"Viottoli"
Anno XXV, n. 1 /2022
IL FEMMINISMO E’ PER TUTTI ?
Per sessismo intendiamo la convinzione che un sesso sia migliore di un altro ed abbia dunque diritto di predominare. Se questo sesso è il sesso maschile, il sessismo si declina come maschilismo. Nell’immaginario collettivo, il femminismo sarebbe la versione opposta: il sessismo al femminile. Se così fosse, maschilismo e femminismo starebbero – sia pur in opposizione reciproca – sullo stesso piano. Ma è davvero così? Per alcune donne è stato, o forse continua ad essere, così. Per altre, invece, il femminismo, lungi dal voler affermare il dominio di un sesso sull’altro, vuole sradicare ogni forma di dominio: è il movimento che mira a liberare la società (dunque tutte e tutti) da ogni forma di sessismo. Così inteso, esso “non è anti-uomini”: poiché “tutti noi, femmine e maschi, siamo stati addestrati fin dalla nascita ad accettare pensieri e azioni sessiste” (quasi sempre si tratta di sessismo maschilista o patriarcale), “le donne possono essere sessiste tanto quanto gli uomini”. E gli uomini possono avere l’interesse, il desiderio, di liberare la società dal patriarcato esattamente come le donne. Questa l’idea centrale (che ne spiega anche titolo e sottotitolo) dell’agile volumetto Il femminismo è per tutti. Una politica appassionata (Tamu Edizioni, Napoli 2021) scritto, nel 2000, dalla pensatrice afro-americana bell hooks (la scelta di evitare le iniziali maiuscole dello pseudonimo è della stessa autrice).
Nell’impossibilità di restituire la ricchezza di spunti contenuta in queste duecento paginette, mi limito a qualche sottolineatura arbitraria.
La prima: la causa del femminismo non esaurisce lo spettro di cause per cui vale la pena impegnare l’esistenza. Per vivere “in un mondo dove non esiste dominio, in cui donne e uomini non sono simili o neppure sempre uguali, ma dove l’idea della reciprocità è l’ethos che modella la nostra interazione”, “la rivoluzione femminista” è necessaria e, tuttavia, insufficiente: va coniugata con il superamento del “razzismo”, del “classismo” e dell’ “imperialismo”. L’autrice rimprovera ad alcune versioni del femminismo di concentrarsi sulla promozione socio-economica delle donne in generale, dimenticando che tale emancipazione è possibile, in una società divisa in classi sociali e in etnie d’origine, solo alle donne appartenenti, in uno Stato colonialista come ad esempio gli USA, alle classi medio-alte e di colore bianco: non è altrettanto possibile alle donne che vivono in Paesi colonizzati né, negli stessi USA, che appartengono a classi sociali svantaggiate e/o a minoranze etniche. Si può osservare che – con leggere differenze – il contesto statunitense è simile all’europeo e che, perciò, anche in Italia si dovrebbe coltivare uno sguardo complessivo sull’intreccio fra le tematiche femministe, le sperequazioni socio-economiche interne al nostro Paese, le difficoltà supplementari che devono affrontare gli immigrati (specie extra-comunitari) e i meccanismi di sfruttamento attivati dal nostro sistema nazionale ai danni di Paesi meno autonomi politicamente. Coltivare un tale sguardo sinottico, globale, non implica che ciascuno/a di noi si dedichi, contemporaneamente, ad affrontare tutte queste problematiche: di fatto potrà concentrare soltanto su un fronte di battaglia le proprie energie. Purché questa sorta di “divisione del lavoro” avvenga nella consapevolezza che la guerra verso le ingiustizie è molto più ampia e articolata dell’ambito settoriale in cui ci si impegna. Da qui il rispetto, anzi la solidarietà attiva, verso ogni altra persona che si impegni per altre cause sociali (anche non citate dall’autrice, come ad esempio la questione ecologica).
Una seconda sottolineatura: il femminismo è una pratica politica, ma non priva di radici spirituali. Attenzione, però! Spiritualità non è sinonimo di religiosità né ancor meno di appartenenza ad una chiesa. In tutte le religioni storiche il maschio ha avuto la preminenza sulla femmina. Il femminismo si è dunque impegnato in due tempi: innanzitutto a criticare l’impianto maschilista e patriarcale delle religioni di appartenenza (anche, ma non solo, la religione ebraico-cristiana) delle donne credenti; poi – e qui sono state coinvolte anche le donne estranee alle grandi tradizioni religiose storiche – a esplorare quei campi ‘spirituali’ che si trovano al di là dei recinti delle istituzioni confessionali (dal momento che vi sono molte maniere di vivere una propria spiritualità autentica). Per le donne e gli uomini che vogliono informarsi e aggiornarsi è ormai evidente che “la liberazione da ogni forma di dominio e di oppressione è in sostanza una ricerca spirituale”: sia perché non c’è lotta politica efficace senza una qualche forma di spiritualità sia perché, all’inverso, non c’è spiritualità autentica che non si traduca operativamente in liberazione da ogni forma di oppressione.
Una terza sottolineatura: la consapevolezza dei diritti delle donne – come avviene per ogni altro genere di diritti – non si acquisisce una volta e per sempre. Va rinnovata, pedagogicamente, di generazione in generazione: “Quando il movimento femminista contemporaneo ha preso il via, avevamo una visione della sorellanza ma nessuna conoscenza concreta del lavoro effettivo che avremmo dovuto fare per trasformare la solidarietà politica in realtà. Grazie all’esperienza e al duro lavoro e, sì, imparando dai nostri fallimenti e dai nostri errori, adesso disponiamo di un corpus di teorie e pratiche condivise che può insegnare alle nuove convertite alla politica femminista che cosa va fatto per creare, mantenere e proteggere la nostra solidarietà. Poiché masse di giovani donne sanno poco del femminismo e molte presumono erroneamente che il sessismo non sia più un problema, l’educazione femminista alla coscienza critica deve essere continua. Le pensatrici femministe più anziane non possono presumere che le giovani giungeranno a conoscere il femminismo semplicemente diventando adulte. Hanno bisogno di una guida. Nella nostra società le donne stanno complessivamente dimenticando il valore e il potere della sorellanza. Il rinnovato movimento femminista deve alzare ancora una volta la bandiera e proclamare daccapo «la sorellanza è potente»”.
La dimensione pedagogica che il movimento femminista non dovrebbe dare mai per scontata, o addirittura superflua, si collega in questo “manuale” con l’attenzione ai minori: infatti la “violenza domestica” non è esclusivamente esercitata da uomini su donne, ma si registra altresì “nelle relazioni tra persone dello stesso sesso” (dunque anche fra “donne in coppia con altre donne”) e, da parte di “adulti di entrambi i sessi”, ai danni di “bambini”. Come ha scritto la medesima bell hooks in un libro precedente (anch’esso disponibile in traduzione italiana col titolo Elogio del margine, edito insieme ad una conversazione con Maria Nadotti intitolata Scrivere al buio), “donne e uomini devono opporsi all’uso della violenza come strumento di controllo sociale in tutte le sue manifestazioni: guerra, violenza maschile contro le donne, violenza degli adulti contro i bambini, violenza adolescenziale, violenza razziale, eccetera. L’impegno femminista per porre fine alla violenza maschile contro le donne deve espandersi in un movimento teso a mettere fine a ogni forma di violenza”.
Una quarta sottolineatura: il femminismo non è negazione dell’amore tout court, ma solo di una sua versione patriarcale-maschilista. E’ contestazione dell’idea che “l’amore romantico” renda “inconsapevoli, impotenti e fuori controllo” al punto che si possa “fare qualsiasi cosa: picchiare le persone, limitarne i movimenti, perfino ucciderle e definirlo un «delitto passionale», dichiarare «la amavo al punto che ho dovuto ucciderla»”. Se in una prima fase del femminismo c’è stata la tendenza a diffidare dell’amore e ad occuparsi della lotta per “i diritti e il potere”, è tempo di proporre “un discorso femminista positivo sull’amore”: inteso come cura “della crescita reciproca e dell’autorealizzazione tanto nella coppia” (omosessuale o eterosessuale) “quanto nell’esercizio della funzione genitoriale”. L’apporto specifico del femminismo all’elaborazione (incessantemente necessaria) di una teoria dell’amore è, probabilmente, nella sottolineatura che “non può esserci amore senza giustizia”.
Una quinta sottolineatura se il femminismo non è la manifestazione pubblica, collettiva, del risentimento femminile contro gli uomini; se esso è la rivolta contro “le idee e gli atti sessisti, a prescindere dal fatto che a perpetuarli sia una donna o un uomo, un bambino oppure un adulto”; se il totem da abbattere non è questo o quel singolo individuo maschilista, bensì “il sessismo sistemico istituzionalizzato”, allora non può sorprendere che alcuni uomini possano mirare a incarnare una “maschilità femminista”. L’espressione è volutamente ossimorica, provocatoria. Ovviamente non si tratta di annacquare la maschilità dei maschi, al contrario di liberarla dalle scorie, di rafforzarla e di farla splendere in misura più luminosa. Essa vuole costituire l’inversione dell’ “idea militaristica e patriarcale della maschilità”: “ecco perché il movimento degli uomini ha davvero cercato di insegnare ai maschi a riconnettersi con i propri sentimenti, a rivendicare il bambino interiore perduto e a nutrire la sua anima, la sua crescita spirituale”. Probabilmente “maschilità femminista” è una formula che conviene adoperare con cautela, a tempo: può servire come choc per scuotere la pigrizia mentale di chi misconosce la raccomandazione junghiana di conciliare, in sé stessi, la dimensione ‘maschile’ e la dimensione ‘femminile’. Ma in prospettiva sarebbe meraviglioso poterla abbandonare una volta che nel senso comune la maschilità senza aggettivi, la maschilità autentica, sarà già intesa come armonia psico-fisica, tenerezza relazionale, propensione alla cura…senza la necessità di evocare qualità convenzionalmente attribuite alle donne.
Comunque lo si voglia denominare (maschilità femminista o risanata o integrale o matura o ‘plurale’…), questo modello di pensiero e di vita va guadagnato con metodo. Non lo si acquisisce con uno schiocco di dita da un giorno all’altro. Ecco perché bell hooks sostiene che “i maschi di tutte le età hanno bisogno di ambienti in cui la loro resistenza al sessismo sia espressa e valorizzata”: ambienti in cui essi possano auto-formarsi, ma anche progettare interventi pedagogici per “spiegare a ragazzi e uomini che cos’è il sessismo e in che modo lo si può trasformare”. Il proliferare di tali “gruppi maschili” farebbe bene non solo ai maschi, ma a tutto il femminismo militante: “senza i maschi come alleati nella lotta il movimento femminista non progredirà. […] Un maschio che si è spogliato del privilegio maschile, che ha fatto propria la politica femminista, è un valido compagno di lotta, tutt’altro che una minaccia per il femminismo, mentre una donna che resta legata al pensiero e al comportamento sessista infiltrandosi nel movimento femminista costituisce una seria minaccia”.
Una sesta e ultima sottolineatura riguarda il linguaggio con cui femministe (e, aggiungerei, almeno per quanto riguarda l’Italia, maschi solidali con la causa femminista) espongono al grande pubblico le proprie tesi. Che ci sia bisogno di luoghi, come le università, in cui si elabori un pensiero complesso e ci si confronti con vocaboli tecnici, è inevitabile. Ma, man mano che si acquisiscono delle teorie, ci si deve porre seriamente il problema della loro traduzione per chi vive nella quotidianità. Invece non possiamo non condividere l’autocritica di bell hooks quando scrive: “non abbiamo prodotto un corpus di teoria femminista visionaria scritto in un linguaggio accessibile o condiviso tramite la comunicazione orale. Oggi nei circoli accademici la teoria femminista più celebrata è scritta in un gergo sofisticato che solo chi ha una buona istruzione è in grado di leggere. Nella nostra società la maggior parte delle persone non conosce neppure l’abc del femminismo; non può acquisirlo tramite documenti di diverso tipo, manuali scolastici e così via, perché questi materiali non esistono. Se vogliamo ricostruire un movimento femminista che sia davvero per tutti, questi materiali vanno creati”.
Una chiosa a margine : di questo libro, a mio parere quasi per intero condivisibile, mi lasciano perplesso solo le pagine dedicate, all’interno del capitolo sui “diritti riproduttivi”, al tema dell’aborto. Non penso che il feto sia riducibile, biologicamente, a una “parte” del corpo della donna: esso è costituito da “parti” del corpo maschile e, soprattutto, comporta una qualche forma di consistenza autonoma rispetto ai corpi dei genitori. Che questo dato oggettivo, scientifico, ponga interrogativi etici, mi pare innegabile e mi stupisce un po’ che un’intelligenza spregiudicata e sensibile come l’autrice non ne faccia cenno neppure en passant. Combattere l’impostazione tradizionale, che ha attribuito a tutti (mariti, medici, politici, preti…) tranne che alle madri il diritto di decidere in questo campo, è ovviamente sacrosanto, fuori discussione. Ma non si aiutano le donne in difficoltà a decidere se – una volta liberatele dalle minacce legali - le si illude che si tratti di un’operazione chirurgica del tutto assimilabile all’asportazione di un’appendice infiammata o di un tumore minaccioso. Data la rilevanza tragica, che non va banalizzata, di simili decisioni – e le inevitabili conseguenze psichiche nell’animo della donna – trovo più convincente insistere, come accenna la stessa bell hooks, sulle strategie da attivare per prevenire situazioni moralmente impegnative: “se l’educazione sessuale, la prevenzione sanitaria e un facile accesso ai contraccettivi venissero offerti a tutte le donne, saremmo in meno ad avere gravidanze indesiderate. Di conseguenza, il bisogno di aborti diminuirebbe”.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
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