VIRTU' E VIZI: CONCETTI ORMAI ANACRONISTICI?
Il linguaggio del nostro catechismo infantile è davvero obsoleto e anche molti dei contenuti -veicolati con quel linguaggio arcaico – sono francamente inaccettabili. Al punto che il mio amico Luigi Lombardi Vallauri, noto filosofo del diritto, ha scritto e ribadito in varie occasioni che il catechismo della Chiesa cattolica dovrebbe essere vietato ai minori di 18 anni e riservato agli adulti che, una volta maturi, volessero apprenderlo.
Tutto da buttare, dunque? La maggior parte dei genitori ormai ne è convinta, ma senza riflettere abbastanza, a mio parere, su una verità elementare: non basta decostruire e liberare spazi, bisogna offrire alle nuove generazioni equivalenti funzionali. Altrimenti le si lascia in un vuoto desolato che le scoraggia, le disorienta, non le attrezza per l'impegno attivo a favore del “bene comune”.
Scegliamo un esempio fra molti: chi parla oggi delle quattro “virtù cardinali” della tradizione classica occidentale (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza)?
Già il sostantivo “virtù” evoca alla mente qualcosa di untuoso, inautentico, tendente all'ipocrisia. Quando non designa posture apparenti, per salvaguardare il “buon nome” in società, sembra comunque riferirsi ad atteggiamenti faticosamente conquistati mediante atti di volontà, per domare impulsi istintuali animaleschi. Eppure il termine latino virtus aveva ben altro significato: il valore, la potenza intrinseca, di qualcuno o di qualcosa. Virtuoso era quell'essere che aveva esplicitato, attuato, le sue caratteristiche essenziali: per esempio il condottiero vittorioso o il sonnifero efficace (in quanto dotato di virtus...dormitiva!). Probabilmente ormai nell'uso comune il termine “virtù” è irrimediabilmente compromesso e, anziché tentare di rispolverarlo nella sua freschezza originaria, potrebbe risultare più agevole sostituirlo con parole meno equivoche: qualità etica, fioritura personale, frutto maturo...o non so che altro (i poeti “virtuosi” potrebbero venirci in soccorso). L'essenziale sarebbe arrivare alla consapevolezza diffusa che uomini e donne sono virtuosi/e quando esprimono all'esterno ciò che vivono realmente al proprio interno: una dose accettabile – certo mai perfetta – di equilibrio, saggezza, ricchezza di sentimenti, vitalità progettuale, attitudine relazionale...Quando sono persone risolte (o, comunque, a una discreta tappa del cammino per diventarlo): che hanno 'sciolto' più nodi di quanti gliene restano e - pur senza rimuovere dubbi, domande, problemi - si pongono in maniera affermativa, propositiva, costruttiva.
Se il sostantivo “virtù” è inflazionato e frainteso, ancora di più lo è l'aggettivo cardinali. Più di un interlocutore istruito mi ha dichiarato, senza ombra di ironia, di ritenere che l'aggettivo derivasse dalla supposizione (sin troppo benevola!) che tali virtù caratterizzino i più alti prelati della Chiesa cattolica. Ovviamente non è così. Prudenza, giustizia, fortezza e temperanza sono state considerate, invece, i “cardini” di una vita moralmente solida. Sono davvero queste quattro qualità etiche i perni sui quali si regge un'esistenza 'riuscita'? Si tratta di una tesi opinabile. Ma ciò che, innanzitutto, importa è – anche in questo caso – restituire alle parole il significato originario e autentico. Dunque sostituire il termine “cardinale” con qualche equivalente più espressivo quale fondamentale, basilare, essenziale...Insomma trovare il modo per sgombrare la scena da fantasmi fuorvianti in modo da confrontarsi schiettamente con la tesi (vera o erronea) della tradizione greco-latina: che ci sono atteggiamenti etici (“virtù”) elementari e irrinunciabili (“cardinali”) senza i quali si costruisce la propria esistenza su basi fragili.
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