elaborato un secondo: la visione della mafia come invenzione del Settentrione italiano tesa alla “criminalizzazione della Sicilia e dei siciliani, da parte dei cattivi che scendono dal Nord”, in particolare ad opera della “sociologia rampante” che troverebbe nei mass-media un altoparlante interessato. Che questa visione, alimentata da un “sicilianismo recente o antico”, sia infondata è dimostrato da quelle ricerche empiriche su come “la stampa del Nord veda il problema mafia”: “con tutte le carenze, le lacune, con tutta la superficialità, però non abbiamo mai trovato un solo esempio di criminalizzazione indebita della Sicilia”[3].
Questi primi due stereotipi originano, a mio parere, dalla difficoltà di determinare con una certa precisione il rapporto problematico fra la ‘cultura’ siciliana e la ‘cultura’ mafiosa[4]: che non è né di totale separazione/estraneità né di totale identificazione/sovrapposizione. Infatti la ‘transcultura’ mafiosa ha attinto, a piene mani, dal patrimonio culturale siciliano (esasperando, deformando, strumentalizzando idee, simboli, valori, tradizioni, usi, costumi...), ma se in origine tutti i mafiosi sono siciliani, non è mai stato vero che tutti i siciliani siano stati mafiosi. Anzi: la storia della mafia si intreccia, sin dai primi passi nella seconda metà dell’Ottocento, con la storia dell’antimafia.
Chi ritiene di non poter negare l’esistenza della mafia in Sicilia trova, spesso, rifugio in un terzo stereotipo: la mafia come “malattia”. Da questa angolazione
“il corpo dello Stato, le istituzioni, la democrazia italiana, sono buoni, corretti, capaci di esercitare le proprie funzioni, ma arriva, non si sa bene da dove, una malattia, un contagio, un virus che perverte tutto questo, che trasforma in cancro il funzionamento generale dell’organismo, il quale ne risulta non soltanto impoverito, ma prossimo al collasso, per ragioni inspiegabili ed esogene, non prodotte dall’interno”[5].
Non si capisce, o non si vuole capire, che il sottosistema mafioso non allignerebbe né vigoreggierebbe se il sistema socio-economico-politico-culturale in cui è incistato non fosse mafiogeno.
Se si capisse questo nesso si eviterebbe la formula banale (un quarto stereotipo) della mafia come emergenza:
“Uno dei termini maggiormente in uso, soprattutto sulla stampa e alla televisione, è quello di «recrudescenza» de fenomeno mafioso [...]. Se i delitti superano un certo numero, ovviamente imprecisato, si parla di «emergenza». Sembrano termini innocui, ma in realtà essi sottintendono un’idea di mafia come mera fabbrica di omicidi, che «sospende le attività» tra un omicidio e l’altro: una visione che potremmo definire di tipo «congiunturale». La mafia invece è un fenomeno continuativo, strutturale, che svolge molteplici attività e usa l’omicidio secondo una logica di «violenza programmata»[6].
L’idea che la mafia sia essenzialmente un’attività bellica (i mafiosi contro lo Stato e i mafiosi tra loro stessi) è alla base di un quinto pregiudizio: la mafia come recinto violento rispetto a cui restare esterni se si vuole restarne immuni.
“Secondo affermazioni diffusissime «i mafiosi si uccidono tra di loro. Se ti fai i fatti tuoi non ti toccano. La morale che c’è dietro è duplice: gli omicidi dei mafiosi sono come un fatto naturale, che non riguarda il tessuto sociale; il comportamento consigliato è il «farsi i fatti propri», cioè la passività, l’astensione non solo dall’intervenire ma pure dal vedere e sentire”[7].
Quando questo luogo comune è messo in crisi da uccisioni di magistrati o poliziotti viene aggiornato: è vero, non sono mafiosi, comunque hanno scelto professionalmente di avere a che fare con la mafia. Se poi a cadere sono passanti occasionali, come la madre dei due bambini della strage di Pizzolungo, lo stereotipo viene elevato al quadrato diventando ancora più tragicamente comico:
“Sono «poveri innocenti che non c’entravano»: qui «innocenti» vuol dire «non addetti ai lavori». La mafia, quando uccide gli «innocenti», è «disumana», aggredisce l’intera «comunità umana», come se uccidendo un giudice o un giornalista eliminasse un «colpevole» e desse prova di umanità”[8].
Strettamente legato a questo stereotipo se ne può individuare un sesto: la mafia come effetto di poteri lontani. Indubbiamente, dall’unificazione del regno d’Italia a oggi, la mafia siciliana ha fruito di rapporti privilegiati con i governi nazionali che, secondo le stagioni politiche, hanno tentato di negoziare per strumentalizzarla anziché contrastarla per estirparla. Ma ciò non significa che la Sicilia – e Palermo in particolare – abbiano, per un solo periodo storico per quanto breve, trasferito a Roma la direzione centralizzata delle cosche mafiose. La capitale, sede del cervello organizzativo, è rimasta – purtroppo – dove è stata sin dall’origine ottocentesca. Come la stessa – per fortuna - è rimasta la capitale dell’antimafia, dove si sono elaborate le strategie vincenti e dove si sono pagati i prezzi più alti in termini di vite umane.
Estremizzata, questa visione vittimistica della mafia sfocia nell’affermazione – apparentemente ‘rivoluzionaria’ – che la mafia è lo Stato. Quasi per bilanciare il rischio di questa tesi, dalle conseguenze paralizzanti (se così fosse, infatti, resterebbe solo la prospettiva non proprio imminente anarco-comunista dell’abolizione dello Stato tout court) ha avuto straordinaria fortuna la definizione della mafia come anti-Stato. Ma si tratta solo di un ennesimo – il settimo nel nostro elenco – stereotipo: infatti
«non è una forzatura ideologica affermare che non c’è stato, in Italia, Stato senza mafia, come non c’è stata mafia senza Stato» [9].
La verità – troppo sottile per lasciarsi ingabbiare in formule sloganistiche sommarie – è che la mafia di per sé non è in antitesi con lo Stato, ma tende a farsi Stato; quando in questa strategia di infiltrazione nei gangli e nei posti di comando dell’ordinamento statuale trova funzionari integerrimi (non tutti) e coraggiosi (ancora meno), allora – e solo allora – diventa antitetica rispetto a questi settori dello Stato (rassegnandosi a posizioni di disperata opposizione come il banditismo, il gangsterismo, i terrorismi di matrice politica o religiosa).
La mafia come tumore allogeno, dunque. Ma i tumori sono soggetti a metastasi. Ecco, dunque, confinante con gli stereotipi precedenti, un ottavo luogo comune: l’ubiquità della mafia. Si badi bene: non si afferma, con Leonardo Sciascia, che “la linea della palma” si è spostata verso il Nord e che vi sono organizzazioni criminali mafiose e para-mafiose in altre regioni italiane, in altri Stati europei ed extra-europei . Ciò sarebbe inoppugnabilmente vero. Piuttosto – riecheggiando operazioni già realizzate da personaggi come il cardinale Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo – si appiattisce la specificità della mafia a livello di criminalità ‘ordinaria’ e, così ridimensionata, la si riconosce presente da sempre in tutto il mondo. Il risultato è noto: tutte le manifestazioni di violenza e corruzione del pianeta sono mafia, dunque nessuna è veramente mafia. Si perde di vista il prototipo originario della mafia (siciliano!) e ci si condanna a battaglie secondarie con organizzazioni delinquenziali molto meno insidiose.
Le patologie sono soggette a variazioni, solitamente peggiorative. Intesa come accidente esterno, la mafia si presta a un nono stereotipo, parzialmente apologetico: la mafia come fenomeno in via di degenerazione. La sua versione più ‘nuova’ è sempre cattiva, a differenza della ‘vecchia’ che – invece - era buona. Quasi da “rimpiangere”. Si tratta di una “illusione” “nefasta”: si accetta di occultare un passato di “atrocità” e di “delitti” con l’immagine “reificata” che i mafiosi più anziani, e perdenti rispetto alle nuove generazioni criminali, offrono di sé[10]. Con questa contrapposizione infondata fra «due momenti, l’antico e il nuovo», le cosche mafiose possono ottenere consenso sociale attingendo «perennemente al serbatoio del mito»[11].
Un decimo stereotipo è legato al precedente e, insieme al precedente, sta o cade: la mafia come rispettosa dei bambini, delle donne e dei preti. E’ il ritornello che si ascolta ogni volta che una vittima di mafia appartiene a una di queste categorie. Se la smemoratezza storica fosse appena un po’ minore si saprebbe che, sin dalle origini nella seconda metà del XIX secolo, i mafiosi hanno spazzato via tutte le vite umane che, anche involontariamente, intralciavano i suoi piani delittuosi. Certo, statisticamente è più frequente l’incontro-scontro con adulti maschi, ma non c’è alcuna remora ideologica o morale che impedisce, se necessario, di uccidere bambini, donne e preti.
Uno dei vantaggi di esprimersi per luoghi comuni, senza preoccuparsi di esibire le prove di ciò che si afferma, è che alcune formule possono essere invertite senza fatica e talora, addirittura, adottate in entrambe le posture. Abbiamo appena esaminato il mito della mafia benefattrice e rispettosa degli inermi, il mito della mafia incontaminata prima della degradazione modernistica? Capovolgendolo si ha lo stereotipo della mafia come residuo arcaico, primitivo, destinato a dissolversi man mano che la società diventa più ricca, più progredita tecnologicamente. Questo undicesimo luogo comune è smentito clamorosamente dalla capacità dei mafiosi di «adattarsi a contesti molto diversi da quelli originari», di «integrarsi in società complesse» e di «coniugare elementi di arretratezza con altri di modernità»[12]. Non senza solidi argomenti, infatti, qualcuno ha potuto scandire la storia della mafia in quattro fasi principali: «una lunga fase di incubazione, dal XVI secolo ai primi decenni del XIX secolo»; «una fase agraria, che va dalla formazione dello Stato unitario agli anni ’50 del XX secolo»; «una fase urbano-imprenditoriale, negli anni ‘60»; «una fase finanziaria dagli anni ’70 ad oggi»[13].
Di un dodicesimo pregiudizio sono state, e in parte sono ancora, vittime anche le autorità giudiziarie: la mafia come organizzazione esclusivamente maschile . Ma una cosa è affermare (con verità) che la mafia è patriarcale, maschilista, e un’altra cosa è sostenere che le donne non possono farne parte e, di conseguenza, essere responsabili di reati di tipo mafioso. Già nel 1993 Anna Puglisi scriveva che
«l’immagine della donna siciliana chiusa in casa e vestita di nero, non corrisponde nella quasi generalità alla situazione attuale. In Sicilia, come altrove, le donne rivendicano emancipazione e occupazione, anche se in Sicilia come in tutto il Meridione, tra i disoccupati la percentuale maggiore è quella delle donne. Del resto sappiamo che la conquista di piena parità in tutta la società italiana è molto lontana. Comunque lo stereotipo di donna siciliana sottomessa, semplice trasmettitrice dei valori legati alla famiglia, non ha più ragion d’essere. Anche all’interno delle famiglie mafiose»[14].
La questione viene ripresa anche in un recente libro a più mani e, tra l’altro, vi si legge che,
«mentre fino al 1990 solo una donna era stata incriminata, nel 1995 si ebbe un’impennata, le donne coinvolte in associazione mafiosa divennero 89» [15].
Renate Siebert [16] è stata una delle studiose che ha combattuto
«con forza il pregiudizio in cui tanto da parte della mafia, quanto per un certo tempo da parte dell’antimafia, sono state rinchiuse le donne: l’idea che non potessero essere considerate responsabili delle loro azioni. Come abbiamo già ricordato, fino al 1995 ci fu una sola imputazione per associazione mafiosa a una donna. La motivazione era che non essendo affiliate tramite il "rito della santina" le donne fossero impossibilitate a svolgere ruoli di rilievo nell’organizzazione; nelle sentenze si legge chiaramente come le donne, non avendo il sufficiente grado di autonomia per essere riconosciute responsabili del reato di associazione mafiosa, se hanno commesso reati lo hanno fatto “per seguire i loro uomini". L’antimafia faceva così da specchio a quello che la mafia esprimeva a proposito delle donne»[17].
[1] G. Priulla, Informazione e mafia: dal silenzio al rumore in U. Santino (a cura di), L’antimafia difficile, Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato, Palermo 1989, pp. 69 – 79.
[2] A. Crisantino, Mafia: la fabbrica degli stereotipi in A. Cavadi (ed.), A scuola di antimafia, Di Girolamo Editore, Trapani 2006, p. 57.
[3] G. Priulla, Informazione, cit., p. 75.
[4] Uso ‘cultura’ fra virgolette, ma subito dopo recepisco un suggerimento di Umberto Santino: “Per indicare la complessità culturale della mafia e la sua capacità di adattamento al mutare del contesto” adottare “il concetto di «transcultura», intesa come percorso trasversale che raccoglie elementi di varie culture, per cui convivono aspetti arcaici, come la signoria territoriale, e aspetti moderni, come le attività finanziarie” (U. Santino, Introduzione allo studio del fenomeno mafioso e del movimento antimafia in A. Cavadi [ed.], A scuola di antimafia, cit., p. 29). Analogamente ritengo che sia riduttivo parlare di ‘cultura’ siciliana al singolare, senza tener conto né della diacronia né delle differenze fra le varie aree della stessa isola. Essa è piuttosto, a sua volta, una ‘trans-cultura’ in cui individuare almeno l’intreccio di tre prospettive: la visione cattolica, la visione borghese-individualistica e la visione mafiosa (cfr. A. Cavadi, Per una pedagogia antimafia in A. Cavadi [ed.], A scuola di antimafia, cit., pp. 83 – 125).
[5] Ivi, p. 72.
[6] A. Crisantino, Mafia, cit. p. 60 (il virgolettato «violenza programmata» si riferisce a G. Chinnici – U. Santino, La violenza programmata : omicidi e guerre di mafia a Palermo dagli anni '60 ad oggi, F. Angeli, Milano 1989).
[7] Ivi, p. 61.
[8] Ivi.
[9] U. Santino, Introduzione allo studio del fenomeno mafioso e del movimento antimafia in A. Cavadi (ed.), A scuola di antimafia, cit., p. 24.
[10] R. Mangiameli, Stereotipo, CD Rom Mafia, a cura di P. Pezzino- C. Ottaviano, Cliomedia Officina, Torino 1998, successivamente ripubblicato in R. Mangiameli, La mafia tra stereotipo e storia, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 2000, p. 200.
[11] Ivi.
[12] A. Crisantino, Mafia, cit. p. 63.
[13] U. Santino, Per una storia sociale della mafia e dell’antimafia in A. Cavadi (ed.), A scuola di antimafia, cit., p. 36.
[14] A. Puglisi, Donne e mafia, “Giraffen”, Copenaghen luglio 1993, n. 11 in A. Puglisi, Donne, Mafia e Antimafia, Di Girolamo Editore, Trapani 2005, p. 11.
[15] S. Pollice, Il filo che ci unisce, in A. Dino G. Modica (a cura di), Che c’entriamo noi. Racconti di donne, mafie, contaminazioni, Mimesis, Miano – Udine 2022, p. 145.
[16] Soprattutto in R. Siebert, Le donne, la mafia, Il Saggiatore, Milano 1994, passim.
[17] S. Pollice, Il filo, cit., p. 151.