Mario Mulè
Perché le guerre? Alcune risposte possibili
A metà degli anni Trenta del Novecento Walter Hess, studiando il funzionamento cerebrale di un gatto, osservò che la stimolazione con un elettrodo di un’area specifica del cervello provocava una intensa reazione di collera. Molte discussioni vennero provocate da questa ricerca, a partire dal dibattito tra due diverse “posizioni”: si trattava di “vera” rabbia o, come sostenevano i comportamentisti dominanti nel panorama scientifico di quel periodo, di “finta” rabbia ?
Oggi quasi nessuno dubita che gli animali sentano emozioni che li guidano nell’apprendimento e nel comportamento. Ma già allora era abbastanza conosciuta la somiglianza, sia anatomica che funzionale, tra tutti i cervelli dei mammiferi: sembrava quindi che si potesse cominciare a capire l’origine dell’aggressività, negli animali e nell’uomo. Per questa ragione la scoperta, nel 1949, valse ad Hess il premio Nobel.
Oggi viene dato un valore limitato a tale scoperta: anzitutto perché si è capito che strutture, circuiti e meccanismi cerebrali coinvolti nell’emozione chiamata ‘collera’ sono molto più complesse; poi perché non sembra che possa fornire un’adeguata comprensione dell’aggressività nell’uomo e meno ancora della guerra. E’ lo stesso Panksepp, fondatore delle neuroscienze affettive, che ci ammonisce: “poco di quello che possiamo dire ( della collera) può illuminare le cause della guerra nella specie umana”[1].
Altri studiosi, ispirati dalla teoria dell’evoluzione, hanno rivolto la loro attenzione agli scimpanzè con i quali condividiamo quasi tutto il nostro patrimonio genetico. Hanno argomentato che obbligatoriamente troviamo nell’uomo aggressività e violenza, vista la nostra discendenza da tali animali, notoriamente rissosi e violenti. Tuttavia un’analisi più attenta mette in dubbio questa convinzione, perché non è dimostrata la nostra discendenza dagli scimpanzè. I nostri antenati potrebbero essere stati i bonobo, molto più pacifici, e forse non conosciamo ancora quale specie ci ha preceduto ( il famoso “anello mancante” di cui siamo ancora alla ricerca).
La convinzione di una nostra discendenza da animali violenti è stata sostenuta da autorevoli pensatori, tra i quali Freud cui si deve l’idea di “un’orda primitiva” precedente la civilizzazione umana. Tale ipotesi finora non ha trovato nessuna conferma dalle ricerche archeologiche, anzi mancano del tutto prove che confermino l’esistenza delle guerre prima di dodicimila anni fa, epoca della rivoluzione agricola. E c’è anche chi sostiene che nella preistoria umana sia stata presente una società matriarcale, più amorevole e prosociale.
C’è anche un’altra ipotesi, anch’essa di derivazione darwiniana, che prende in esame l’istinto predatorio, presente in molti animali, che avremmo ereditato. Gli studi scientifici, in realtà, ci dicono che l’istinto predatorio è molto diverso dalla violenza e dall’aggressività. Un esempio può chiarire queste differenze: un gatto arrabbiato avrà il corpo inarcato, il pelo irto, per apparire più grande, le unghie fuori dalle zampe, emetterà messaggi minacciosi; al contrario, un gatto che caccia una preda sarà cauto, silenzioso, attento, si acquatterà per rendersi meno visibile dalla preda.
C’è un altro “istinto primitivo” da esaminare come fattore importante del comportamento violento, l’istinto di potenza. Esso ha ricevuto molti consensi, provenienti da ambiti diversi. Dall’ottica della psicologia comparativa è stato detto, senza mezzi termini: “E’ inutile nascondere questa realtà: siamo una specie gerarchica”[2]. Kissinger (vissuto per molti anni vicino ai potenti) affermava che “ per i maschi il potere è il sommo afrodisiaco”. Anche in ambito psicologico e clinico si ipotizza un sistema motivazionale finalizzato a definire il rango, cioè la posizione gerarchica nel gruppo di appartenenza [3].
La condizione gerarchica, ( che implica l’esistenza di capi) merita uno studio attento, ma ha visto finora prevalere le riflessioni in ambito filosofico ( Hobbes, Nietzsche, Macchiavelli). Seneca ha detto: “ I potenti della Terra esercitano l’ira come una specie di regale insegna”. Pochi sono gli studi sui capi. In ambito biologico è stato trovato che negli animali in posizione alfa si trovano alti livelli di cortisolo, che favorisce una iperattivazione dei sistemi di allarme, dannosa per la salute del corpo e della mente.
In ambito psicologico pochi hanno provato a riflettere sulla personalità dei capi. Uno di questi è stato Fromm, che ha dedicato in un suo libro un intero capitolo allo studio della personalità di Hitler[4]. Visto che sono i capi che decidono di muovere gli eserciti e le armi, potrebbe essere molto utile saperne di più su di loro.
C’è ancora almeno un altro aspetto emotivo da considerare ed è l’odio per il nemico, quasi necessario nelle guerre. Cosa possiamo dire dell’odio? Si pensa che sia un modo di sentire specificamente umano, frutto avvelenato di alcune funzioni evolute, come la capacità di immaginare, di pianificare progetti, compresi quelli di aggressione e di vendetta.
Proviamo adesso a sintetizzare le annotazioni fatte finora: esserci rivolti all’archeologia della mente ci ha consentito di acquisire alcune nozioni utili, ma non di capire l’origine della guerra. Per questa via, simile a quella seguita da Freud nella risposta ad Einstein che si interrogava sul perché della guerra, non si arriva molto lontano. Nella sua risposta Freud, alla fine delle sue riflessioni (non certo banali), diceva: “Le chiedo scusa se le mie osservazioni l’hanno delusa”[5].
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[1] Panksepp J.- Biven L., Archeologia della mente. Origini neuroevolutive delle emozioni umane, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014 .
[2] Frans de Waal, L’ultimo abbraccio. Cosa dicono di noi le emozioni degli animali, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020 .
[3] Liotti G. - Monticelli F. , I sistemi motivazionali nel dialogo clinico, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008.
[4] Si tratta del cap. XIII di Fromm E., Anatomia della distruttività umana, Mondadori, Milano 1978.
[5] Perché la guerra? Carteggio tra A. Einstein e S. Freud in Freud S., Opere, Boringhieri, Torino 1979.
1 commento:
Alberto Genovese
Mi permetto di argomentare che quanto più complessa è l’organizzazione di una società e democratico il suo assetto, tanto più difficile risulterà a un “capo” di trascinare una nazione alla guerra.
Le guerre, poi, non sono sempre motivate dall’odio, ma molte volte da valutazioni economiche o geopolitiche. Roma non sottometteva gli altri popoli perché li detestava, o per imporle il proprio pantheon, ma molto più pragmaticamente per esigerne il tributo, sostenere il lusso dell’urbe, rendere più sicure le proprie frontiere. Oserei spingermi oltre. Ogni essere vivente cerca di preservare la propria esistenza e di viverla nelle migliori condizioni possibili (e, di riflesso, probabilmente, più a lungo), sia come individuo monadico sia come membro di un insieme; il quale insieme si organizza sua volta con la medesima finalità rispetto ad altre comunità. Il conflitto deflagra quando i due interessi (individuo contro individuo o nazione contro nazione), simmetrici e opposti, convergono verso uno stesso bene sulla cui spartizione non trovano o non vogliono trovare un accordo. L’odio è talvolta un modo per incitare e camuffare una guerra economica, e alla lunga ne diventa anche un effetto secondario.
Le guerre generate dall’odio più distruttivo, prive di un sostrato di espansione vitale, sono invece di matrice religiosa. Il mio dio è vero, il tuo è falso. Se tu muori, con te morirà il tuo dio o si estinguerà la tua eresia. «Cedite eos. Novit enim Deus qui ejus sunt»
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