lunedì 6 febbraio 2023

E DOPO LA MORTE? METAMORFOSI IN ALTRA DIMENSIONE O DISSOLVIMENTO DELL'IO ?


 Dopo il nostro decesso: entriamo in una nuova dimensione o perdiamo l'illusione di essere individui?

Non c'è bisogno di essere dei filosofi di mestiere per interrogarsi sull'enigma del male, del dolore, della sofferenza: l'unica differenza è che il filosofo di professione si interroga spesso, le altre persone raramente. Ma ciò non garantisce che i filosofi vedano più a fondo.

Una domanda preliminare è se il male sia un dato oggettivo o se si tratti di un falso problema. Da almeno due secoli in Occidente - come da millenni in Oriente – si tende a negare il confine tra il bene e il male. Nel Tutto ogni evento ha un senso, una ragion d'essere, una funzione: dunque può considerarsi, nella peggiore delle ipotesi, un male relativo (relativo a qualcuno), non certo un male in sé (in assoluto). Il terremoto è un male per le poche migliaia di umani che restano sepolti sotto le macerie, ma in sé è un benefico (o per lo meno inevitabile) assetto geologico. Senza le malformazioni genetiche di tanti neonati non sarebbe stata possibile, e non sarebbe possibile nel presente, l'evoluzione della nostra specie. Senza la morte di tutte le generazioni precedenti, la nostra non avrebbe avuto spazio per nascere e vivere. E così via.

Devo confessare che queste prospettive – per quanto logiche – non mi convincono. Sono lieto se - per il Tutto, per l'equilibrio geologico, per l'evoluzione biologica...- il male non costituisca problema. Ma si dà il caso che io non sia il Tutto. Il male relativo, irreale per il Tutto, è realissimo per me che sono solo una parte. Avverto una sofferenza insopprimibile se so di persone sepolte sotto le macerie di un terremoto; se mi nasce un figlio down; se penso di dover prima o poi morire.

E' nota la terapia per questo genere di sofferenze (rese tanto più dolorose dalla incapacità di decifrarne un qualsiasi senso): tu ritieni di essere una parte in qualche modo distinguibile dal Tutto, ma è solo un tuo errore. Liberati dall'illusione di essere qualcosa – o addirittura qualcuno – e sradicherai (almeno intellettualmente) ogni fondamento alla domanda sul male.

Francamente, però, questa terapia non mi riesce convincente. Che io sia imparentato, in quanto essente, con ogni altro essente all'interno di un Intero che ci precede, di abbraccia e ci trascende è verissimo: ma questa parentela è identità assoluta o anche differenza?

Personalmente propenderei per dare credito all'autocoscienza che implica la certezza, o almeno il presentimento, di essere qualcosa di altro rispetto allo sconfinato mare degli essenti: qualcosa di unico, di originale. Di essere un 'io' marcato dalla differenza rispetto al non-io. In questa ipotesi ho diritto di considerare un male (sia pur relativo, sia pur minimale, sia pur limitatissimo) l'esser destinato a perdere questa individualità inconfondibile.

Ma anche se mi sbagliassi – anche se l'autocoscienza fosse fallace perché non esiste alcuna soggettività individuale (personale) – sarei per questo esente dal male? Ritengo di no: il male di cui sarei affetto sarebbe proprio l'illusione di essere un “io”.

Insomma, la Natura in entrambe le ipotesi gioca un brutto scherzo perché condanna a ritornare nell'Indistinto un ente che o è davvero un novum, un inedito, o è stato condannato dall'evoluzione a concepirsi – infondatamente – come tale.

Allo stato attuale della mia riflessione non vedo che due sole vie d'uscita per assolvere la Natura dall'accusa (antropomorfica!) di sadismo.

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https://www.zerozeronews.it/langoscia-della-morte-e-lillusione-dellio/

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Purtroppo, la morte è un dissolvimento del tutto, della materia del corpo e dunque della produzione dell’attività mentale. È vero che sarebbe più bello pensare il contrario ! Ho sempre a mia madre morta 40 anni fa , Mamma mi farai un segno »! Un’esperienza od un’illusione di una giovane donna! Poi vedendo fuori dall’Europa,una società europea costruita con l’eredità del pensiero greco romano, unico continente a rispettare la Vita. Fuori dall’Europa , la vita non ha nessun valore ! Un mondo di Morte. Bella speranza : la vita eterna - un’ispirazione verso la Grazia, l’Elegance!

Bruno Vergani ha detto...

Recentemente ho vissuto un periodo un po’ complicato per problemi di salute, di fronte alla possibilità di non esserci più, che tutti già sappiamo ma che in certi momenti sappiamo meglio, pur non escludendo l’eventualità di sussistere personalmente per una possibile metamorfosi della nostra essenza energetica, che mi ha fattivamente aiutato è stato il ritorno alle spiritualità orientali che frequentavo anni fa, visioni che contestano alla radice la sussistenza dell’io: nessuno muore perché nessuno nasce. Indubbiamente se l’autocoscienza della propria singolarità è valutata una mera invenzione ogni problema sarà risolto, sparito il soggetto che soffre e che muore “chi” mai potrà ancora soffrire e morire? Nessuno. Il limite di questa concezione è che in qualche modo ti anestetizza, portandoti a risolvere il problema della morte come anticipandola volontariamente, insomma morendo da vivi per diventare immortali. Concezione magari utile in situazioni limite, ma che in situazioni normali ci paralizzerebbe, insomma correndo il rischio di prepararci così bene a morire che poi non si è più capaci di vivere. Un abbassare la soglia della percezione così da placare il dolore annullando il piacere, un evitare qualsiasi delusione azzerando ogni desiderio. Al momento sono giunto a un compromesso nel vivere l’approccio orientale, modulandolo alla situazione che sto vivendo, specificatamente dandogli spazio in situazioni estreme e ridimensionandolo in situazioni ordinarie, cercando il giusto momento per vivere e il giusto momento per morire, evitando di morire quando bisogna vivere o accanendomi nel durare nel momento che occorrerà cessare. Altro compromesso lo vivo nel rapporto con l’io, da una parte accettandolo, così da essere qualcuno e poter vivere in questo mondo, ma cercando di ridimensionarlo dandogli meno importanza, insomma cercando di relativizzare un po’ me stesso. A ben osservare è in qualche modo possibile vivere la semplice consapevolezza di essere, senza necessariamente identificarci completamente nel nostro io biografico; senza identificarci nel genere, nell’età, nei ruoli sociali, ecc., ma permanendo nella pura consapevolezza di essere priva di predicati. Qualche volta meditando è capitato di entrare profondamente in me stesso e non trovarci nessuno. Forse abbiamo bisogno di questi compromessi e modulazioni perché in noi albergano due nature, una identificata con se stessa che vive gioendo e soffrendo delle circostanze e un’altra oltre, che libera da tutto ciò la osserva. Roberto Calasso nel saggio «L'ardore» ben illustrava la dinamica: "Dal Ṛgveda alla Bhagavad Gītā si elabora un pensiero che non riconosce mai un soggetto singolo, ma presuppone al contrario un soggetto duale. Così è perché duale è la costituzione della mente: fatta di uno sguardo che percepisce (mangia) il mondo e di uno sguardo che contempla lo sguardo rivolto al mondo. La prima enunciazione di questo pensiero si ha con i due uccelli dell'inno 1, 164 del Ṛgveda: «Due uccelli, una coppia di amici, sono aggrappati allo stesso albero. Uno di loro mangia la dolce bacca del pippala; l'altro, senza mangiare, guarda». Non c'è rivelazione che vada oltre questa, nella sua elementarità. E il Ṛgveda la presenta con la limpidezza del suo linguaggio enigmatico. La costituzione duale della mente implica che in ciascuno di noi abitino e vivano perennemente i due uccelli: il Sé, ātman, e l'Io, aham." E’ evidente che una certa ipertrofia dell’io, con tutti i problemi che ne derivano, ha per noi occidentali radice profonde e antiche che abbiamo introiettato, che vanno dall’anima personale eterna proclamata da Platone a Dio che dice al profeta: “Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo” come anche “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo” o “tu mi hai amato prima della fondazione del mondo” e via dicendo.