martedì 20 dicembre 2022

DON FRANCESCO MICHELE STABILE SULLA DIOCESI DI PALERMO DOPO IL VATICANO II

IL DOPO-CONCILIO VATICANO II NELLA DIOCESI DI PALERMO

Dopo vari testi più impegnativi (cfr. “Adista Notizie” n. 31 del 12.9.2020 e “Adista Segni nuovi” n. 29 del 6. 8. 2022) , don Francesco Michele Stabile ha pubblicato un volumetto, stampato in proprio - Il dopoconcilio a Palermo. Accoglienza creativa o passiva attuazione? (Officine Tipografiche Aiello & Provenzano, Bagheria 2022, pp. 164, s.p. ) - che, a mio avviso, merita di essere conosciuto da una cerchia più ampia dei suoi amici cui è stato originariamente destinato. In esso, infatti, egli si chiede che effetti abbia avuto il Vaticano II sulla vita delle diocesi siciliane (in particolare sulla diocesi di Palermo). E sarebbe davvero istruttivo se in ogni diocesi italiana ci fosse uno storico che riproponesse la stessa domanda per la sua chiesa locale.

Don Stabile risponde in maniera documentata e misurata. Segue, come criterio per la periodizzazione, gli episcopati che “si sono succeduti nella sede palermitana a partire da concilio: Ernesto Ruffini (1945 – 1967), Francesco Carpino (1967 – 1970), Salvatore Pappalardo (1970 – 1996), Salvatore De Giorgi (1996 – 2007), Paolo Romeo (2007 – 2015), Corrado Lorefice (2015 -....)” (p. 9).

La “ricezione” delle decisioni conciliari fu all'inizio (1965 – 1967), con Ruffini, piuttosto un rigetto. Già a Roma si era distinto come leader della corrente conservatrice di minoranza. Un prete a lui molto caro, mi raccontò una volta che – tornando da una sessione del concilio in cui era stata approvata la Costituzione Dei Verbum (sul primato della Scrittura rispetto al Magistero papale ed episcopale) - volle confidargli fra le lacrime: “E' la fine, è la fine. I vescovi hanno protestantizzato la nostra Chiesa”. Infatti a suo avviso “il Magistero sia ordinario che straordinario della Chiesa era regola prossima di fede, come regula regulans fidei et non regula regulata a Sacra Scriptura” (p. 14). Insomma, per lui, il cattolico avrebbe dovuto credere ciecamente qualsiasi dogma insegnatogli con autorità, sia che avesse sia che non avesse fondamento nella Bibbia.

Stabile sintetizza con un titolo efficace “il tempo del card. Ernesto Ruffini”: “un monologo pieno di opere di carità” (p. 10). Un “monologo” perché la sua ecclesiologia non prevedeva alcun dialogo paritario fra i membri della Chiesa: come scrisse egli stesso in una Lettera pastorale del 1955, in essa vige netta “la distinzione tra autorità ecclesiastica e laicato: spetta alla prima insegnare e governare, il secondo è discepolo e suddito” (cfr. p. 14). “Pieno di opere di carità” perché egli fu davvero infaticabile nell'impegno a favore delle fasce disagiate della popolazione. 

Stabile contesta “la vulgata secondo la quale l'arcivescovo avrebbe negato l'esistenza della mafia” che “va ricondotta a Leonardo Sciascia” nel suo La Sicilia come metafora (pp. 12 – 13): infatti Ruffini fu probabilmente il primo vescovo a inserire il termine mafia all'interno di una Lettera pastorale (precisamente per la Pasqua del 1964) definendola, citando il discusso magistrato-scrittore Giuseppe Guido Lo Schiavo, “Stato nello Stato” (p. 12). Il limite , enorme, di Ruffini sul tema è stato invece un altro: considerò la mafia solo come fenomeno criminale e, perciò, come “problema di ordine pubblico” (ivi). Non seppe vedervi un sistema di potere affaristico-politico più ampio e pervasivo, anche perché sviato dall'avversione per gli Stati e i partiti social-comunisti: i mafiosi erano nemici dei suoi nemici e, se non avessero sparato e ucciso, avrebbero giocato un ruolo utile per la difesa dei valori tradizionali dell'Occidente cristiano. 

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Come una meteora, Francesco Carpino passò da Palermo fra il 1967 e il 1971. Egli, “pur essendo di vecchia formazione teologica, mostrò apertura alle novità del concilio. Al monologo di Ruffini seguì il dialogo di Carpino” (p. 25). Nell'ottobre del 1970 diede le dimissioni, le cui ragioni restano oscure. Paolo VI le respinse ma Carpino fu irremovibile e il papa, infastidito, lo relegò nella sua cittadina d'origine, Palazzolo Acreide, senza dargli incarichi di rilevo nella Curia romana. Abbiamo tre versioni: Carpino sostenne di non avere le forze necessarie “a fare fronte con energia al rinnovamento in atto nella vita della Chiesa” (p. 29); altri ipotizzarono che gli furono imposte per punirlo di un'eccessiva indulgenza verso le Acli, la loro posizione critica nei confronti della DC e la scelta socialista; una terza versione sarebbe stata data da Carpino stesso in forma riservatissima. Una volta mi recai con alcuni amici a Palazzolo Acreide per visitarlo e ci accolse con molta gentilezza. Dopo il pranzo preparato dalla sorella, si appartò con uno di noi che, nel viaggio di ritorno, ci riferì uno sfogo accorato dell'ormai ex-arcivescovo: “Con quei delinquenti di preti palermitani non potevo proprio farcela più”. Evidentemente non si riferiva alla totalità del clero, ma a una consistente e perniciosa fetta. 


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Al breve episcopato di Carpino successe il lungo 'governo' di Salvatore Pappalardo (1970 – 1996), “il mediatore” (p. 31). Don Stabile elenca i tanti meriti di Pappalardo, anche dal punto di vista del suo distanziamento dalla DC e dell'atteggiamento - “né si condanna né si appoggia” (p. 81) – verso quei tentativi di aggregazione politica, come “Una città per l'uomo”, al di fuori del partito cattolico di maggioranza. Ma l'autore inserisce sommessamente qua e là delle note critiche. Per esempio, a proposito di una Lettera dell'episcopato siciliano del 1978, egli nota: “Possiamo cogliere nel documento un primo lento distacco dalla concezione sacrale di una storia della salvezza parallela alla storia umana e una timida apertura a lasciarsi provocare da Dio attraverso gli eventi storici. La Chiesa deve fare opera di mediazione tra la vecchia concezione sacrale, immutabile, e la modernità che richiede l'accettazione della laicità, del pluralismo con capacità però di discernimento critico per cogliere il meglio che va emergendo. Però, nonostante affermazioni di buona volontà, la problematica della storia e della modernità, enunziata con la complicità di qualche teologo, credo rimanesse ancora nei vescovi un problema non pienamente risolto e che stesse ancora nella difficoltà di accettare la storia, i fatti, come luogo teologico attraverso cui Dio parla alla sua Chiesa, l'origine dell'ambivalenza di tante posizioni dei vescovi e dello stesso Pappalardo, che per un verso dicevano di accettare il nuovo, per altro riproponevano su alcune problematiche non l'apertura di un dialogo, come chiedeva Paolo VI, ma a volte una contrapposizione tra visione cristiana della vita e una visione non cristiana, accomunando in un unico fascio secolarizzazione, prassi marxista, umanesimo laicista, freudismo” (pp. 41 – 42). 

Comunque l'elezione di Giovanni Paolo II fece avvertire gli effetti 'normalizzatori' anche in Sicilia. “E fu in questo periodo che si allentò la convergenza tra l'arcivescovo e parte del clero e dei cattolici più impegnati nel campo religioso e sociale che non intesero seguirlo nella scelta della riservatezza e dell'avallo alla Dc” (pp. 116 – 117). 

L'espressione, trita, “senza infamia e senza lode” calza a pennello per sintetizzare gli 11 anni dell'episcopato del cardinale De Giorgi (1996 – 2007), un pugliese bonaccione determinato, per dirla con un'altra formula stereotipa, a vivere e a lasciar vivere. La fotografia della diocesi di quel periodo, scattata dal cattolico democratico Nino Alongi all'inizio del Terzo Millennio, è eloquente: “La Chiesa palermitana parla di poveri, ma non è povera, predica la solidarietà ma non è solidale, dice di volere dialogare con la società civile ma di fatto resta chiusa nell'integralismo di sempre. Al collateralismo partitico, devastante per la politica e per la religione, ha sostituito forme di integrazione con le istituzioni dagli effetti altrettanto perniciosi; al protagonismo politico clientelare ha fatto seguire quello civile, attraverso iniziative inedite di volontariato che, in molti casi, si sono rivelate non meno forvianti; al trionfalismo preconciliare si sono aggiunte manifestazioni di ostentazione ancora più mondane” (p. 144). 

Ovviamente De Giorgi non è l'unico responsabile di questa sorta di letargo intellettuale e sociale in cui l'intera Chiesa palermitana ristagna da un ventennio. Anzi, sarebbe scorretto non riconoscergli almeno il merito di aver istituito una Commissione di teologi per stilare una sorta di decalogo da seguire nel caso che un presbitero fosse chiamato da un latitante (mafioso) a celebrare i sacramenti nella cappella del covo segreto (come, ad esempio, fece il carmelitano scalzo Mario Frittitta su richiesta del boss Pietro Aglieri): un decalogo che prevedeva, dopo un primo incontro, che il latitante si costituisse alle autorità giudiziarie, chiedesse perdono per i danni provocati nel corso della sua carriera criminale, collaborasse per bloccare le attività illegali dei suoi colleghi di cosca. 

Non certo più brillante è stato l'episcopato di Paolo Romeo (2007 – 2015), un diplomatico di lungo corso che – proprio grazie alla nomina ad arcivescovo di Palermo – raggiunge, con qualche anno di ritardo, l'agognata porpora cardinalizia. Di lui don Stabile ricorda due informazioni: la prima, positiva, che portò felicemente a termine l'iter 'canonico' (avviato dal suo predecessore De Giorgi) del riconoscimento a don Pino Puglisi del titolo di “martire” e di “beato”; la seconda, meno positiva, di aver lasciato cadere nel 2012 la proposta di un “Osservatorio ecclesiale” sulla mafia da istituire presso la Conferenza episcopale siciliana. 

Con la nomina di don Corrado Lorefice (2015) siamo in piena attualità. La scelta di un semplice prete di provincia, in contatto con importanti centri di studi storici italiani, apparve subito in sintonia con lo stile di papa Francesco. Don Lorefice è una persona preparata culturalmente, onestissima, con viva sensibilità civica: presentandosi alla città, disse di arrivare con il Vangelo in una mano e la Costituzione italiana nell'altra ed ebbe modo di citare l'esempio non solo di don Pino Puglisi, ma anche di Peppino Impastato. Tuttavia -almeno sino a questo momento – non ci sono state svolte notevoli; perfino don Stabile, con tutta la sua delicatezza espressiva, non può fare a meno di notare che “l'impegno del nuovo arcivescovo, che si è richiamato allo spirito e al metodo sinodale per coinvolgere tutta la comunità, procede con lentezza” (p. 146). Facendo eco ad alcune denunzie della teologa Valeria Trapani (che, nel 2019, si chiedeva “se la Chiesa di Palermo non abbia semplicemente subito una battuta d'arresto negli ultimi anni, o forse addirittura una retrocessione di pensiero”, pp. 155 – 156), don Stabile aggiunge: “Le donne, e non solo le donne, lamentano che dai primi decenni del nuovo secolo qualcosa si perde dell'eredità conciliare e che la ministerialità delle donne, pur essendo la presenza delle donne elevatissima, rimane ancora subalterna nei ruoli istituzionali della diocesi” (p. 155).

D'altronde, di che meravigliarsi se la generazione dei preti formatisi nello spirito innovatore del Concilio Vaticano II è ormai in quiescenza (quando non al camposanto) e se la maggior parte del clero attuale (nella fascia tra i 30 e i 50 anni) ha scelto di diventare prete nel clima sostanzialmente reazionario di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI ? Come a Roma non basta un papa per invertire rotta, così a Palermo non basta un arcivescovo.

Augusto Cavadi 

“ADISTA-SEGNI NUOVI”

24.12.2022



1 commento:

Cosimo Scordato ha detto...

Caro Augusto,

grazie della tua sintesi del testo di Franco, ben focalizzata ed efficace. Ad anno nuovo potremo pensare di farne una pubblica presentazione e intanto godetevi, tu e Adriana e amici sparsi, serene feste natalizie.

Un abbraccio

Cosimo