“Dialoghi mediterranei”1 settembre 2022
DONNE E MAFIA.
PER UNA GRIGLIA INTERPRETATIVA
Ancora recentemente una delle più attente studiose del fenomeno mafioso, anche riguardo alla presenza femminile al suo interno, notava che la “congerie” di libri dedicati a questa particolare tematica abbonda di
“testi interessanti, frammentari o ideologici; spesso incapaci di darti quel necessario sguardo d'insieme, di cogliere il nocciolo della questione che ancora ci chiama in causa”.
Puntando su “alcuni libri importanti” che tuttora fanno testo sull'argomento, vorrei provare a ipotizzare una griglia interpretativa complessiva che avvicini allo “sguardo d'insieme” di cui la Dino avverte la mancanza, pur nella consapevolezza che in questo campo - come in tutti i campi in cui si ricerca davvero - si può aspirare ad “approdi parziali e acquisizioni mai definitive”.
1. Premessa sul patriarcato nella società (in generale) e nella mafia (in particolare)
Il sistema di dominio mafioso è un sotto-sistema del più ampio sistema della società italiana.
Il primo, dunque, è inintelligibile se non si considerano le relazioni dialettiche con il secondo: relazioni di somiglianza, di continuità, ma anche di differenza, discontinuità.
Dal punto di vista del ruolo delle donne, il sistema sociale italiano è caratterizzato da un patriarcato irriflesso ma effettivo: “irriflesso” perché scarsamente consapevole e ancor meno programmatico; “effettivo” perché vigente nelle relazioni private quotidiane e nei costumi sociali prevalenti. Esso dunque appare debole sul piano ufficiale del discorso pubblico e della stessa legislazione in divenire, ma forte sul piano ufficioso delle pratiche: anzi, proprio la sua decrescente popolarità (dovuta al fatto di essere considerato vieppiù 'scorretto' politicamente) induce la maggioranza dei cittadini e delle cittadine ad abbassare la guardia, rendendone più agevoli il permanere nella psiche collettiva e l'infiltrarsi nelle trame ordinarie dei rapporti sociali.
Se il sistema mafioso è un sotto-sistema del sistema sociale, diventa attendibile l'ipotesi che il primo sia in relazione dialettica (di affinità e di diversità) con l'impianto patriarcale-maschilista del secondo. Detto in termini più immediati: l'ipotesi che i mafiosi siano maschilisti, ma a modo proprio (dunque: per certi versi come gli altri maschi, per altri con alcune peculiarità). Nulla di nuovo, per altro, rispetto ad altre caratteristiche antropologiche dei mafiosi: capitalisti, ma a modo proprio; cattolici, ma a modo proprio; sciovinisti (sicilianisti) , ma a modo proprio...
Per verificare tale ipotesi è necessario chiarire cosa intendere per patriarcato.
Adotto qui la formulazione proposta da Gilligan e Sninder: un assetto culturale-sociale fondato
“su una struttura binaria e gerarchica di genere” per la quale:
“le capacità umane” sono o “mascoline” o “femminili” e le mascoline sono da privilegiare;
“alcuni uomini” sono al di sopra di altri e tutti gli uomini al di sopra delle donne”;
si perpetua “una separazione tra il sé e le relazioni”, con la conseguenza (dannosa sia per gli uomini che per le donne) che gli uomini vengono obbligati ad “avere un sé senza relazioni” e le donne ad “avere relazioni senza avere un sé” .
2. La condizione delle donne 'interne' al sotto-sistema mafioso
Aspetti di omogeneità
Dalle testimonianze dirette e indirette risulta con chiarezza che le donne 'interne' al sistema mafioso patiscono le stesse conseguenze del maschilismo patriarcale subite dalle donne 'esterne'.
a) In entrambi i contesti la donna vive in regime di oppressione ordinaria, anche quando non si registrano episodi eclatanti di violenza fisica. In entrambi i contesti il maschio violento - mafioso o estraneo al mondo mafioso che sia - adotta la violenza non necessariamente esercitandola, ma anche solo minacciandola: la esercita alcune volte per poterla minacciare efficacemente sempre. Da qui la necessità, per le donne 'interne' o 'esterne' al regime mafioso, di non lasciarsi ingannare dalle apparenze, di non accettare la logica dell'emergenza o dell'eccezionalità; di acquisire “una visione non emergenziale del fenomeno” ; di “costruire una visione delle cose che consenta alle ragazze di liberarsi da gabbie che loro stesse considerano normali, anzi, necessarie” ).
Va subito osservato che, contrariamente a quanto suppongono coloro che non hanno ascoltato le testimonianze affidabili di donne congiunte di mafiosi, il tasso di violenza maschile in essi non né maggiore né minore rispetto alla media statistica dell'intera popolazione maschile: ci sono mafiosi che non hanno mai alzato un dito contro la moglie e non-mafiosi (o, addirittura, militanti attivi nell'anti-mafia) che la picchiano abitualmente. Possono negare queste narrazioni solo osservatori “legati a un'idea lombrosiana del mafioso, brutto, sporco e cattivo. Che invece può essere spietato nel suo ambito per così dire 'di lavoro' e affettuoso a casa. Che può quindi voler bene e farsi voler bene”. Non diversamente dagli ufficiali e dai soldati nazisti di stanza nei lager. Chi ha avuto un congiunto associato a Cosa Nostra che si mostrava “allegro, affettuoso, amava la vita, gli amici e il valzer” come può non chiedersi se egli sia “soltanto” “un mostro dedito a esercizi di morte, sempre in lotta col diverso, a partire dalla propria parte femminile negata” ? Per qualsiasi familiare, “sentire di volergli bene” non può mai considerarsi un “sentimento politicamente scorretto”: i sentimenti in sé non sono né scorretti né corretti. Ne siamo 'affetti', toccati. L'opzione etica comincia quando ci si chiede se farli prevalere su ogni altro criterio di giudizio o relegarli alla sfera emotiva cui appartengono per essere capaci di assumere (interiormente e pubblicamente) le opportune distanze. In misura più o meno notevole, a un certo momento della vita, non siamo un po' tutti costretti a fare i conti con i nostri genitori (o con i nostri ex-partner) conciliando la gratitudine per quanto ci hanno saputo dare di prezioso e il risentimento per quanto ci hanno voluto o negare di prezioso o imporre di sgradito?
b) In entrambi i contesti le donne subiscono un deficit di agibilità democratica perché se, in generale, si può affermare che il patriarcato è “l'antitesi dei valori democratici”, altrettanto si può affermare dei sistemi di dominio mafiosi. La riprova: che la lotta delle donne per la democrazia è stata doppiamente faticosa perché contro il maschilismo e contro la maglie del potere illegale. Come attesta la storia, “la lotta alla mafia è stata, soprattutto nel passato, lotta per la democrazia e per la tutela dei diritti dei lavoratori, da cui le donne sono state a lungo escluse. Nelle esperienze associate di lotta alla mafia, la presenza femminile, pur quando numerosa, ha incontrato enormi difficoltà nel configurarsi in forme strutturate e durevoli, accompagnate da ruoli pubblici riconosciuti”.
c) Le donne 'interne' al sistema mafioso condividono, con tutte le altre concittadine, il condizionamento culturale del patriarcato che è, prima ancora di un assetto politico-istituzionale modificabile, un a priori psicologico, un modo di vedere il mondo sociale quasi universalmente condiviso. In esse però questo condizionamento mentale si abbina, rinsaldandosi, con il condizionamento (più o meno consapevole) del codice culturale mafioso, come ben si esprime la collaboratrice di giustizia Carmela Iuculano:
“La mafia è un fenomeno che controlla le menti. Per me veramente è 'na ragnatela perché tu entri là e rimani intrappolato, più ti muovi, più vuoi uscirtene, peggio è perché più t'intrappoli, più t'impigli nella rete, e peggio il ragno t'immobilizza, ti succhia piano piano, fino a che ti svuota tutto...” .
In entrambi i contesti si nota uno iato – talora una vera contraddizione – fra ciò che viene proclamato espressamente (la dignità della donna, il suo diritto all'autodeterminazione, l'intangibilità del suo 'onore'...) e ciò che si vive effettivamente (la subordinazione dei bisogni e dei desideri femminili ai bisogni e ai desideri maschili). Nella tradizione culturale italiana, dalla donna-angelo dei Medievali alla donna 'divina' dei Romantici, sino alle canzoni di musica leggera e alla letteratura 'rosa', campeggia lo stereotipo della donna come figura sacra o comunque intoccabile perché preziosa: tutto ciò in pacifica compatibilità con un sistema giuridico, economico e simbolico in cui le pari opportunità fra maschi e femmine costituiscono conquiste recenti e comunque parziali e per giunta reversibili. Similmente un luogo comune, ribadito artatamente dagli ambienti mafiosi, è che il vero “uomo d'onore” rispetta la moglie propria e le mogli degli altri membri di Cosa Nostra: come se avere molte amanti non fosse una mancanza di rispetto verso la proprie moglie o come se, in caso di ordini 'superiori', il mafioso non dovesse essere pronto a uccidere la moglie di un altro mafioso o la propria stessa moglie.
e) Da quanto sinora considerato si potrebbe condividere la sintesi proposta da Nando dalla Chiesa:
“Ci si trova davanti all'universo in assoluto più maschilista della società italiana, in cui la donna serve a riprodurre forza lavoro militare e codici di violenza. Dove accade che essa possa anche ottenere scettri provvisori, a causa di ergastoli e lotte intestine. Ma sono scettri delegati da un maschio, segno mai di emancipazione bensì sempre di assoggettamento. Dove l'omertà rade al suolo ogni idea di onore e dignità. Dove l'amore è una variabile 'dipendente' dalle leggi del clan, e nessuna Antigone è permessa. E in cui anzi l'onore può essere difeso uccidendo le proprie figlie” .
Si tratta però di una delle due facce della luna. Non va dimenticata la faccia solitamente in ombra: che le donne 'interne' al sistema mafioso sono 'complici' del sistema patriarcale (in quanto donne) e del sistema mafioso (in quanto donne di mafia). Confrontiamo quanto affermano le due studiose statunitensi Gilligan e Snider sul patriarcato e quanto afferma Renata Siebert sul ruolo 'pedagogico' delle donne 'interne' alla mafia.
Le prime:
“Non è un segreto che il patriarcato dipenda dalla complicità delle donne. Il suo perdurare si fonda in parte sul silenzio e l'ottemperanza delle donne, compresa la loro disponibilità a continuare ad accettare il sacrificio dei figli per qualunque causa o proposito superiore”.
La seconda:
“Nella strategia mafiosa della signoria del territorio, sono le donne che fungono da cassa di risonanza per il ricatto, per la minaccia, per l'angoscia di morte che generano l'omertà, la complicità, l'obbedienza alla legge mafiosa” .
Ammettere queste responsabilità (almeno oggettive, spesso anche soggettive) a carico di donne non è certo un modo di denigrarle. Anzi, è proprio della mentalità maschilista tradizionale (non certo estranea alla formazione di tanti magistrati e avvocati) escludere per principio che a una donna possano essere imputati reati gravi (e, più in genere, errori e difetti nella gestione delle dinamiche sociali) come si trattasse di una perenne minorenne, non del tutto in grado di intendere e di volere. Invece le cronache sono sempre più affollate di nomi di donne che svolgono ruoli attivi all'interno delle organizzazioni mafiose: “sono veramente tante le spacciatrici di droga, nei quartieri più degradati di Palermo, che non esitano ad utilizzare anche i loro figli!”; “oltre alla spacciatrici, ci sono anche donne che possono dirsi proprio trafficanti” e altre “intestatarie di quote notevoli” di imprese di mafiosi o “prestanome, nel caso che i congiunti non possano comparire”.
In occasione di mafiosi che decidono di collaborare con l'apparato giudiziario statale il protagonismo delle donne di mafia , abitualmente sottotraccia, emerge alla luce del sole. In qualche caso perché sono mogli o figlie che inducono il congiunto a saltare il fosso o comunque restano al suo fianco per sostenerlo; in altri più numerosi perché o tentano di dissuaderlo o – se non riescono - prendono clamorosamente
“le distanze dai pentiti con pubbliche dichiarazioni con cui hanno accusato magistrati e forze dell'ordine, colpevoli di aver indotto al 'tradimento' i loro familiari, hanno definito questi ultimi 'infami' e li hanno rinnegati” .
Secondo Teresa Principato e Alessandra Dino,
“nella sorprendente quantità di dichiarazioni di 'scomunica' rilasciate dalle parenti dei pentiti vi sarebbe […] una nuova strategia comunicativa di Cosa Nostra, che avrebbe consegnato alle donne la funzione di difesa dell'organizzazione nei confronti del mondo esterno; interpretazione che conduce a riconsiderare il ruolo puramente familistico e marginale del passato e a parlare di una vera e propria 'centralità sommersa' della donna nell'organizzazione mafiosa”.
Dunque, nel positivo e nel negativo, la parabola della condizione femminile dentro l'orbita mafiosa si disegna in parallelo con la parabola della condizione femminile in generale.
2.2 Aspetti di specificità
Insieme a questi aspetti di affinità vanno però notate almeno due differenze fra la prospettiva patriarcale-maschilista, in generale, e la sua declinazione mafiosa, in particolare.
Un primo elemento di specificità potrebbe individuarsi nella legittimazione ideologica (che, come si è notato sopra, raramente si traduce nelle pratiche quotidiane) della dignità della donna: la cultura illuministico-borghese la fonda sulla natura umana comune e sui conseguenti diritti naturali; la cultura mafiosa, invece, sull'appartenenza della donna a una famiglia (anagrafica e/o criminale) in generale e a un maschio (il padre, il marito, il fratello...) in particolare.
Un secondo elemento di differenza fra l'ideologia patriarcale in generale e la sua versione mafiosa discende, strettamente, dal precedente: tutti i maschilisti usano, e abusano, quando e come possono, delle femmine, ma mentre il patriarcato condiviso sostiene (verbalmente) la dignità di ogni donna in quanto tale, la sua versione mafiosa sostiene (verbalmente) la dignità di quelle donne che appartengono anagraficamente a una famiglia mafiosa, a esclusione di tutte le persone (amanti, prostitute, gay, transessuali...) che abbiano con membri di Cosa Nostra legami affettivo-sessuali non legalmente riconosciuti.
La condizione delle donne 'transfughe' dal sotto-sistema mafioso
Aspetti di omogeneità
Se la ricostruzione precedente è realistica,
“l'immagine della donna siciliana, chiusa in casa e vestita di nero, non corrisponde nella quasi generalità alla situazione attuale. In Sicilia, come altrove, le donne rivendicano emancipazione e occupazione. […] Lo stereotipo di donna siciliana sottomessa, semplice trasmettitrice dei valori legati alla famiglia, non ha più ragion d'essere. Anche all'interno delle famiglie mafiose”.
Questo mutamento presenta certamente i tratti di una emancipazione “perversa”, o di una “pseudoemancipazione”, ma in altri casi si tratta - esattamente come nel caso delle donne in generale - di una emancipazione reale. Mi riferisco a quel numero non trascurabile di donne che, insofferenti per le ragioni più varie del regime patriarcale di stampo mafioso, decidono di rompere con le famiglie (anagrafiche e/o criminali) di appartenenza. Queste 'ribelli' affrontano i medesimi rischi delle donne che decidono di scrollarsi dalle spalle il giogo del patriarcato vigente anche negli ambienti esterni alla mafia, pagando un prezzo altrettanto alto in termini psicologici, economici, di sanzione sociale e, talora, addirittura con la vita biologica (per questo verso vivono una condizione omogenea alla condizione di tutte le donne del loro tempo).
Aspetti di specificità
a) Se è vero che le donne che vogliono uscire dal recinto mafioso devono affrontare difficoltà del tutto simili alle donne che vogliono liberarsi dalla gabbia del patriarcato, è vero altresì che, in più, diventano delle 'nemiche' di un sistema criminale che non può tollerare il 'cattivo' esempio di schegge disobbedienti .(e questo costituisce un peso supplementare specifico rispetto alle donne che non gravitano nell'orbita del potere mafioso).
b) Questa differenza di livello di rischio può misurarsi se si considera la differenza di 'giustificazione' del femminicidio nel sistema patriarcale in generale e nel sotto-sistema mafioso in particolare: nel primo orizzonte mentale lo si ritiene un gesto inaccettabile (e, infatti, non si rinunzia a ricorrere a spiegazioni varie, pur se quasi sempre infondate: “è stato un raptus”, “il pover'uomo era ormai esasperato dopo anni di maltrattamenti subiti”, “lei lo ha prima provocato sessualmente e poi gli si è negata deridendolo”); nel secondo orizzonte mentale, invece, lo si ritiene un gesto accettabile, anzi in alcuni casi doveroso (per salvaguardare l'onore della famiglia in generale, di uno o più maschi della famiglia in particolare). Mi riferisco non solo ai casi – 'ovvi' – di donne accusate (fondatamente o infondatamente) di aver tradito la cosca (cfr. Lea Garofalo) o il marito (cfr. Lia Pipitone), ma anche di donne massacrate solo perché congiunte di 'collaboratori di giustizia' (giornalisticamente denominati 'pentiti') in una logica di vendetta 'trasversale' (cfr. la madre, la sorella e la zia di Francesco Marino Mannoia o la moglie e la madre di Riccardo Messina) o, addirittura, perché involontarie possibili testimoni di giustizia (come l'appena diciassettenne Graziella Campagna).
Quando una donna viene uccisa perché familiare di un 'traditore' non si tratta tecnicamente di 'femminicidio' dal momento che la vittima non è colpita in quanto donna: ma ciò smentisce ugualmente il luogo comune secondo cui la mafia non uccide né i bambini né i preti né le donne. Nonostante la stampa ripeta in ogni occasione questo ritornello, la storia insegna che le cosche mafiose non hanno mai risparmiato la vita né di bambini né di preti né di donne tutte le volte che lo hanno ritenuto necessario per gli interessi superiori (anzi supremi) di Cosa Nostra.
Se ciò è vero, meritano immensa stima tutte le donne che, nate al di fuori di ambienti mafiosi e para-mafiosi, non solo se ne sono tenute lontane ma si sono impegnate, a diverso titolo e con diverse funzioni, a contrastare il sistema di dominio mafioso . Si tratta in prevalenza di
“vedove e madri di magistrati, poliziotti, politici uccisi dalla mafia, che in questi anni hanno saputo trasformare il loro dolore individuale in capacità di testimonianza e di lotta contro la mafia. Sono tutte donne il cui impegno nasce anche da una elevata coscienza civile, dall'avere condiviso con i loro congiunti la volontà di contrastare la forza della mafia, anche contro la sostanziale negligenza dello Stato” .
Tuttavia stima non minore meritano tutte le donne che, nate in ambienti mafiosi o para-mafiosi, hanno avuto la lucidità per diagnosticare la propria prigionia e il coraggio – talora stupefacente – di spezzare le catene e di intraprendere strade di liberazione. (Talora questo transito viene formulato come passaggio dalla mafia allo Stato, ma è un modo troppo sbrigativo di esprimersi: la mafia è anche infiltrata in gangli decisivi delle istituzioni statali, dunque se ne esce per passare dalla parte della legalità costituzionale incarnata da pezzi dello Stato democratico). Le loro vicende dimostrano
“quanto sia difficile scegliere di parlare e quali conseguenze di isolamento dall'ambiente popolare può portare una tale scelta. Ma questo isolamento purtroppo è ovvio: viene rotto un codice di comportamento; c'è una paura delle conseguenze ed è naturale che si voglia dimostrare che non si ha niente a che fare con quelli che quel codice di silenzio e di ricerca della vendetta privata hanno violato. Non è altrettanto ovvio che l'isolamento sia anche da parte della cosiddetta «società civile» che dice di volere la lotta alla mafia. Ma purtroppo questo è avvenuto […] per tutte le donne di estrazione popolare, a causa di una concezione della mafia come cancro, come antistato, e quindi della lotta antimafia come lotta di giudici e poliziotti, o in ogni caso come lotta di élite, fatta di manifestazioni, ma che esclude sostanzialmente un'attività per un cambiamento del comportamento delle masse popolari, per una liberazione dalla sudditanza alla mafia, per una crescita della coscienza civile da parte dei soggetti più deboli economicamente e quindi più esposti all'arruolamento della mafia” .
c) Se si vogliono tenere nella considerazione che meritano i vissuti di molte di queste donne fuoriuscite dalla 'caverna' mafiosa, non si può ignorare che l'esodo non è necessariamente accompagnato da risentimento e odio verso i padri, i fratelli, i mariti (come normalmente avviene nell'animo di donne maltrattate da congiunti maschi); talora c'è proprio una tensione fra affezione privata e rottura pubblica (in modalità non necessariamente eclatanti). Questa tensione si risolve nei casi in cui la donna intuisce che, proprio perché legata da una qualche forma d'amore, spera di dare al congiunto un'estrema sollecitazione a liberarsi da quella cappa tossica da cui ella si è liberata. Nessuna contraddizione, perciò, fra la memoria grata di ciò che un soggetto è stato come padre o compagno di vita e il rifiuto dell'apparato ideologico ed etico che lo ha plasmato come mafioso inchiodandolo a un ruolo da cui è arduo decidere di evadere. Per capire questo, e soprattutto per viverlo, è necessario un colpo d'ala che ci elevi al di là dell' “alternativa tra mafia e legalità, o tra mafia e antimafia”, all'altezza di un punto di vista che “non cancella le ingiustizie ma le pone in un quadro differente”. A tale livello può condurci solo la tensione esistenziale “ad un ordine trascendente che informa le azioni della vita quotidiana, una forza d'animo che viene da una sapienza spirituale”: ma qui inizia tutto un altro discorso.
Augusto Cavadi
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