A distanza di trent’anni dalle stragi mafiose che, nel giro di nemmeno due mesi, costarono la vita ai magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e agli uomini delle loro scorte, le commemorazioni sono doverose e necessarie, anche nell’ambito dell’editoria. La loro assenza significherebbe dimenticanza e indifferenza nei confronti di chi ha dedicato la propria esistenza al contrasto alla mafia e difetto assoluto della più elementare sensibilità civica.
Ma come commemorare quei fatti tragici che hanno inciso sulla storia del nostro Paese e di riflesso su quella di ciascuno di noi? Bandendo ogni forma di retorica, sempre in agguato in queste circostanze e sempre fuorviante.
Proposito non facile da seguire, pure in un libro. Ne è consapevole il magistrato Franca Imbergamo che, nella prefazione del saggio di Augusto Cavadi “Quel maledetto 1992, L’inquietante eredità di Falcone e Borsellino” (Di Girolamo editore), riconosce all’autore il merito di essere riuscito a eludere il rischio della retorica.
Come e grazie a che cosa è riuscito a cavarsela Cavadi? Dovendo sintetizzare, si potrebbe rispondere con l’umiltà di chi, svestendo (in apparenza) i panni dell’esperto, ha affrontato il tema con partecipazione emotiva – non nascondendo il dolore vissuto a seguito degli eccidi di Capaci e di via Amelio – e razionalità.
Cavadi si è innanzitutto posto una domanda: che cosa non è cambiato e cosa invece è cambiato da allora. Rispondendo che, da un lato, rimangono ancor oggi interrogativi inquietanti su quelle stragi e che l’attività investigativa svolta, segnata da clamorosi depistaggi, non è affatto soddisfacente, la mafia – pur occultandosi – continua a insidiare la nostra collettività e le istituzioni; dall’altro alcuni segnali, a partire da una coscienza critica ben più matura nella generalità dei cittadini, lasciano ben sperare. Quindi il saggista palermitano fornisce una serie di indicazioni su come ciascuno di noi può in concreto e nella quotidianità dire no alla mafia al di là dei proclami di facciata o astratti.
Il saggio di Cavadi, nel ricordare Falcone e Borsellino, si presenta, pertanto, come una sorta di vademecum del cittadino antimafioso: un vademecum semplice, essenziale, pragmatico.
Che fare, dunque?
Primo: informarsi. Occorre conoscere il fenomeno mafioso, leggere i libri che su di esso sono stati scritti, seguire nei mass media i dibattiti che lo riguardano. La mafia, in tutte le sue sfaccettature, va compresa: solo così può fare meno paura e la si può fronteggiare corazzati. A proposito l’autore ricorda di avere fondato la Scuola di formazione etico-politica G. Falcone che, senza sostituirsi alle istituzioni scolastiche e ad esse affiancandosi, promuove iniziative volte a diffondere le conoscenze sulla mafia.
Secondo: approcciare la mafia con “strategie non violente”.
Ciò comporta tante cose, e per primo guardare il mafioso non come un mostro ma come una persona che vive in un determinato contesto, è attratta da modelli diseducativi ed è vittima di disvalori sociali. Il mafioso è pur sempre una persona e come tale può essere soggetto ad attività di recupero e rieducazione. La lezione di Falcone e Borsellino (ma anche di Livatino) è stata quella di sapere interloquire con mafiosi di diversa levatura (pure pesi massimi) riconoscendogli la dignità di persone.
Terzo: rifuggire dai comportamenti illeciti che possono foraggiare la mafia. L’imprenditore o il commerciante che paga il pizzo mette a rischio la vita di chi non lo paga. Ogni atteggiamento acquiescente e debole nei confronti di consuetudini paramafiose rende un servizio a Cosa nostra. Dovrebbe ricordarselo la chiesa siciliana che, tante volte e tuttora, con condotte apparentemente neutrali fa il gioco della mafia.
Quattro: non estraniarsi dalla vita politica, ma anzi parteciparvi direttamente. E’ un errore – osserva Cavadi – ritenere che la politica sia qualcosa di “sporco” per faccendieri e furbi che da essa vogliono trarre solo benefici personali. Vero è che la qualità della politica e dei politici nei nostri giorni è scaduta, ma se ciò è accaduto è anche per colpa di chi, onesto e competente, dalla politica è rimasto lontano lasciandone l’esercizio ai peggiori. E’ in sede politica che si assumono le decisioni su come contrastare la mafia e se si ha davvero a cuore debellarla o indebolirla è necessario guardare la politica con interesse e senza pregiudiziale diffidenza.
Tante altre cose, oltre queste, Cavadi suggerisce per accostarci alla mafia con consapevolezza critica, intelligenza e coraggio in un libro che è un omaggio a Falcone e Borsellino all’insegna di un verbo che loro coniugavano al meglio e ogni giorno: il verbo “fare”.
Per l'edizione in originale, con l'apparato iconografico, cliccare qui:
2 commenti:
Ho letto, oltre alla bella recensione di Cangemi, il tuo libro sul maledetto 1992, che mi pare molto utile e che consiglierò.
Ritengo, cari Augusto Cavadi e Nino Cangemi, sia venuto meno in questi ultimi decenni il ruolo, fondamentale, dei cosiddetti intellettuali che oggi pensano esclusivamente a promuovere i loro libri. A ciò si aggiunga il venir meno di giornali quali L’ORA di Palermo e l’Unità che della lotta alla mafia era l’ impegno quotidiano. Vittorio Riera.
Posta un commento