“Dialoghi mediterranei”
1.11.2022
DAL TRAMONTO DELLE RELIGIONI ALLA MISTICA POST-RELIGIOSA
Le religioni più diffuse nel pianeta sono in crisi? Per molti versi, sì. Soprattutto le grandi ‘confessioni’ cristiane: cattolica, ortodossa, valdese, anglicana, riformata,. Le chiese sono sempre meno frequentate man mano che le generazioni più anziane lasciano il posto alle nuove. Così sociologi e teologi, antropologi e filosofi, s’interrogano sulla categoria interpretativa “post-religionale”. Che comporta una domanda ancora più radicale: che ne è dell’idea tradizionale di Dio che le chiese cristiane hanno veicolato in questi venti secoli? Così la questione dell’epoca “post-religionale” coinvolge la questione del “post-teismo”: che ci aspetta dopo la “morte” del Dio biblico (onnipotente, onnisciente, giudice supremo dei popoli e dei singoli) dai tratti ancora umani, troppo umani?
Alcune possibili risposte sono offerte dal quarto volume (Oltre Dio. In ascolto del Mistero senza nome, a cura di C. Fanti e J. M. Vigil, Prefazione di P. Scquizzato, Gabrielli editori, San Pietro in Cariano 2021) della Collana “Oltre le religioni”, cui hanno contribuito firme al di qua e al di là dell’Atlantico: J. Arregi, C. Magallón Portolés, M. J. Ress, G. Squizzato, S. Villamayor Lloro. Dal paradigma “religionale-teistico” dominante nella maggioranza dei fedeli che sono convinti d’essere cristiani si può uscire – andare “oltre” – in varie direzioni, alcune delle quali sono qui rappresentate da convinti esponenti.
Ateismo ?
Diciamo subito che nessuno dei co-autori si riconosce, almeno dichiaratamente, nella strada più battuta da chi lascia alle spalle la fede nel Dio biblico-ecclesiale: l’ateismo. E’ come se ai loro occhi l’ateismo sembrasse troppo spesso (se non addirittura sempre) la negazione, uguale e contraria, del teismo: dunque ad esso complanare. E, perciò, dello stesso grado di validità (meglio: di invalidità). E' quanto sostiene ad esempio J. M. Vigil:
“Tanto il cristianesimo quanto l'ateismo hanno sbagliato a confondere il theós con il Mistero della Realtà, con la divinità della Realtà. L'ateismo per la sua cecità dinanzi a qualunque realtà diversa da quella materiale. E il cristianesimo per la sua cecità di fronte alle contraddizioni legate all'immagine culturale-filosofica del theós, assunto come il volto stesso indiscutibile del Mistero ineffabile. E' per questo che, rispetto ai confronti tra cristianesimo e ateismo del secolo scorso, oggi vi sono voci che evidenziano l'inutilità di quel dialogo tra sordi impegnati a tentare di convincersi reciprocamente: entrambi avevano torto ed entrambi avevano ragione” (pp. 81 – 82).
Agnosticismo?
Più attendibile riesce, invece, la prospettiva agnostica o apofatica: Dio, se esiste, è l’Ineffabile, l’Indicibile. Il Conosciuto in quanto Inconosciuto. Ma – se così posso esprimermi – in alcuni di questi testi l'agnosticismo viene elevato all'ennesima potenza, sino al punto da non potersi auto-presentarsi come tale. E' come se l'agnostico arrivasse alla consapevolezza di non poter esser certo neppure del proprio agnosticismo. Scquizzato recupera in proposito un passaggio della Kena Upanishad citato da J. M. Kuvarapu nel suo Sulle acque dell'oceano infinito:
“Chi dice «lo conosco» (Dio), non lo conosce, e anche chi dice «non lo conosco» non lo conosce: lo conosce solo chi dice «lo conosco eppure non lo conosco» ” (cfr. p. 13).
Un'efficace lezione per gli scettici di ogni postura: se sei davvero scettico, non puoi essere sicuro neppure di ignorare davvero tutto! Magari sai qualcosa, a tua insaputa.
Rispetto alla problematica teologica S. Villamayor parla di un “agnosticismo attivo, si potrebbe dire innamorato”: “il post-teismo può essere accolto tanto da teisti quanto da atei, perché non presuppone l'affermazione né la negazione di Dio” (p. 146). In un certo senso, considerato quale “un lungo sguardo rivolto a un orizzonte senza forma che, in virtù della sua indeterminatezza, può essere ispirato da ogni figura”, “bisognerebbe chiamarlo piuttosto un pre-teismo, in quanto si ferma al passaggio previo e comune dell' indefinizione del mistero” (pp. 146 – 147).
Accenti simili, declinati al femminile, si risentono nelle dichiarazioni di Carmen Magallón: se comunemente, trattandosi di Dio, si suppone che “le persone credenti abbraccino una fede che le porta ad affermare la sua esistenza, quelle atee la neghino in maniera convinta e quelle agnostiche restino nel dubbio”, non mi riconosco in nessuna delle tre categorie.
“Così come non posso affermare l'esistenza di Dio, neppure posso negarla, ma sento l'impulso che l'amore ha dato alla mia vita. E un'intuizione (un desiderio ?) mi porta a pensare che, scendendo in profondità nella complessa e inafferrabile concezione di Dio, che nella sua assolutezza oltrepassa la nostra comprensione, sia possibile trovare radici, valori, dubbi e sentimenti simili nei tre gruppi” (p. 205).
Mistica panenteistica
La maggior parte dei contributori a questo volume, però, non sembra accontentarsi di una dichiarazione di impotenza a pronunziarsi sul Mistero: vira, infatti, su posizioni di silenzio intellettuale, concettuale, ma non di silenzio assoluto. Propende infatti per recuperare dal passato e rilanciare nel futuro la prospettiva mistica: la possibilità di una comunione ineffabile, ma reale, con Dio, o meglio con la “sovradivinità” (P. Scquizzato, p. 22). Se “il credente” è colui che “afferma una verità, pronuncia una definizione della divinità: Dio è così e così…” (pp. 22 – 23), “il mistico è donna e uomo di fede, ma non può essere definito un credente. La fede per lui è esperienza dello Spirito nello spirito, dove soggetto conoscente e oggetto conosciuto sono la medesima cosa, e non sono nemmeno una ‘cosa’, ma piuttosto un essere, una vita, spirito appunto” (p. 22). Il mistico – rispetto al credente tipico – ha meno ed ha più: ha meno nozioni, meno idee, meno sapere sul Divino; ma ne ha un’esperienza più intima, profonda.
Fra i tanti interrogativi possibili, se ne impone uno su tutti: chi può assicurarci che il mistico – anche quando fossimo noi stessi a interpretare questo ruolo – non sia, in perfetta buona fede, un illuso? Il soggetto in questione può anche rispondere di fruire della certezza interiore non verbalizzabile di percepire un Ciò, un Essere, una Realtà; e che non gli interessa neppure cercare una legittimazione logica, ragionevole se non razionale, del cammino intrapreso. Ma chi si trovi all’esterno di questa esperienza – o, comunque, la voglia osservare come se lo fosse: è il caso del filosofo della religione e del teologo della spiritualità – non può sottrarsi all’obbligo, o per lo meno al desiderio, di capire come distinguere la vera dalla falsa mistica.
Il primo passo, mi pare, sia chiedersi a che condizioni 'oggettive' sarebbe possibile che una comunione mistica 'soggettiva' si desse. In parole più semplici: come dovrebbe essere il rapporto ‘ontologico’ fra Dio e il mondo per ammettere l’ipotesi di una comunione fra noi e Dio (da verificare poi caso per caso) ? La risposta è qualificata nella Prefazione di Scquizzato come “panenteistica”: la totalità dell’universo non è Dio, ma in Dio. Dio è talmente presente nell’universo da essere impensabile senza di esso come esso lo è senza di Lui:
“Noi, e insieme a noi la natura, la creazione intera, stiamo vivendo la fase della manifestazione storica, temporale della divinità. Siamo l’onda dell’oceano ma anche, nel nostro essere più profondo, essenzialmente oceano ”(pp. 19 – 20).
Trovo convincente questa chiave di lettura, ma non direi che la maggioranza dei testi raccolti nel volume la condivida. Infatti, se non erro, la prospettiva onto-teologica prevalente negli autori invitati sia piuttosto il panteismo : il cosmo è divino e Dio non è null’altro che il cosmo. Per dirla con Spinoza: Deus sive Natura. Sive: “ossia”, “vale a dire”, “in altro termine”...E' curioso che il panteismo sostenuto (eccezion fatta per qualche autore che lo contesta esplicitamente: Gilberto Squizzato alle pp. 179 – 181) non è mai nominato come tale. Perché questa sorta di pudore semantico, di ritrosia terminologica? Perché la maggior parte di questi autori, che pensano e parlano da panteisti, non dichiarano mai di esserlo? Azzardo un'ipotesi: forse perché la storia delle idee ci insegna che il panteismo si rivela spesso una forma cortese di ateismo (“Tu esisti, caro Dio, nessuno vuole negarlo: solo che coincidi senza residui, senza sporgenze, con l’insieme dell’universo”).
Comunque l'insieme dei contributi evidenzia – più o meno consapevolmente - la questione per me centrale: come superare i dualismi ontologici, senza rassegnarsi a un monismo ontologico (in cui non avrei criteri per distinguere l'assassino dalla sua vittima, l'essere-per-gli-altri dall'essere-per-sé-stessi, l'esperienza della gioia dall'esperienza del dolore)?
Il dualismo ontologico – fondato da Platone ed esasperato da Cartesio – è davvero rischioso: difficilmente si può evitare di sfociare in una visione “teistica” di Dio concepito come l'Esterno, l'Estraneo, l'Irraggiungibile, l'Indecifrabile, l'Imprevedibile. Né basta sopprimere questo dualismo eliminando con un colpo di spugna uno dei due poli, sfociando in un materialismo a-teo (materia senza Dio) o in uno spiritualismo a-cosmico (Dio senza materia). Se invece – su suggestione della fisica quantistica – scopriamo (o, sulla scia di Tommaso d’Aquino, riscopriamo) che la differenza fra materia e non-materia è secondaria, in quanto interna all’Essere, all'Intero, quale scandalo potrebbe provocarci l’ipotesi che la divinità e il mondo siano due manifestazioni dell’unica Energia, un po’ come l’acqua è sé stessa sia allo stato liquido che allo stato solido (quando si manifesta sia come ruscello sia come ghiaccio) (cfr. P. Scquizzato, pp. 16 – 20) ? Che tutto è Essere, ma non tutto lo è con la stessa densità, consistenza, complessità?
Criteri per distinguere la falsa dalla vera mistica
Se ammettiamo che in uno scenario come questo evocato (non-dualistico ma neppure monistico) – uno scenario in cui l'Essere si squadernasse a vari livelli d'intensità ontologica (in relazione di analogia: secondo i medievali, di “somiglianza che non esclude una dissomiglianza ancora maggiore”) - la mistica sarebbe pensabile, quali criteri potrebbero aiutarci a distinguere l'autentica dalle sue contraffazioni?
Personalmente ne individuerei, innanzitutto, due.
Il primo: il mistico che diventa seriamente consapevole che l'Essere è a lui più intimo di quanto egli stesso non lo sia a sé (riecheggio sant'Agostino) spera che, in questa vita o in eventuali successive, gli resti solo quel minimo di coscienza che gli consenta di fruire la gioia di questa identificazione. Un po' come un nuotatore che si immerga nel mare dimenticando tutto di sé, tranne l'essere immerso in quel mare. I falsi mistici che ho incontrato nella vita leggono questa identificazione all'inverso: sono talmente unito all'Assoluto da esserne l'espressione concentrata, l'epifania tangibile. La mia coscienza è dilatata al punto da coincidere - “una cosa sola” - con l'Uno. Un po' come un nuotatore convinto che basti toccarlo, entrare in rapporto (devoto) con lui, per sperimentare la comunione con il mare. L'io tocca l'apice dell'ipertrofia avvertendosi – in maniera tanto più pericolosa quanto più sincera – identico a Dio. La consapevolezza della propria relatività, arrivando al massimo possibile, si capovolge nell'illusione della propria assolutezza.
Un secondo criterio è abbastanza collegato a questo primo: il mistico autentico, in quanto unito all'Essere nella sua originaria sorgività, si avverte solidale con ogni sua manifestazione, anche minima. Nessun vivente, anzi nessun essente, gli è radicalmente estraneo. Nessuno gli riesce indifferente. Un mistico freddo, incapace di con-passione per le gioie e i dolori delle altre manifestazioni dell'Uno, è solo una patetica caricatura dell'originale.
Se si mettono fra parentesi, almeno metodicamente, le difficoltà tecniche conseguenti, si deve ammettere che il rigore dei jainisti nel rispettare tutti i viventi senzienti è perfettamente coerente con la mistica. In qualcuno dei suoi libri, Thomas Merton racconta come – in una situazione di calura estrema in Oriente – abbia una volta cacciato con la mano degli insetti volanti che lo assediavano: con sorpresa, vide gli operai allontanarsi in silenzio dalla stanza. Richiestane la ragione, gli fu spiegato che non si poteva convivere con un soggetto così violento come lui.
Anche nelle tradizioni monoteistiche la relazione con gli altri – almeno con gli altri esseri umani – fa da cartina di tornasole della validità di una relazione sedicente mistica. Si racconta che un rabbino, invidioso di un collega di cui si diceva che in preghiera si elevasse al settimo cielo, lo abbia una volta seguito di nascosto nel bosco dove era solito ritirarsi. Interrogato al ritorno, avrebbe risposto: “No, non sale al settimo cielo. Va ancora più in alto. Infatti si allontana dal villaggio per visitare una vecchietta che vive da sola, spaccarle la legna e prepararle il fuoco della sera”.
La controfigura del mistico è talmente concentrata nello sforzo di dimenticarsi di sé da dimenticarsi di tutto tranne che di sé. Ignora che il modo migliore per de-concentrarsi dall'io è pulsare all'unisono con tutte le altre irradiazioni della Vita. Persegue, oggettivamente, l'isolamento più individualistico confondendolo con la comunione ontologica universale. Dimentica che – quale che sia la sua concezione complessiva dell'Essere -
“tanto la dualità quanto la non-dualità esprimono la disposizione a unirsi nell'impegno per la liberazione. Questa è la grande sfida e la prova dell'autenticità di ogni mistica” (S. Villamayor, p. 154).
Una mistica a-dialogica ?
Nell'ottica panenteista – e più ancora nella panteista - resta aperta una questione esistenziale che non può non interrogare anche quanti sono più o meno indifferenti alle problematiche teoretiche sinora affrontate: la possibilità della preghiera o come si voglia chiamare il dialogo fra il mistico e l'Assoluto. Il dialogo infatti, se è reale e non solo metaforico come fra Leopardi e la luna, implica due soggettività distinte ma comunicanti. Due soggettività autocoscienti ed etero-coscienti, in qualche misura almeno auto-determinantisi: in Occidente si è detto anche due “persone”.
Posto che ormai il termine “persona” è difficilmente utilizzabile (“Definire la divinità come persona ha portato a immaginarlo come individuo, dato che, per il comune sentire, persona e individuo sono la stessa realtà”, P. Scquizzato, p. 14), come possiamo concepire l'Assoluto senza rendere irragionevole ogni forma di dialogo con Lui/Lei/Esso?
A mio sommesso avviso questo è un aspetto della tematica che, almeno in queste pagine, trovo insoddisfacentemente affrontato. Nel paragrafo che vi dedica J. Arregi (Dio oltre un “Dio personale”) mi pare che le critiche alla teologia tradizionale colpiscano l'accezione antropologica di “persona” ritenendo di liquidare ogni possibile accezione di “personalità” (sia pur in senso analogico). Lo stesso autore forse sospetta questo qui pro quo e conclude con delle righe in cui riprende la categoria di “transpersonale” più volte riproposta da Hans Küng:
“Con ciò non voglio dire in assoluto che Dio sia «qualcosa di impersonale», una realtà confusa e spenta senza la luce della coscienza e la fiamma dell'amore. Ma piuttosto che la Profondità ultima o la Realtà originaria di tutto il reale sia assolutamente transpersonale, infinitamente oltre qualsiasi cosa, eterna Presenza senza un qui o un là, eterno Processo senza un prima o un dopo, Spirito o Ruah che ci muove e ci abita e ci fa essere, eterna Comunione che tutto crea e si crea in tutto” (J. Arregi, p. 124).
Comunque si chiarisca in futuro questa qualità “personale” del Divino (anche con l'aiuto di strumenti metafisici un po' più chirurgici rispetto agli autori del volume), resta assodato che, con il “teismo”, è ormai crollata tutta una millenaria tradizione di preghiera come invocazione d'aiuto: se Dio fosse in grado di liberarci dalla peste perché dovrebbe prima consentirla, o addirittura provocarla? E – qualora fosse in grado di farlo – perché dovrebbe risparmiare mia figlia e non la figlia della vicina di casa?
Spazzato dall'orizzonte ogni ingenuo antropomorfismo, dalle pagine di questo volume (davvero intrigante, sanamente e santamente inquietante) mi pare emergano soprattutto due indicazioni.
La prima: accettare quella “onesta autocontraddizione semantica” - nota come “teologia apofatica” - consistente in “un discorso sul divino che sa di non poterne dire nulla” e accontentarsi di
“quell'anelito, quel respiro profondo (potremmo dire quella spiritualità, dal latino spiro) e anche quello smarrimento davanti all'enigma del mondo che, pur forti di ogni cognizione scientifica e del moderno pensiero tecnologico, possiamo continuare a custodire nell'intimo della nostra coscienza. Oppure pensiamo a god, l'invocato: ci rimane il desiderio di un dialogo con quell'enigma e forse perfino l'azzardo di un tu che ci sia interlocutore e controparte, pur rinunciando consapevolmente a farcene alcuna immagine, tanto meno antropomorfa” (G. Squizzato, p. 173).
La seconda: transitare dal dire preghiere a diventare preghiera.
“Un giorno ci appare miracolosamente chiaro che non abbiamo bisogno di inventarci preghiere, perché siamo noi stessi – grazie alla nostra precarietà che tutto invoca dall'altro e dagli altri – preghiera vivente, fatta carne e silenzio”
a imitazione del “maestro sovversivo” di Nazareth che
“non celebrò mai sacrifici, ma mostrò la sacralità (cioè l'intangibilità) di ogni uomo e di ogni donna, a cominciare dai più sofferenti e dai più disperati” (G. Squizzato, pp. 176 – 177).
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
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