PIETA' PER MATTEO MESSINA DENARO? POCA, TROPPA, NESSUNA ?
Intervistato all'improvviso, all'uscita da una chiesa della sua ex-diocesi di Mazara del Vallo, il vescovo emerito Domenico Mogavero, visibilmente commosso al ricordo – fra i tanti delitti di Matteo Messina Denaro – della feroce eliminazione del piccolo Di Matteo, ha dichiarato: “Non è uomo per cui possiamo provare troppa pietà. Ha ammazzato troppo”.
Come avviene in queste circostanze, la frase del prelato ha dato la stura a una girandola di commenti contrastanti, accomunati – forse unanimemente – da una caratteristica: l'assenza di qualsiasi tentativo di capire, di decifrare, prima di sputare la propria sentenza.
Conosco don Mogavero da più di mezzo secolo, ma non così bene da potermi spacciare per suo interprete autorizzato. Perciò, lasciando a lui i chiarimenti su ciò che intendesse affermare, mi limito a commentare la sua asserzione.
La parola-chiave mi pare “pietà” che, avendo smarrito il significato etimologico latino (devozione verso i genitori, gli antenati e gli dei), nell'italiano corrente oscilla fra varie accezioni semantiche.
In un primo senso, il termine allude a un sentimento emotivo di commiserazione suscitato dalla vista di qualcuno che soffre manifestamente. Questo moto psichico si traduce, talora, in piccoli gesti di solidarietà 'corta' come l'elemosina al barbone accucciato su un cartone all'angolo di una strada. Le immagini di un boss ormai non più giovane, in uno stato di salute fortemente compromesso, se non addirittura in fase terminale, potrebbero suscitare questo genere di “pietà”?
L'ex-vescovo di Mazara del Vallo non sembra escludere questa evenienza e, perciò, mette in guardia l'opinione pubblica dal rischio di un simile “buonismo” a poco prezzo. E' vero che , dopo decenni di sangue, si avverte una stanchezza intima cui si potrebbe reagire – forse anche inconsciamente – con il desiderio di chiudere la parentesi storica della mafia stragista. Però sarebbe un desiderio non solo cieco (nessuno può garantire che i mafiosi ancora liberi rinunzino alla violenza metodica, se necessario eclatante), ma anche immorale perché comporterebbe una sorta di riconciliazione, di riappacificazione, con nemici che non sono minimamente pentiti dei crimini consumati. Nessuno ha diritto di perdonare gli assassini se non le vittime, che però non sono più in grado di farlo – o, per lo meno, di comunicarcelo.
Ciò che il presule non aggiunge – a mio parere si tratta di omissioni comprensibili nella concitazione di chi risponde a un'intervista inaspettata – è che, esclusa la “pietà” superficiale da telenovela, esiste almeno una seconda accezione del vocabolo: che è la comprensione, razionale e sentimentale, dell'infelicità altrui con il conseguente desiderio che tale infelicità non si aggravi, ma anzi possa in qualche misura essere lenita. Per sperimentare questo stato d'animo occorre una notevole maturità interiore e una saggezza non proprio di tutti. Esso è infatti il corrispettivo – uguale e contrario – dell'odio, dell'ardente sete di vendetta.
Ebbene, in questo significato, può una persona – tanto più se si riconosce negli insegnamenti evangelici – provare “pietà” per Matteo Messina Denaro?
Se coltivare il risentimento nei suoi confronti ci facesse star meglio, se la vista delle sue ferite alleviasse le nostre cicatrici, se la sua morte arricchisse la qualità della nostra vita, la risposta sarebbe ovviamente negativa. Ma, se ragioniamo con un minimo di distacco emotivo sulla base dei dati offerti dalla storia – dalla grande storia e dalle nostre piccole storie -, sappiamo che non è così. A noi “conviene” che Matteo Messina Denaro, invece di sprofondare nell'inferno della disperazione in cui si trova o in cui si è trovato per sua stessa ammissione, recuperi un minimo di dignità ai propri stessi occhi e decida di intraprendere l'unica strada che può salvarlo (non dall'ergastolo a vita né dall'inferno dei teisti, quanto dalla convivenza irreversibile con il proprio io peggiore): la resipiscenza e la collaborazione con gli organi giudiziari.
Già in una lettera confidenziale del 1 febbraio 2005 scriveva: “Veda, io ho conosciuto la disperazione pura e sono stato solo, ho conosciuto l'inferno e sono stato solo, sono caduto tantissime volte e da solo mi sono rialzato; ho conosciuto l'ingratitudine pura da parte di tutti e di chiunque e sono stato solo, ho conosciuto il gusto della polvere e nella solitudine me ne sono nutrito; può un uomo che ha subito tutto ciò in silenzio avere ancora fede? Credo di no” (M. Messina Denaro, Lettere a Svetonio, a cura di S. Mugno, Stampa Alternativa, Roma 2008, p. 58). Quanto alla morte, aggiungeva il 22 maggio dello stesso anno, “non la temo, non tanto per un fattore di coraggio, ma più che altro perché non amo la vita, teme la morte chi sta bene su questa terra e quindi ha qualcosa da perdere, io non ci sono stato bene su questa terra e quindi non ho nulla da perdere, neanche gli affetti perché li ho già persi nella materia già da tanti anni” (p. 68).
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2 commenti:
Carissimo Augusto, il tuo articolo mi tocca, mi fa pensare, mi commuove. Aggiungo un altro punto di vista, da cui intravedo da lontano le cose forse un po' diversamente - non in modo opposto al tuo, ma forse almeno parzialmente in un altro. Benché non mi venga facile (anzi, proprio il contrario, tant'è che il primo e il secondo ... e il centesimo impulso mi portano a non avere pietà per Matteo Messina Denaro in nessuna delle accezioni del termine "pietà", e quindi comprendo benissimo le parole di Mogavero), ho pietà (provo ad aver pietà, voglio aver pietà) per quest'uomo, per la vigliaccheria di molte sue azioni, per due motivi: perché molto probabilmente la proverei (la pietà, non la giustificazione) se lui fosse il padre o il fratello con cui fossi cresciuto e vissuto, e perché sono sinceramente convinto che il fatto che non ho commesso nessuna delle cose agghiaccianti commesse da lui dipenda dalla fortuna che mi è capitato di avere: dal mondo in cui sono nato, dagli incontri fatti, dall'educazione (in senso lato) avuta, dal corpo e dalla mente (volontà compresa) che mi si sono costituiti in un certo modo. Insomma, cosa mi fa escludere la possibilità che in diverse condizioni "io" non avrei sciolto un bambino nell'acido? Lo escludo solo a partire da quell'io che mi è capitato di diventare, con quel grado di consapevolezza, sia pur piccolo, che mi è accaduto di raggiungere... Spero sia chiaro che non sto parlando di determinismo ambientale; sto parlando della misteriosità con cui, credo, si diventa "io", cioè singolarità tempestosa o 'zefirea' frutto dell'"effetto butterfly" della vita,quell'io per cui non abbiamo né meriti né colpe, né da gloriarci né da condannarci (per quest'ultima cosa, dove sia opportuno, c'è la legge) ma solo da considerarci fortunati rallegrandocene o sfortunati avendo pietà di noi - e allo stesso modo, gli altri non abbiamo né da glorificarli né da condannarli, ma solo da rallegrarcene o averne pietà (che poi forse è quello che fai anche tu parlando di M.M.D. e auspicando che lui abbia pietà di se stesso+consapevolezza che lo porti a collaborare). Un abbraccio e sempre grazie.
Caro Augusto,
oggi ti sei avventurato in un campo davvero minato, anzi, minatissimo, dimostrando - ancora una volta - che il coraggio non ti manca.
Io vado in ansia al solo pensare di pensare qualcosa da esprimere pubblicamente su una questione del genere.
Mi viene in aiuto un grandissimo del passato, Baruch Spinoza: «HO ASSIDUAMENTE CERCATO DI IMPARARE A NON RIDERE DELLE AZIONI DEGLI UOMINI, A NON PIANGERNE, A NON ODIARLE, MA A COMPRENDERLE».
In fondo Mogavero non esclude che almeno un pò di pietà - troppa certamente no - la si possa anche provare, l'essere umano non coincide con le azioni - in questo caso terrificanti - che compie, e d'altra parte non possiamo nemmeno dimenticare che "occhio per occhio rende il mondo cieco".
Il pensiero, però, non può non andare prima di tutto alle persone, morte e viventi, che hanno subito sulla loro pelle gli effetti di tali terrificanti azioni: direi le stesse cose, sarei altrettanto comprensivo, se mi fossi trovato al loro posto?
Un abbraccio
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